Scritto da Melisa Garzonio – Corriere della Sera
Luci della modernità Così l’arte trasfigurava sulla tela i progressi ottenuti in laboratorio
L’ effetto sirena causato dalla bruna signora che incede sdegnosa sollevando un lembo del cangiante abito bianco (con piccoli arabeschi gialli) è forse stato studiato a tavolino? La locandina della mostra «Il Divisionismo. La luce del moderno», che campeggia sotto i portici di Piazza Vittorio Emanuele II, a Rovigo è più guardata dei cartelloni degli ultimi film di Spielberg e Scorsese, campioni al botteghino della stagione. Sorridono soddisfatti Francesca Cagianelli e Dario Matteoni, negli ultimi anni curatori a quattro mani al Palazzo Roverella di visitatissime mostre sui capricci estetizzanti di déco e fin de siècle, adesso artefici di questa rappresentazione sulla «pittura divisa», che in quanto a fascinazione ha proprio l’aria di superarle tutte.
«Vorrà dire che grazie al “Ritratto all’aperto” di Giacomo Balla i visitatori verranno a vedere la mostra molto ben disposti» gongola Cagianelli, che ci tiene però a sottolineare come gli intenti dei curatori vadano ben oltre la portata emotiva dei dipinti icona, puntando piuttosto su una revisione storiografica del movimento pittorico che tra l’ultimo ventennio dell’Ottocento e gli anni Venti del Novecento, quasi un naturale prolungamento, in area lombarda, della bohème scapigliata, fece da tramite tra il bello gratificante del verismo e l’antigrazioso dell’avanguardia futurista. Aggiunge Matteoni: «Abbiamo voluto ribaltare l’idea di un asse privilegiato del divisionismo tra Milano e Torino, considerate, con esagerata enfasi, le due città più vitali del Settentrione».
È vero che il piemontese Pellizza da Volpedo in una lettera del 1896 indirizzata all’amico Plinio Nomellini scriveva: «L’anno prossimo avremo la seconda Triennale milanese, fa di non mancare all’appello. Milano tanto quanto Torino, e forse più, è terreno adatto alle nostre lotte». Avrà avuto anche ragione il Pellizza, la cui adesione alla fase visionaria del divisionismo è celebrata nel portentoso trittico «L’amore nella vita», altro pezzo forte dell’esposizione. Ma a Rovigo si scoprono cose nuove, per esempio inedite geografie tra Liguria e Toscana, trait-d’union Plinio Nomellini, artista livornese dalla tavolozza focosa, che dal 1890 viveva a Genova, e dunque funge da filtro tra la pittura di macchia alla Fattori e la pennellata filamentosa dei pittori di costa, da Benvenuto Benvenuti per le smaltate marine livornesi, a Rubaldo Merello e il gallese Llewelyn Lloyd per i rossi tramonti in Riviera e la raccolta dell’uva alle Cinque Terre. Ancora, in mostra si dà voce a tanti bravi artisti finora considerati solo dei semplici epigoni rispetto ai maestri del movimento, come il veneziano Vittore Zanetti-Zilla, il milanese Ludovico Cavalieri, e due pittori «della grazia infantile e della bellezza muliebre» come Camillo Innocenti e Arturo Noci.
«Il lungo tempo del divisionismo», argomentato in catalogo da saggi di Anna Maria Damigella, Sergio Rebora e Nicoletta Colombo, comincia con un omaggio al «padre» della tecnica divisa, Vittore Grubicy De Dragon, eccentrico erede di una famiglia aristocratica magiara trasferita nel Lombardo Veneto, un tempo ricca ma ormai debole e spiantata. Dotato di carisma e phisique du rôle, estro pittorico e sesto senso nel riconoscere i talenti, appassionato di bella musica, da Ravel a Debussy, da Satie a Gounod, e instancabile globetrotter, Grubicy aveva colto il nascere dei nuovi fermenti durante i frequenti viaggi in Belgio, Olanda, Francia, e si era fatto una cultura su libri e riviste straniere. Di sicuro vide Seurat e studiò la tecnica francese del Pointillisme, importando in Italia la querelle mai risolta sul debito dei nostri pittori divisionisti con i cugini francesi.
Nella sua biblioteca, oggi conservata al Mart di Rovereto, compaiono opere capitali di Jehan Georges Vibert: «La science de la peinture», sia nell’edizione francese che in quella italiana tradotta da Gaetano Previati e pubblicata su commissione di Grubicy nel 1893. Previati, divisionista dalle forti sfumature simboliste, svolse il ruolo di teorico del gruppo («La tecnica della pittura», 1905; i «Principi scientifici del divisionismo», 1906). Sono gli anni in cui la percezione luminosa si modifica e si allarga a nuove sfere sociali. Nelle città le luci colorano i grandi magazzini, le vetrine, brillano sgargianti nelle insegne sui muri. Grubicy intercetta i pittori del nuovo e li lega in un rapporto d’esclusività con la galleria milanese che dirige col fratello Alberto. I due però non vanno d’accordo. Rotto il sodalizio, Vittore prende colori e cavalletto e va a fare il pittore sul Lago Maggiore. Quasi tutti i suoi protetti diventeranno famosi.
Melisa Garzonio