Scritto da FRANCESCA BONAZZOLI – Corriere della Sera
Il dramma dei vinti dell’industrializzazione nei dipinti degli istituti di carità
Come succede in tutti i movimenti, anche nel divisionismo convivono sensibilità differenti, se non addirittura agli antipodi. Una sezione della mostra mette in evidenza una corrente specifica, quella del «divisionismo ideologico» (chiamato anche divisionismo socialista) caratterizzato cioè dall’impegno umanitario e sociale a differenza del «divisionismo ideista» che si connota invece per i contenuti simbolisti universali e la spiritualità panteista e il cui capofila fu Giovanni Segantini. Fra gli artisti più impegnati appartenenti al divisionismo socialista va invece nominato l’alessandrino Angelo Morbelli che a Milano, capitale dell’esperienza divisionista, realizzò una serie di tele straordinarie dedicate al Pio Albergo Trivulzio, l’istituzione milanese (a tutti nota perché l’arresto del suo presidente Mario Chiesa diede avvio a Mani Pulite esattamente venti anni fa) dedita all’assistenza degli anziani poveri. Morbelli, che iniziò a interessarsi agli ospiti del ricovero sin dagli inizi degli anni Ottanta, ancora prima di aderire al divisionismo, ottenne persino uno spazio in cui lavorare dentro l’istituto che era stato voluto dal principe Trivulzio e che faceva parte di una rete di assistenza a orfani, senza lavoro, vecchi, malati, che costituiva un fenomeno peculiare della milanesità.
A Milano, dove il lavoro femminile era superiore a quello delle altre città, nel decennio 1850-60 i neonati abbandonati nella ruota del brefotrofio di Santa Caterina salirono a ben 4.384 contro i 3.300 del decennio precedente. Una piaga in parte alleviata dai Martinitt e dalle Stelline, i due istituti che accoglievano rispettivamente gli orfani e le orfane. Le fabbriche come la manifattura tabacchi, le ceramiche Richard o la fabbrica di bottoni Binda, nate a partire dagli anni Quaranta, erano di dimensioni ancora ridotte rispetto agli stabilimenti del Nord Europa ma segnarono l’inizio della Milano industriale. Alla vigilia dell’unità d’Italia erano impiegati in piccole manifatture tremila lavoratori dell’industria serica cui si aggiungevano altri mille nell’indotto. Poi c’erano i duemila addetti alla fabbricazione delle carrozze, piccole officine che trovano sistemazione spesso nei sottoscala o nei cortili delle case; i novecento delle oreficerie e bigiotterie; i settecento della concia e lavorazione delle pelli; i duecentocinquanta dediti a cappelli di feltro e cascami e anche mille lavoratori nelle tipografie. Alcune donne integravano il bilancio familiare lavorando a domicilio come ricamatrici, rammendatrici, guantaie, modiste e per loro era sempre più difficile occuparsi dei molti bambini che partorivano. A questi lavoratori si aggiungevano quelli stagionali, attratti in città da occasioni di lavoro temporaneo (muratori, facchini) e che, quando tornavano disoccupati, andavano a ingrossare le fila di coloro che vivevano ai margini: anziani, deboli, malati, menomati fisicamente.
A metà Ottocento l’Ospedale Maggiore, la più grande istituzione di assistenza milanese, dava ricovero giornaliero a oltre duemila persone, molte delle quali non erano malate ma indigenti senza cibo e senza un tetto. Nel 1906 furono censite a Milano circa cinquecento istituzioni dedite alla beneficenza con un patrimonio di oltre trecento milioni di lire. Rispetto alle istituzioni di beneficenza di altre città, la loro peculiarità era quella di ricordare i benefattori attraverso dipinti o busti: non tanto ritratti celebrativi ma commissionati per ringraziamento e come modelli di carità da emulare. Addirittura i maggiori istituti di carità avevano individuato alcuni pittori con i quali instaurare un rapporto privilegiato per la committenza dei ritratti dei benefattori. Con gli anni hanno accumulato centinaia di opere diventate vere e proprie quadrerie anche grazie a lasciti di intere collezioni.
In questo clima, nel 1895 Pellizza da Volpedo, l’autore de «Il quarto stato» conservato al museo del Novecento di Milano, scriveva all’amico Morbelli: «Sento che ora non è più l’epoca di fare arte per l’arte ma dell’arte per l’umanità».