Scritto da LEONETTA BENTIVOGLIO – la Repubblica
NEW YORK .
Troneggiano, nelle bacheche degli spazi espositivi, arnesi obsoleti della vita quotidiana, tipo una vecchia antenna televisiva a forma di doppio rombo: un residuato aguzzo che Vladimir Arkhipov trasforma in opera pop. Appartamenti asfittici, ripresi in video o immortalati da lavori fotografici, segnalano dimensioni di estrema marginalità, come nel caso delle immagini ambientalmente squallide, e ciò nonostante vitali, realizzate dal rumeno Ion Grigorescu, dove uomini nudi ballano tra pile caotiche di libri, sfidando la claustrofobia delle loro abitazioni con gesti sfrenati. Un altro aspetto è il senso di un maniacale isolamento: emerge, per esempio, nell´opera di Viktor Pivovarov, con la sua mappa solipsistica del regime giornaliero di un uomo. Un desolato cronometro, suddiviso in 24 fasce orarie, è architettato in modo che a ogni ora corrispondano compiti e ruoli imposti dai doveri sociali.
Percezioni di memorie profonde, senza riscatti né indulgenze, affiorano dalle foto in bianco e nero di Nikolay Bakharev: un´adolescente troppo magra, abbattuta e inerme, spicca distesa sull´erba con un bikini leopardato; e sono carnalissimi i quadri fotografici anni Settanta di vasti gruppi di famiglia all´aria aperta, ritratti da Bakharev in raduni estivi o in pic-nic. Tutti indossano ruvidi costumi da bagno, e pargoli mocciolosi si appendono ai corpi flosci di donne che testimoniano destini stanchi, logorati dal lavoro e dalle maternità. Comunicano struggimenti e acute mancanze anche le immagini di Helga Paris, bravissima fotografa dell´ex Germania est, che schiaccia in impietosi primi piani iperrealisti i volti di operaie delle fabbriche tedesche: occhiaie fosche, grembiuli sformati, sguardi obliqui che fuggono altrove.
Sono alcune delle cadenze del viaggio tra i luoghi e gli oggetti del tramontato comunismo che compie Ostalgia, mostra ospitata (prorogata con successo fino al 2 ottobre) dal New Museum, il cui edificio è un mastodontico blocco ferrigno che si erge come un monolite incongruo tra i colori pittoreschi della Bowery di New York. Vi sono esposte le opere di una cinquantina di artisti di diverse generazioni, operativi lungo un periodo che dagli anni precedenti alla caduta del Muro arriva fino a oggi. Provenienti da vari paesi, e in particolare da Germania, Russia, Polonia, Romania ed ex Jugoslavia, sono identità condizionate dall´esilio e dalla perdita, e legate da una rete di emblemi e ricordi che li uniscono e li tormentano, in un intreccio di rapporti psicologici e simbolici che supera le differenze culturali e le contingenze territoriali.
Il titolo dell´esibizione (il cui epicentro temporale è il passaggio sconvolgente durante il quale si sono verificati il dissolversi dell´Unione Sovietica, la fine del Patto di Varsavia e il primo governo della Germania unita), coincide con un neologismo tedesco che amalgama le parole “Ost” (cioè Est) e “Nostalgie”. Il termine prese a circolare in Germania negli anni Novanta, dov´era usato per descrivere il rimpianto dei trascorsi socialisti. D´altronde, come nota a più riprese nel suo bel testo di presentazione della mostra Massimiliano Gioni, un cambio di marcia di proporzioni tanto gigantesche non poteva essere assorbito all´improvviso: l´interiorità delle persone si muove con molta più lentezza della Storia.
Scandita per un verso da narrazioni originali, e per un altro dalla ricostruzione (psicologica, sociale, culturale) del passato prossimo, Ostalgia incorona, come cuore del discorso, l´estetica e gli assiomi del socialismo sovietico, con i vari annessi consapevoli o inconsci. Molte delle opere mirano all´enfasi di personaggi eroici, come Once in the XX Century, dove Deimantas Narkevicius filma la resurrezione di un monumento a Lenin, reinstallato su un piedistallo con strombazzanti fanfare. È ossessiva la presenza delle parole e del linguaggio, sia come attaccamento alla burocratizzazione tipica degli Stati socialisti, sia come uso martellante di slogan politici, sia come culto di una letteratura e di un giornalismo sotterranei, distribuiti clandestinamente. C´è qualcosa di commovente nella volontà passatista di Andrei Monastyrski di disseminare di strani e verbosi striscioni le distese innevate del paesaggio russo. È la voglia di invadere gli spazi di ricordi.
Un´altra peculiarità della mostra newyorkese è l´abbondanza di documentari e video, che ci dicono il peso della funzione avuta dalla tivù nel diffondere il verbo ideologico dei regimi dettati dal totalitarismo sovietico, come nei film di certe interminabili sessioni dei congressi comunisti, dove l´incontinenza delle arringhe sconfina nel comico. E nel suo diario Lithuania and the Collapse of the Urss, Jonas Mekas, un espatriato che vive a New York, monta un collage di programmi televisivi americani votati a ciò che accadde in Lituania nel ´91, quando il paese cominciò a staccarsi dall´Unione Sovietica.
L´aspetto più pervasivo della mostra è il senso di vissuto, consunto e dismesso di visioni e cose che compongono l´atlante mnemonico di Ostalgia. Al confronto delle prospettive “ostalgiche”, l´Occidente è saturo, lustro, acido e volgare: un mondo dove tutto – arredi, corpi, vestiti, pubblicità, automobili, panoramiche urbane – si espone come patinato, impudente, artefatto ed eccessivo. Invece i fisici “ostalgici” non sono mai palestrati. Le facce non sono liftate. Gli abiti non sono alla moda. Le pettinature sono casuali o selvagge. E in questo slittare all´indietro dei simulacri consumistici, sbalza in superficie una specie di romantica innocenza. Il sentire “ostalgico” è tenue e discreto, oltre che permeato dalla lotta all´oblio: un tema, non a caso, caro ai due più importanti scrittori sovietici della seconda metà del Novecento, i Nobel Joseph Brodsky e Aleksandr Solzhenitsyn.
Quando l´impero s´incanala in mille rivoli rompendosi in tanti staterelli, come riferisce l´impressionante esplorazione compiuta dal libro di Ryszard Kapuscinski Imperium (Feltrinelli), esplodono contaminazioni culturali e linguistiche che riportano il mondo alla violenza del crollo della Torre di Babele. Si reagisce al trauma attaccandosi al passato, soprattutto nell´ex Germania est, dove la malinconia attanaglia chi si culla nel ricordo dei vantaggi del vecchio sistema – sanità e istruzione pubbliche, sicurezza sociale, basso costo della vita – dimenticando tutto il resto. E mentre si assiste a un revival di vecchie marche della Ddr, Berlino continua a nutrirsi di riflussi: lungo i marciapiedi dell´Unter den Linden, così come sulle bancarelle dei mercati domenicali, si vendono medaglie, bandiere, divise e onorificenze del periodo socialista. Un fantasticare che fu ben tradotto, qualche anno fa, da un film di successo, Good Bye, Lenin!, di Wolfgang Becker, esplicitamente pieno di Ostalgia. Fenomeno che è la vendetta dell´umano contro l´accelerazione imposta dai rivolgimenti esterni: i miti, per venire sradicati, hanno bisogno di un tempo assai più lungo di quello in cui ci catapultano gli eventi.