Ultimo aggiornamento Martedì 20 Dicembre 2011 07:29 Scritto da Ada Masoero – Il Sole 24 Ore
È il destino di ogni arte di regime condividere gloria e rovina con il dittatore, subendone poi per decenni l’identica damnatio memoriae. Difficile risalire la china, anche per artisti grandissimi, come il nostro Sironi, liquidato come “pittore fascista” per quasi 40 anni dopo la fine della dittatura, a dispetto della sua gigantesca statura d’artista.
Sono bastati invece vent’anni al Realismo socialista sovietico per essere sdoganato sulla scena internazionale. Così, se la Royal Academy of Arts presenta a Londra dal 29 ottobre al 22 gennaio Building the Revolution. Soviet Art and Architecture 1915-1935 e Chicago propone fino alla stessa data un fitto programma di mostre ed eventi sotto il titolo di Vision and Communism, il Palazzo delle Esposizioni di Roma, dopo la monografica del più dotato degli artisti sovietici, Aleksandr Deineka, completa ora la ricognizione su quegli anni con Realismi socialisti, una mostra curata da Matthew Bown, Evgenija Petrova e Zelfira Tregulova con Matteo Lafranconi; la prima di tale respiro fuori dalla Russia. Perché il plurale? Innanzitutto perché il percorso copre un arco cronologico dilatato rispetto a quello canonico, avviandosi nel 1920, quando ancora in Urss sopravvive qualche libertà d’espressione, per protrarsi fino al 1970, in età brežneviana, quando gli artisti si rifugiano nel sogno e nell’interiorità. Ma, più ancora, perché il progetto curatoriale intende evidenziare come il monolitismo ideologico, almeno in alcune sue fasi, abbia saputo convivere con una discreta pluralità artistica.
Nei primi convulsi anni post-rivoluzionari, infatti, tanto Lunacvarskij, il potente commissario del popolo per la cultura, quanto David Šterenberg, da lui posto al vertice delle arti visive, non solo tolleravano ma incoraggiavano il lavoro degli artisti d’avanguardia, da Tatlin a Malevicv, da Kandinskij a Rodcvenko (da non perdere la sua bellissima monografica, sempre in Palazzo delle Esposizioni, che ne documenta la genialità di fotografo e di grafico). Tanto che il critico più ascoltato del tempo, Nikolaj Punin, poteva enunciare che «il comunismo come teoria della cultura non può esistere senza futurismo!». Peccato che Lenin non condividesse (propugnava «un’arte comprensibile alle masse»), e nemmeno Trotsky, che ripeteva: «la nuova arte sarà realista. La rivoluzione non vive di misticismo!». Il che fece ben presto salire alla ribalta artisti come Deineka, realisti sì, ma desiderosi di fecondare il dettato del socialismo con il seme ancora vivo delle avanguardie. Il ritorno all’ordine era del resto un vento che in quegli anni attraversava l’intera Europa dopo gli incendi delle avanguardie, e anche la nuova Russia sapeva stare al passo. Così, nelle due prime sezioni (dal 1920 al ’28 e di qui al ’36) è stupefacente riscontrare come, pur nel solco del solo realismo, il registro espressivo fosse variato e attento alle esperienze internazionali: c’è Filonov, con quella sua pittura brulicante di forme sfaccettate e cristalline, che dovrà poi rigettare; ci sono Petrov-Vodkin e Pimenov, che guardano a Grosz e a Dix; c’è Kustodiev che traduce la marcia del bolscevismo in una fiaba; ci sono i manichini, “eretici” perché spersonalizzati, di Malevicv. E c’è Deineka, qui con il cinematografico La difesa di Pietrogrado. Senza contare il tardo-impressionismo di Nikritin o di Labas. Ma a fare il controcanto ecco il super-accademico Isaak Brodskij, prediletto da Lenin, con un immenso quadro-stendardo che celebra la III Internazionale. Dopo, la musica cambierà: i pieni anni Trenta sono quelli del terrore e delle purghe staliniane ma anche quelli di un’arte mistificatoria, zeppa di operai gioiosi e di contadini festanti. Chi aveva assicurato qualche libertà agli artisti nel frattempo è morto, come Lenin, o è in esilio come Trotskij: il panorama si fa opprimente (esemplare, in mostra, Guida, amico, maestro di Šegal, vera pala d’altare laica innalzata a Stalin e Lenin), sebbene il solito Deineka riesca ancora a regalare qualche brivido. Bisognerà arrivare agli anni 60 e al sinora sconosciuto Gelil Koržev per trovare un artista capace di creare nuove immagini emozionanti ed eloquenti. Sulla peggiore arte sovietica resta però sospesa la domanda che si pone in catalogo (Skira) Ekaterina Degot: non sarà che «tanta bruttezza» è tale solo agli occhi di noi occidentali, abituati a vedere nell’arte un oggetto di mercato? Quella, ci rammenta la studiosa, era un’arte che ignorava i rapporti di scambio e di proprietà; una creazione collettiva destinata alla fruizione collettiva. A noi continua a parere indigesta, ma la domanda è lecita.