Scritto da FRANCESCA BONAZZOLI – Corriere della Sera
Shukin e Morozov, i miliardari che sognarono con Picasso e Matisse
«A rrivati a Parigi scendevano dal treno ed erano già nelle botteghe; davanti ai loro occhi sfilavano tele come episodi di un film, poi tornavano a Mosca senza aver visto altro». Così il critico e giornalista francese Félix Fénéon descriveva due facoltosi collezionisti russi, gli imprenditori tessili Sergei Shukin (1854-1936) e Ivan Morozov (1871-1921). Incuranti delle critiche e persino della derisione dei loro contemporanei benpensanti, spendevano grandi cifre per accumulare quadri degli artisti più radicali dell’avanguardia francese. Erano considerati degli eccentrici, personaggi che volevano mostrarsi diversi e originali, al pari dei pittori da loro amati, a cominciare da Picasso da cui Shukin aveva acquistato cinquanta tele. Shukin era senz’altro più invischiato di Morozov nella «pazzia» collezionistica che lo portò a possedere, fra gli altri, sedici Gauguin e trentasette Matisse. Con quest’ultimo il mecenate russo stabilì una solida amicizia: una costante di comportamento, questa, comune a tutti i grandi collezionisti che traggono gratificazione dalla famigliarità con i geni che ammirano. Anche oggi, per esempio, il multimiliardario Dakis Joannou ama portare fra le isole greche i suoi artisti sullo yacht decorato dall’amico Jeff Koons, non diversamente da come faceva Vincenzo Gonzaga che volle con sé a Genova il suo pittore Rubens con cui partecipò a una memorabile festa organizzata da Nicolò Pallavicino.
Il desiderio di amicizia con gli artisti spesso più trasgressivi da parte di questi miliardari, per lo più imprenditori di gran successo come Shukin, la cui competenza nei prodotti tessili e negli affari gli era valsa il soprannome di «ministro del commercio», ha qualcosa dell’invidia per una vita più libera, squattrinata e sregolata. Una specie di ribaltamento del tavolo delle regole per interposta persona. La stessa propensione che sembra di ritrovare in François Pinault, magnate di una delle maggiori multinazionali del lusso: ingabbiato nelle rigide regole di consigli di amministrazione e indici di borsa, libera la sua energia volando col jet privato da un vernissage all’altro dei suoi artisti pupilli, i più «strani» e controversi del mondo dell’arte. Non diversamente da come facevano i Giustiniani, i banchieri dominatori dei mercati finanziari del Seicento, quando compravano i quadri dello scandaloso Caravaggio per il loro palazzo romano. O come Agostino Chigi, il più ricco banchiere d’Europa nel Cinquecento, che consentì a Raffaello, che gli decorava la villa Farnesina, di lavorare vivendo scandalosamente sotto quelle mura con l’amante, la Fornarina.
Quel che piace a questi miliardari collezionisti, tanto a Shukin come oggi a Charles Saatchi, è la contiguità con l’eccentricità, il gusto di passare per incompresi, per compratori di abbagli e paccottiglia, per poi dimostrare al mondo che loro, con l’arte, come con gli affari, vedono invece più lontano degli altri. È il piacere di creare tendenze, di anticipare e staccare tutti gli altri come fece Shukin che, quando ricevette da Matisse i due pannelli de «La danza e La musica» per la casa di Mosca, rimase perplesso, ma scrisse al pittore queste parole: «Nel complesso li trovo interessanti e spero che un giorno inizierò ad amarli. Di lei mi fido ciecamente. Il pubblico è contro di lei, ma il futuro le è a favore». È proprio questo buttarsi di pancia, tale istinto di gettare il cuore avanti, oltre la prudenza del ben pensare, che fa il grande collezionista. La capacità di vedere subito quello che gli altri impareranno a vedere col tempo. È un magnetismo che li spinge verso i nomi giusti, verso gli artisti più stravaganti senza temerne la radicalità e l’incomprensibilità, anzi lasciandosene invischiare come in una storia d’amore imprudente che regala loro il brivido del rischio. Lo storico dell’arte non ha questo stesso occhio: egli apprezza un artista quando può interpretarlo e incasellarlo nella sequenza storiografica. Il collezionista, invece, lo apprezza perché in quell’artista vede riflessi la propria inclinazione per la follia e il talento della ribellione.