Scritto da Fabrizio D’Amico – la Repubblica
Dalì racconta di essere andato a trovare Picasso appena arrivato a Parigi: nessuno sa come sia andata davvero quella visita, ma certo il futuro pittore surrealista dipingerà l´ “Accademia neocubista” L´emozione che traspare nelle citazioni picassiane della “Accademia neocubista” Per il catalano Joan, il meno arrabbiato del trio, il surrealismo fu solo un transito
Firenze, “Pictor en misere humane”, aveva iscritto poco prima, in un latino approssimativo, un suo autoritratto, Picasso. E dunque quando, agli inizi dell´autunno del 1901, «aveva potuto visitare la prigione femminile di Saint-Lazare, dove le recluse separate dalle altre perché affette da malattie veneree portavano un berretto frigio», non v´era andato probabilmente, come poi volle un esegeta di quel tempo picassiano, a cercare in quelle «prostitute, in specie le più miserabili, vittime della situazione politica ed economica» un segno dell´ingiustizia e della violenza sociale del mondo in cui viveva, ma una luce capace di trasfigurare quella miseria in poesia, in canto opaco e malinconico.
Veniva da Barcellona, dal crudo verismo, addolcito appena dal retaggio tardo impressionista e già quasi sfiorato dall´art nouveau, de “Els 4 Gats”, cenacolo dell´avanguardia catalana di cui aveva condiviso la vita grama e avventurosa, e da alcuni mesi trascorsi a Madrid; ed era a Parigi per la seconda volta. Nasceva allora, e sarebbe durato per quasi tre anni, il “periodo blu” della sua pittura. Picasso, fin quasi al termine di quel periodo, andò e tornò senza requie (e senza un soldo), fece ansiosamente la spola fra quelle che sarebbero rimaste le sue due città; prima di stabilirsi nella capitale di Francia e (per le arti) d´Europa nel 1904, quando, giusto al termine del suo periodo blu, si ferma in un quartiere e in una baracca destinati a divenir celebri come luogo in cui l´arte moderna è sbocciata: il “Bateau-Lavoir” di Montmartre.
Idealmente la mostra odierna di Palazzo Strozzi si apre con un dipinto aurorale di quel tempo: la Stiratrice dedicata a Sabartés (amico e poi assistente di Picasso), ora al Metropolitan di New York, del 1901: una di quelle immagini rubate al dolore del carcere di Saint-Lazare, dove le modelle costavano nulla; e dove Picasso figurò la solitudine, la fatica di esistere di una donna ottusamente china sul suo lavoro; fatica e solitudine già splendidamente riassunte nel giro lento di quelle spalle piegate e vinte alla sommità della piccola tela. Qualcosa, di quel suo tempo, risucchia ancora all´indietro: verso il simbolismo che aveva segnato, e talora magnificamente soprattutto nel nord Europa, gli anni ultimi del secolo XIX; ma è pur vero che di qui, proprio all´avvio del secolo nuovo, parte il Picasso interamente originale, che si libererà presto d´ogni ricordo, o meglio che saprà rivolgere i suoi infiniti ricordi in volontà onnivora, che tutto macina e reinventa, tutta e soltanto sua.
Idealmente, si diceva, perché in realtà la mostra di Firenze (Picasso, Miró, Dalí. Giovani arrabbiati: la nascita della modernità, a cura di Eugenio Carmona e da Christoph Vitali) è costruita “à rébours”, e quindi questo primo tempo picassiano qui indagato occupa le sue ultime sale, mentre le prime documentano l´episodio (reale o soltanto vagheggiato; meglio: reale o surreale?) della visita che Dalí avrebbe fatto allo studio di Picasso nella primavera del 1926: uno giovanissimo (nato nel 1904, è poco più che ventenne), l´altro già da lungo tempo dominatore della scena parigina.
Dalí, che è in procinto d´essere definitivamente espulso dall´accademia San Fernando di Madrid avendo rifiutato di sottoporsi a un esame per “l´incompetenza” dei propri maestri, sta perfezionando il profilo che s´è ripromesso di dare alla sua personalità d´artista eccentrico e paradossale, e sta per stringersi al gruppo surrealista di Breton. Non è mai stato, un timido: ma avvolge il racconto dell´incontro con Picasso di emozione.
Emozione che lascia scopertamente trasparire nelle tante citazioni picassiane della Accademia neocubista, la maggiore per dimensioni delle opere della sua gioventù, oggi esposta a Firenze come lo fu nella seconda personale che il pittore tenne, con successo, al rientro in Spagna, alla galleria Dalmau di Barcellona. Una “lezione”, forse, quel gran quadro, impartita fin dal titolo ironico a quegli “accademici” che l´avevano espulso; certo, un omaggio al grande spagnolo appena “visitato” a Parigi, di cui la donna a sinistra ripete le forme del “ritorno” classico degli anni Venti, mentre nella donna a destra sta tutta la lascivia del Dalí che verrà d´ora in avanti. Era stato diverso, più saggio, il Dalí degli anni primissimi, che la mostra documenta: con opere rare, come il Paesaggio di Cadaqués del ‘23 o la mirabile mina di piombo dello studio per il Ritratto di Marìa Carbona (1925).
Vicino, allora, Dalí, al talento di un miniaturista: come lo era stato Joan Miró negli anni della formazione. Intento a contare tutte le pietre e le tegole della casa paterna a Montroig o, uno per uno, i fili d´erba del prato che la circondava, i suoi orti, e gli animali, e i contadini di lì. Certamente, Miró, il meno “arrabbiato” dei tre, per tornare al titolo della mostra odierna; per lui infatti il surrealismo (la cui prima stagione egli pur fiancheggiò: legandosi a Masson, Artaud, Leiris, Aragon, Breton; partecipando alle mostre del gruppo, a partire da quella del 1925; e pubblicando le proprie opere su La révolution surréaliste e su Minotaure), con i suoi eccessi anche temperamentali, fu un transito, non un approdo.
Un transito grazie al quale la sua pittura dalle radici antiche e mai dimenticate (che scendono al tempo romanico della sua terra, la Catalogna, e al punto di confine fra tardogotico e Rinascimento italiano – dal Beato Angelico al Sassetta – o ancora alla fissità iconica di Bisanzio, ad un Oriente ancora più remoto, al Medioevo germanico e a Bosch) si rese disponibile alla modernità, ed anzi chiave essenziale per tante sue strade a venire: aprendo al surrealismo stesso la porta di Kandinsky e dell´astratto; e consegnando infine ad Arshile Gorky, e attraverso di lui alla nuova arte americana, i tesori meno effimeri del surrealismo.