Scritto da FRANCESCA BONAZZOLI – Corriere della Sera
Giò Marconi, a Milano manca un progetto culturale. Ognuno pensa soltanto per sé
Figlio d’arte, Giò Marconi, 46 anni, ha preso in consegna l’attività del padre Giorgio trasformandola in una delle gallerie italiane che più godono di prestigio anche all’estero. Per Miart è membro del comitato consultivo che ha selezionato gli espositori. Ogni anno Miart annuncia di essersi rinnovata, dichiarazione che dice quanto sia difficile posizionarsi? «Le fiere continuano ad aumentare, ormai ne organizzano anche a Dubai o Hong Kong e i galleristi fanno fatica a decidere dove andare. Miart finora si è comportata come un elastico, con anni buoni alternati ad altri meno felici. La nuova idea è puntare su un numero ridotto di espositori, non più di cento, ma i migliori italiani. Cominciamo a fare una vetrina della nostra eccellenza e questa è già una forte connotazione» . Bisogna dare per persi i mercanti stranieri? «Gagosian ha aperto una galleria a Roma, eppure non fa nessuna fiera in Italia: i collezionisti italiani sono fra i maggiori compratori e vanno molto a comprare anche all’estero così al momento i galleristi stranieri preferiscono esplorare attraverso le fiere mercati nuovi, come il Messico. Poi c’è anche l’handicap che da noi l’Iva è molto alta» . Non sarà che Milano non sa costruire una mitologia di se stessa? A Parigi la Fiac, per esempio, si tiene nella cour carré del Louvre e nel Grand Palais; anche la nuova fiera di Roma ha trovato luoghi affascinanti come l’ex mattatoio al Testaccio. «Certo sarebbe molto più bello fare Miart alla Triennale, con il bar nel giardino e la fontana di De Chirico, ma questo dipende dal management che gestisce la fiera, se vuole o no pensare in grande. Uno come Roberto Casiraghi, per esempio, si è inventato Artissima di Torino dal nulla e ora ha lanciato Roma con la stessa capacità di progettare idee» . Forse anche voi galleristi siete divisi? «Grazie alla crisi ora ci parliamo di più, ma qui a Milano manca soprattutto la capacità di coordinare pubblico e privato. Ognuno pensa per sé. Abbiamo l’editoria dell’arte, spazi alternativi, il mercato, le gallerie, i soldi, le fondazioni. Ma non abbiamo un museo di arte contemporanea, un direttore che programmi il Pac, insomma una intelligenza che abbia un progetto della città, una visione che la tenga insieme. È un impegno di idee prima ancora che economico» . Ma le fiere servono ancora? «Servono sia le mostre nelle gallerie che le fiere per comunicare con la gente che non ha tempo» . Fra fiere e aste, alle gallerie quale ruolo resta? «Quello di promuovere gli artisti, di aiutarli a realizzare i progetti. Per esempio la mostra che ho prodotto nella mia galleria per Nathalie Djurberg ha poi girato tre musei internazionali e ora torna a Milano perché l’ha comprata la fondazione Prada» . La crisi si è sentita? «Certo, ma a Milano solo una galleria ha chiuso e altre hanno aperto» . Cosa fanno di nuovo gli artisti oggi? «Non usano più un unico media, ma passano dal video alla pittura all’installazione, a volte anche nello stesso lavoro» . Come si cercano i nuovi talenti? «Viaggio molto, vedo tante mostre, parlo con i miei artisti che mi fanno segnalazioni, con i curatori e i colleghi e faccio molte visite agli studi degli artisti. Con loro si instaura sempre una relazione personale: anche i migliori sono spesso insicuri di quello che fanno, hanno bisogno di un supporto. Devi essere un po’ anche il loro fratello o papà» . L’aspetto più bello del suo lavoro? «Quando in galleria si prepara la mostra con l’artista. Quando si vede realizzare il progetto» . E il lato meno piacevole? «La fatica di fare le fiere» . Che cosa serve per diventare gallerista? «L’occhio, la conoscenza dell’arte e degli artisti. Ma soprattutto serve avere un progetto, un’identità personale molto forte» .