Scritto da Ugo Nespolo – la Stampa
Al Met di New York nelle sue tele la ribellione all’impressionismo e all’arte come mercato
Ormai avvezzo a esser sommerso e quasi asfissiato da un giornaliero profluvio di mostre-monstre, vernici, fiere dell’arte, di quelle in cui si bada più alla quantità pur-che-sia e si è indifferenti all’odierna fame e sete di qualità e bellezza, precipito in una sorta di wonderland nel visitare in una tersa e gelida serata al Metropolitan Museum di New York la mostra «I giocatori di carte di Cézanne»
Perla di esposizione concepita e realizzata in collaborazione con la Courtauld Gallery di Londra questa mostra riunisce e mette a confronto per la prima volta la serie di dipinti che hanno per tema i Giocatori di Carte con un vasto e raro corredo di bozzetti e tele indispensabili per capirne il percorso e la portata creativa. Sono opere dipinte negli anni che vanno dal 1893 al 1896, gli ultimi della vita dell’artista (muore nel 1906) in cui concepisce e realizza un nucleo di tele che a mio parere posson essere considerate il manifesto teorico e pratico dell’antimpressionismo.
Volontariamente isolato ad Aix-enProvence Cézanne sembra mettere in atto, giorno dopo giorno, con la lentezza esecutiva che gli è propria, la più profonda e concreta reazione all’appiattimento e alla superficialità dei trionfanti ideali impressionisti e postimpressionisti. Vive silenziosamente la sua marginalità e proprio il ciclo di tele di questa mostra spiegano con chiarezza la chiave del suo clamoroso insuccesso commerciale.
Si può bene intuire come debba aver considerato i personaggi di George Seurat nient’altro che statiche sagome di cartone alla Grande Jatte e che tutte le credenze parascientifiche del tempo che portano al pointillisme non possano prendere il posto degli ideali di solidità, volume, meditazione, spazio monumentale, che gli stavano a cuore. Ad analizzare da vicino il contrasto di colori caldo-freddo, le bordature brune e nere tracciate con pennellate solide e sicure, si può quasi comprendere il suo sogno di rifare Poussin sulla natura e di riportare l’Impressionismo tra le braccia dei Maestri.
Merleau-Ponty chiarisce bene questo concetto dicendo che «…non serve a nulla opporre qui la distinzione di anima e corpo, di pensiero e visione dal momento che Cézanne ritorna all’esperienza primordiale…» e che attraverso l’uso dei colori caldi e del nero mostra come egli intenda rappresentare gli oggetti e i personaggi e «… ritrovarli dietro l’atmosfera». Mi sembra che questi modelli di giocatori-contadini siano come illuminati da dentro e che la loro fisicità riverberi una sorta di calma e luce interiore. Pare questa essere quella stessa calma che doveva guidare quest’uomo schivo ed appartato che detestava persino il contatto fisico e che aveva tramutato in odio e delusione la fraterna e sconfinata amicizia con Émile Zola reo di averlo raffigurato nel suo romanzo L’Oeuvre nei panni del pittore fallito Claude Lantier suicida di fronte alla rivelata incapacità di portare a termine un quadro.
La mostra m’illumina sulle ragioni dell’incomprensione e dell’insuccesso di un artista da considerare tra i maggiori della tradizione moderna e che si pone allo snodo tra l’eclissi dell’impressionismo dilagante e modaiolo e il nascente cubismo picassiano pronto a far propria quella lezione di meditata tridimensionalità e di nuovo spazio prospettico. New York è proprio il luogo adatto per ripensare all’ostracismo che ancora in tempi non lontani Clement Greenberg, il massimo critico statunitense e paladino della ricostruzione delle teorie artistiche fondate sullo storicismo-genetico, riservava a Paul Cézanne considerandolo un vero ostacolo al suo pensiero che voleva la storia dell’arte quasi un percorso lineare verso la conquista della planéité , quella sorta di smaterializzazione progressiva adatta e adattata a glorificare tra l’altro il trionfo non tutto giustificato dell’espressionismo astratto made in Usa.
La solidità «ontologica» di questi giocatori si erge davvero come un masso non valicabile sul glaciale binario di una forzata lettura storico-artistica lineare ed univoca. In queste sale animate da personaggi di masaccesca solidità non posso fare a meno di pensare all’epoca nostra che vive l’arbitrio e la pochezza del «tutto è arte» in quello che si è ormai avvezzi considerare un clima di noiosa avanzata postmodernità che produce per lo più un’arte «ininfluente», lontana dal sociale e del tutto schiava del mercato sempre pilotato.
Se l’opera di Monet Impression era servita a Louis Leroy a definire un movimento liberatorio lentamente scivolato nel superficiale e nel ripetitivo, la «cosalità» di Paul Cézanne è quella di dipingere «… come se non si fosse mai dipinto». Non si fatica a credere che dopo D.H. Lawrence la sua opera sconvolga e muti per sempre in profondo la poesia di R. M. Rilke. Elegie Duinesi eSonetti ad Orfeo ne mostreranno i segni ancora vent’anni dopo il 1907.