20Sett2012
Scritto da LEA MATTARELLA, la Repubblica
MAESTRO DI TUTTI GLI STILI Al Palazzo Reale di Milano una grande rassegna ripercorre la poetica del genio del Novecento attraverso 250 opere provenienti da Parigi
«La pittura è più forte di me, mi fa fare ciò che vuole», diceva Picasso. Ed era davvero così: il più grande artista del Novecento sembrava posseduto dal suo stesso talento, dalla sua passione, da una vitalità esplosiva e una specie di bulimia creativa che lo portava a sperimentare materiali e linguaggi senza fermarsi mai. Una mostra di Picasso, come quella aperta a Palazzo Reale dove torna dopo quasi 60 anni, curata da Anne Baldassari, che raccoglie 250 tra dipinti, disegni, sculture e fotografie, è un viaggio attraverso invenzioni e suggestioni sempre diverse e affascinanti. È vero, insieme a Braque ha avuto l’intuizione del cubismo, e basterebbe questo per consacrarlo tra i grandi. Ma lui era molto di più, un vero monumento alla storia dell’arte e non era qui, sulla strada cubista, che poteva fermarsi. La sua è una vicenda leggendaria dai molti capitoli che a volte, per sua precisa volontà, si accavallano tra loro.
Le opere esposte in questa occasione ripercorrono le tappe di un cammino che lo ha visto non soltanto inventare ma anche guardare, attravermorte,
sare, amare, possedere e trasformare gran parte delle immagini che lo circondavano. Sempre in modo originale, frugando tra le pieghe dell’arte. Tutta. Dalla scultura iberica all’arte africana, dal classicismo al surrealismo, ma non solo. Diceva: «A me la pittura piace tutta, guardo sempre i quadri buoni o cattivi che siano, dal barbiere, nei negozi di mobili, negli alberghi di provincia. Sono come un bevitore che ha bisogno di vino. Purché sia vino non importa che vino». Guardare per lui significava afferrare. E trasfigurare tutto in qualcosa di personale. Non a caso lo hanno definito il Gran Cannibale della pittura. «Io dipingo esattamente come altri scriverebbero la loro autobiografia. Le tele, finite o non finite, sono come le pagine del mio diario». E quelle che si sfogliano a Palazzo Reale sono davvero le più intime: si tratta infatti di opere che arrivano dal Musée Picasso di Parigi, nato dopo la sua
con i materiali conservati nei suoi diversi studi. Quadri, sculture, disegni che lo hanno accompagnato per tutta la vita. E se si crede alla sua dichiarazione «sono il più grande collezionista di Picasso di tutto il mondo», si può essere certi della qualità e dell’importanza della raccolta che viene presentata qui.
Folgoranti gli esordi. Picasso, che è nato a Malaga nel 1881, compie il suo primo viaggio a Parigi nel 1900 e inizialmente è attratto dall’universo di Toulouse-Lautrec, com’è evidente dall’atmosfera di questo Café Concerto.
Ma nel giro di poco tutto cambia: il suo amico, il poeta Carlos Casagemas che era arrivato con lui da Barcellona dove avevano studiato, si uccide per amore. E il giovane Pablo, dopo averlo raffigurato con il buco della pallottola bene in vista sulla tempia e una lampada che emana irradiazioni colorate alla Van Gogh, mette a lutto la sua tavolozza per varcare la soglia di mondi notturni e oscuri abitati da mendicanti, derelitti, emarginati. Come l’intensa Célestine dall’occhio cieco, uno dei capolavori di questa stagione dominata dalla compassione, nota come il suo “periodo blu”. Dopo, eccolo abbandonare i toni freddi e mettere in scena la rivincita del rosa, degli ocra, di un colore caldo che veste ogni cosa.
Les deux frères del 1906 e l’Autoportrait che pare di pietra, sono un esempio straordinario della malinconia picassiana di questi anni in cui compaiono le prime figure di saltimbanchi e l’Arlecchino che diventerà uno dei suoi tanti alter ego sulla tela.
La sterzata dell’anno successivo non riguarda soltanto Picasso, ma investe tutta la pittura occidentale. Dal 1907 in poi la parola bellezza rivestirà davvero un nuovo significato. Nascono le Démoiselle d’Avignon, precedute dagli studi qui esposti che lo mostrano alle prese con modelle e muse scovate – e non cercate – al museo etnografico del Trocadero. Lui lo racconta così: «Era disgustoso, quando vi sono andato, un mercato delle pulci. Puzzava. Ero solo. Volevo andarmene.
Non me ne andavo. Restavo. Ho capito che era molto importante: mi stava accadendo qualcosa. Le maschere non erano sculture come le altre. Per niente. Erano oggetti magici… Contro tutto: contro spiriti sconosciuti, minacciosi. Continuavo a guardare i feticci. Ho capito: anch’io sono contro tutto… Ho capito perché ero pittore…
Les Demoiselles d’Avignon mi devono essere nate quel giorno: non per via delle forme, ma perché era la mia prima tela di esorcismo». Da lì al Cubismo il passo è breve e così, tra spigoli e scomposizioni, si arriva a un rigore che ha bisogno del monocromo dell’Homme à la guitare e dell’Homme à la mandoline.
Ma non basta. Per conquistare la realtà, questa deve penetrare l’arte: legni, carte, chiodi, carte da gioco occupano lo spazio del dipinto, latte tagliate, piegate e colorate diventano sculture. C’è anche una sella di bici con un manubrio a fingere la testa di un toro o uno scolapasta che è quella di una donna. Ma per Picasso è impossibile fermarsi: nel 1914 dipinge, ritrovando una volumetria classica,
Il pittore a la modella.
Una parentesi? Niente affatto. Nel 1917, mentre il cubismo si diffonde come un’epidemia diventando quasi un’accademia, lui che fa? Un viaggio in Italia dove collabora con i Balletti russi e si innamora di Olga, una ballerina, che subito ritrae strizzando l’occhio ad Ingres. Ed è lui stesso a raccontare di averlo fatto perché «non si è stregoni a tempo pieno. Come si potrebbe vivere?». Nascono così, da suggestioni mediterranee e rivolte all’antico, le sue gigantesse che corrono in riva al mare, monumentali anche nella piccola dimensione. E Paul en Arlequin, un capolavoro nella sua risolta incompiutezza. Ma Picasso non la smette di infilarsi in nuove avventure: deforma surrealisticamente strane figure che giocano a palla sulla spiaggia o si accoppiano in maniera bizzarra. L’eros ha un ruolo fondamentale nella sua vita e dunque nella sua arte. La sua amante Marie Thèrese è la protagonista di immagini neocubiste dalla forte componente sensuale, mentre l’altra sua compagna, la fotografa
Dora Maar, è spesso ritratta che piange. Succede nel 1937 quando Picasso sta immaginando Guernica, la sua opera “politica”, insieme al Massacro in Corea
qui esposto. Dopo è un fiorire di bagnanti, donne che si pettinano o leggono, nudi distesi, rivisitazioni dei grandi maestri del passato che anticipano il postmoderno. Fino a quell’ultimo Le jeune peintre dipinto nel 1972 che sembra voler schiacciare il pulsante sul rewind. Per ricominciare ancora.