Scritto da PIERLUIGI PANZA – CORRIERE DELLA SERA
E i contemporanei guardano indietro dal nostro inviato
VENEZIA — Esauriti tutti i post, le decostruzioni e le sperimentazioni, l’età della morte dell’arte si trova a fare i conti con una vasta area di nichilismo operativo dove tutto è possibile, ma ogni esperienza è chiamata solo a emozionare. Così quest’anno le due principali rassegne della Biennale — che oggi verrà ufficialmente presentata dal ministro Galan e dal presidente Baratta — appaiono puntare su un evergreen della creatività: la reinterpretazione degli antichi maestri. Infatti, per quanto diverse nella genesi e nei fini, sia i ILLUMInazioni, curato dalla critica zurighese Bice Curiger, che il Padiglione Italia curato ma non selezionato da Vittorio Sgarbi, presentano una costante: la reinterpretazione di qualche opera del passato. L’illuminazione sarà «un fatto individuale» , come sostiene Baratta attraversando la 54ma mostra e «non di massa» (salvo, forse, i Lumi), ma pare che gli artisti si siano accesi soprattutto mettendo a nudo, ironizzando o interpretando grandi maestri e temi. Intanto mai si erano viste alla Biennale di Venezia tre opere veneziane di un maestro veneziano come Tintoretto. «Venendo alla Biennale ho sempre trovato strano che ci fosse solo dell’arte contemporanea— racconta la Curiger —. Così ho voluto portare anche Tintoretto perché è un pittore sperimentale, anticlassico e rispetto ad altri artisti del passato ha una forza più contemporanea. Basta pensare al suo Cenacolo: il tavolo sembra scivolare sul fondo e ci sono ombre e facce con una fisiognomia nuova rispetto a Leonardo» . Quanto ai 200 piccioni imbalsamati che Cattelan ha disposto tutto intorno ai quadri di Tintoretto, la curatrice afferma: «L’architettura moderna ha scelto di esporre ogni quadro all’interno di stanze che sono scatole bianche. Io, anziché i drappeggi di un tempo, ho pensato di interrompere questo bianco con una forza che entra dall’esterno» . Questa forza sono i piccioni di Cattelan. Ma anche quando non sono esposti gli antichi maestri veri e propri, sono i nuovi che usano gli antichi. Quella dello svizzero Urs Fisher è una delle opere più osservate dentro l’Arsenale. Presenta un Ratto delle Sabine del Giambologna (1583) in grandezza originale in cera con davanti un amico con candela accesa in testa e, di fianco, la poltrona del suo studio con la cera che cola. Anche Karl Holmqvist dà un’interpretazione di un classico dell’architettura come il Palazzo dell’Eur. E anche Sgarbi, dopo aver pensato a un Padiglione Italia con il solo Cristo Morto del Mantegna, avrebbe voluto i Tintoretto. E poiché sono andati alla Curiger manifesta il dissenso: «Non ce l’ho con la Biennale ma con il ministero che ha dato l’autorizzazione per farli spostare» . Ma se il vero Mantegna non c’è, anche al Padiglione Italia il gioco ironico sul passato è onnipresente tra i 200 o più artisti esposti. Giuseppe Veneziano usa il tema della crocifissione ma con il Cristo in mutande firmate Dolce &Gabbana. Cosa che non piace a Gaetano Pesce, che vorrebbe «rispetto e una coraggiosa lettura del passato, pur senza prendersi troppo sul serio come, intelligentemente, Sgarbi invita a fare» . E, in astratto, non gradisce troppo neanche Baratta, che vorrebbe da parte dei «brand» un impegno comune intorno alla Biennale e non ciascuno per sé. Molte altre opere del Padiglione sgarbiano riprendono Piero della Francesca (quella di Federico Fedeli è una sorta di cornice a un vero Piero della Francesca di piccole dimensioni), temi come la Medusa, o la Madonna del Parto o L’Ecce homo (quelle di Lois Anvidalfarei) o proprio il Cristo Morto di Mantegna radiografato da Menghetti. Oppure che «reinterpretano» opere dell’Ottocento e della modernità, dalla Zattera della Medusa di Gericault (Colin) a L’origine del mondo di Courbet rifotografata da Donata Pizzi e posta in fianco a una icona pop stile Andy Warhol di Berlusconi («l’origine del mondo è la sua ossessione» , chiosa Sgarbi) di Vaccari.