Scritto da Giuseppe Dierna – la Repubblica
L´arte sovietica in due mostre al Palazzo delle Esposizioni di Roma Dalla pittura verista di Stato al genio creativo dei maestri
Una macchina che per più di mezzo secolo ha prodotto consenso e propaganda Quello che colpisce maggiormente sono le dimensioni iperboliche delle opere esposte ROMA
In un olio alquanto provocatorio di Vitalij Komar e Aleksandr Melamid del 1982 il realismo socialista è rappresentato come una musa vecchia maniera che con la mano sinistra ricalca sul muro l´ombra del profilo, proiettata sulla parete – alla luce di una flebile torcia – da uno Stalin irrigidito nella sua abituale divisa da Generalissimo. Un´ombra del Potere, un calco elegante e minuzioso eseguito con la mano sbagliata. La mostra Realismi socialisti. Grande pittura sovietica 1920-1970 (al Palazzo delle Esposizioni fino all´8 gennaio), cerca di problematizzare quest´immagine un po´ semplificata del realismo socialista come monolitica arte di regime, decisa nel politbjuro e messa in circolo dal volano delle asservite associazioni artistiche, che ha di fatto bloccato in URSS il naturale sviluppo delle arti. Una macchina che per più di mezzo secolo ha prodotto propaganda e consenso, offrendo la richiesta visione edulcorata della società e dei suoi leader, e questo grazie ad artisti disposti – in buona ma spesso in cattiva fede – a chiudere gli occhi sul sanguinoso apparato repressivo che lo stesso politbjuro introduceva nel paese.
Introdotto nel discorso critico sovietico già a partire dal 1932 e codificato come “metodo” dagli interventi di danov e Gorkij al Primo congresso degli scrittori sovietici a Mosca nel ´34 (dove, tra l´altro, Radek aveva definito Joyce – prototipo dello scrittore d´avanguardia – «un mucchio di letame brulicante di vermi fotografato attraverso un microscopio»), il realismo socialista – in quella tranciante definizione – poneva ai nuovi ingegneri delle anime umane il compito di «descrivere fedelmente la realtà nel suo sviluppo rivoluzionario». Definizione già sufficientemente ambigua da produrre molteplici interpretazioni (e così del resto avvenne), ma anche del tutto parca di indicazioni sugli aspetti specifici della creazione artistica.
E se l´imposizione del realismo socialista avviene, in fondo, in piena coincidenza con quel ritorno all´ordine e al figurativo che attraversa la pittura europea dalla metà degli anni Venti, producendo ovunque – come sistemica reazione all´astrattismo avanguardistico – Neoclassicismi e Nuove Oggettività, in URSS la discussione sulle modalità di un´arte “realista” incomincia in realtà subito all´indomani della rivoluzione del ´17, quando Anatolij Lunacarskij, commissario del popolo all´Istruzione, teorizza per la futura arte proletaria quello che definisce un «idealismo realistico», in cui già si anticipa il carattere utopico del modello realsocialista, la sua caratteristica di futuro (o presente) idealizzato.
Nato da tali premesse, il realismo rappresentato qui da tele che coprono un cinquantennio della produzione sovietica, non potrà essere che una molteplicità di realismi: dalle dettagliatissime scene d´insieme che immortalano importanti cerimonie pubbliche a rappresentazioni come da pittura popolare (come l´enorme sbandieratore bolscevico di un olio del 1920, gigantesco tra manifestanti lillipuziani); dal bozzetto minimalista di vita quotidiana, come attinto dai realisti tardottocenteschi, al ritratto olografico dei potenti che rimanda al trionfalismo barocco; dalle luminose scene di lavoro sui campi, dalla messa in scena dei collettivi di lavoratori, alla rappresentazione di gruppi ormai sfilacciati, monadi autonome tenute insieme solo da uno sfondo (Costruttori di Bratsk, 1960) o da un´attività comune (Ginnasti dell´URSS, 1964-´65); per arrivare infine alla serie che Gelij Korev dedica al ricordo del conflitto bellico (Bruciati dal fuoco di guerra), spezzando la predilezione realsocialista per la figura intera, ingigantendo non più il corpo ma un semplice dettaglio: il viso di un uomo senza un occhio, un abbraccio, lo scorcio di un reduce coperto di cicatrici: ingrandimenti di una sofferenza che non ha più bisogno di una narrazione eroica.
E ci sono poi interpretazioni ancora più personali, come la Formula del proletariato di Pietrogrado (1920-´21) dell´enigmatico Pavel Filonov, mosaico di cerchi e sghembi cristalli di case, punteggiato dal ritorno continuo di un volto, lui solo reso con tratti realistici. O quadri che per il loro iperrealismo spingono a tristi considerazioni sul rapporto tra pittura e fotografia, come il ritratto – a grandezza naturale – di Vorošilov, Commissario del Popolo per la Difesa, sugli sci. Studiando la documentazione nel ricco catalogo che accompagna la mostra (a cura di M. Bown e M. Lafranconi, Skira, pagg. 280, euro 49) scopriamo che, prima di mettersi all´opera, il pittore Isaak Brodskij aveva chiesto al suo segretario di spedirgli «tutte le foto che lo ritraggono sugli sci». Per lo sfondo, invece, Brodskij non pareva aver avuto problemi, attingendo – verrebbe da pensare – direttamente ai Cacciatori nella neve (1565) di Pieter Brueghel. Un´abitudine, questa di utilizzare fotografie invece del modello reale, che aveva in altra occasione scatenato la reazione piccata del fotografo dell´ormai defunto Lenin, che si sentiva defraudato dei lauti guadagni dei ritrattisti postumi. Questioni di realismo.
Visitando la mostra, quello che però maggiormente colpisce sono le dimensioni iperboliche di molte delle opere esposte, che talvolta vanno anche a superare i cinque o sei metri, come se la monumentalità dell´epoca e dei soggetti dovesse necessariamente passare attraverso il puro còmputo di base e altezza. Così in Guida, maestro e amico Stalin ascolta, immobile e cortese, le proposte di un gruppo di kolchoziani come squassati da una folata di vento, come apostoli dell´Ultima cena. In un´altra tela, invece, il giovane capitano Judin osserva soddisfatto, tra i carristi del Konsomol, lo striscione per il ventesimo anniversario dell´Armata Rossa su cui s´inneggia alla “famiglia socialista”, ma l´immagine che s´intravede è quella di un soldato con la baionetta inastata. Imponente, infine, il Trionfo del popolo vittorioso (1949) di Michail Chmel´ko: su una Piazza Rossa come in cinemascope, i soldati tedeschi depongono vessilli e insegne ai piedi degli alti ufficiali russi. Stalin è in alto, mescolato agli altri notabili, defilato. Ma all´incrocio degli sguardi dei presenti.