Scritto da Michele Dantini – il manifesto
A dispetto di silenzi e di rigidità, il dibattito sull’arte contemporanea italiana converge per la prima volta da anni sulla necessità di una storiografia «in presenza delle opere» Potremmo periodizzare l’arte italiana contemporanea più recente stabilendo che a caratterizzare gli ultimi anni sono stati una svolta «politicistica» nelle pratiche e il dibattito sulle crescenti difficoltà di affermazione internazionale degli artisti più giovani.
La generazione dei trenta-quarantenni ha ritrovato interesse per la storia nazionale, la compulsazione di archivi sociali e politici, la ricomposizione di memorie dolorose, tacitate o disperse. A fronte di istanze radicali di politicizzazione, il mercato dell’arte, finanziarizzato e ubiquo, oppone formidabili ostacoli alla connessione tra produzione estetica e ricerca, premiando orientamenti desituati.
Circolano interpretazioni diverse della ridotta capacità di competizione degli artisti italiani nel contesto globale. Si contesta l’acquiescenza di critici e curatori o si adducono specificità antropologiche, generiche quanto implausibili. Esistono forse circostanze fattuali, storiografiche e istituzionali: il deficit didattico e di narrazioni storico-artistiche qualificate e indipendenti. Sono da troppo tempo in auge versioni ufficiali, ripetitive e dogmatiche, della storia artistica italiana contemporanea; storie che non spiegano più e sembrano fuorviare. «Quanto accade in arte attorno al 1968 non è stato ancora chiarito»: accolta alla lettera, candidamente, l’affermazione di Celant, datata 1981, non suona forse stupefacente?
Identikit dei seniores
Le retrospettive di De Dominicis e Pistoletto tenutesi al Maxxi tra 2010 e 2011, preziose perché ampie nella selezione delle opere, tuttavia insufficientemente accompagnate da indagini scientifiche e troppo vincolate a autorizzazioni familiari o di fondazione; e le innumerevoli mostre sull’arte povera in programma tra 2011 e 2012 esemplificano il punto. Prevalgono voci e prospettive consolidate, detenute pressoché in monopolio. Assistiamo al paradosso di artisti, critici e curatori sovraesposti e al tempo stesso poco conosciuti, mai davvero restituiti alla discussione pubblica attraverso e oltre le mitografie tramandate. Eppure svelare costellazioni di rapporti e avviare processi di storicizzazione dei seniores sembrerebbe il modo migliore per riconoscere un’eredità culturale e contribuire a una maggiore conoscenza delle sue durevoli necessità storiche e sociali.
L’enfasi su idiosincrasia, ornamento, dismisura, moda, capriccio, stabilita per l’arte italiana post-Cattelan da fundraiser abili e ferocemente conformisti come Massimiliano Gioni (curatore della prossima Biennale di Venezia) o rilanciata da mostre come Sindrome Italiana al Magasin di Grenoble (2010-2011), risolve forse nell’attimo l’acuta impasse attuale. Non può tuttavia consolidare nei più esigenti osservatori internazionali la certezza di una scena-paese al di là delle opere, di un’arte che presenti tratti nazionali condivisi e sia determinata a confrontarsi criticamente e in modo autorevole con la tradizione recente.
Accade qualcosa che difficilmente si dà in altri contesti avanzati: e che ha come prima causa il disinvestimento pubblico da musei, università, centri di ricerca. La storiografia viene a coincidere con la testimonianza autobiografica, l’interpretazione con il testo promozionale o l’intervista. Per deficit di istituzioni formative e espositive qualificate, pronte a intrecciare ricerca e produzione, in Italia regna una concezione privatistica e patrimoniale della memoria. La vicenda Triple Candie ad Artissima 2011 è rivelativa. Un giovane curatore invita un collettivo di artisti americani a produrre un progetto critico sull’arte povera. Timorosamente esterofilo nelle scelte curatoriali, assai debole sotto il profilo visivo e tuttavia non privo di ironia, con caricature di opere celebri e la messa in discussione della leggenda celantiana, il progetto è rifiutato a pochi giorni dall’inaugurazione: non, pare, per i suoi limiti interni ma per le possibili ritorsioni del patriarcato poverista.
Centro e periferia
L’opacità della tradizione italiana recente ai nostri stessi occhi è tale che le interpretazioni più accreditate dell’arte povera o della transavanguardia, cioè dei movimenti artistici italiani affermatisi internazionalmente negli ultimi decenni, sono prodotte da comunità di studio angloamericane. Ne è un esempio il numero di October (rivista di storia dell’arte contemporanea del Mit) dedicato all’arte italiana del dopoguerra (primavera 2008): non pochi interventi hanno il merito di rilanciare interrogativi o istanze di ricerca ma non mancano sviste o semplificazioni in chiave rudemente folklorica. In Italia ci sono esempi di inedita vivacità critica e storiografica, particolarmente tra le giovani generazioni, e si vanno producendo innovazioni interpretative o di metodo, ad esempio con la riconsiderazione dei rapporti tra storia delle immagini e storia dei contesti, la discussione critica della pubblicistica consolidata, il nuovo credito concesso a critici già collocati a margine, come Carla Lonzi o Paolo Fossati. Sinora non esiste però una narrazione articolata e complessa della storia dell’arte postbellica che riesca a intrecciare storia delle immagini, storia della critica e storia sociale; acutezza filologica e radicalità politica; e torni a avvicinare opere e famiglie di opere che ideologie o vicissitudini collezionistiche e di mercato hanno diviso.
I nuclei collezionistici più qualificati, omogenei e accessibili, poveristici, concettuali o altro, sono per lo più all’estero: in America, Germania, Svizzera. In decenni in cui l’agenda postcoloniale ha modellato pratiche interpretative e strategie di sovranità storiografica, il Centro scrive tuttora di una Periferia, quella italiana, che non riesce a elaborare in modo riflessivo il trauma della propria minoritarietà linguistica né a trasporlo in iniziativa culturale di rilievo sovranazionale. È inevitabile che da parte di artisti, critici, curatori early career vi sia difficoltà a rintracciare precocemente una credibile genealogia professionale da cui muovere; a acquisire intimità con un’agenda nativa di temi e problemi. Sprovvisti di efficaci criteri di scelta, si è esposti alla proliferazione di highlights e discorsi secondari di cui sono disseminate blog, fanzine, riviste, portali. Prevalgono percorsi individuali e in larga parte casuali, da autodidatti: non sempre è un vantaggio.
Istinti prepotenti
La questione storiografica si intreccia intimamente alla questione più ampia della riappropriazione di tecniche e saperi da parte delle generazioni «precarie», le attuali. Orientarsi in territori culturali dispiegati ma non frammentari, o disporre agevolmente di pratiche e «dizionari»: sono atti immaginativi orientati non a ciò che è stato ma a ciò che sarà. «Più che stabilire continuità», scrive Anna Bravo, «la funzione elettiva degli alberi genealogici è mostrare i modelli a cui si rivolge un fenomeno nuovo; i modelli che ignora, quelli che inventa, e gli effetti che le scelte hanno sull’autoimmagine, la memoria, la storia». Desideriamo muoverci abilmente e senza impaccio etnografico? Non possiamo farlo se ci affidiamo a logore versioni autocelebrative o ci conosciamo attraverso le narrazioni di storiografi imperiali che con pieno merito hanno disposto e interpretato i documenti, organizzato l’archivio, fatta scrupolosa manutenzione dei «significati». Una riflessione critico-teorica acquisisce oggi status globale solo se situata, pronta a riformulare in modo efficace il «nativo» e il «locale».
Curata da Francesco Bonami, la mostra Italics (2008, Palazzo Grassi) ha contribuito a avviare una riflessione sulla «specificità» della scena artistica italiana contemporanea, sia pure in modo a tratti litigioso, reticente o confuso. Da circa quattro decenni, questa la tesi, l’arte italiana non riesce a imporsi, a produrre opere e interventi avvincenti perché corali, con scenari collettivi ben costruiti, un romanzo, un’epopea. Perché, si è indotti a chiedersi? L’arte italiana appare connotata dal distacco dalla sfera pubblica almeno dalla seconda metà degli anni Ottanta, se non già dal biennio «caldo» 1968-1969: le ragioni sono storiche e politiche prima che culturali. Il sistema dell’arte italiano è sorretto in misura pressoché esclusiva da capitali privati, in larga parte provenienti dall’industria del design e della moda. È quasi inevitabile, in assenza di un’efficace committenza pubblica e di patronage dedicato, che temi o orientamenti «civili» siano trascurati.
«L’arte italiana», sibila Bonami, «è stata violentata dal fondamentalismo politico che ne ha soppresso gli istinti internazionali più forti». Nutriamo ragionevoli dubbi sul fatto che Argan, obiettivo polemico di Bonami, sia all’origine delle difficoltà odierne. Ma volgiamo per un attimo in domanda la recriminazione. Che cosa si attende, la platea globale, da un artista italiano, e quali sono «gli istinti internazionali più forti»? Emerge, da Italics, una prospettiva frammentaria e curiosamente restaurativa, formulata per accenni prudenti; prospettiva all’origine di scelte curatoriali successive, ad esempio nei Padiglioni italiani delle due ultime Biennali di Venezia, nel 2009 e nel 2011, tanto più discutibili sotto profili estetici, tecnici e professionali del progetto di Bonami, pure pronti a accoglierne l’appello populista e identitario e rilanciare l’argomento di una «vocazione» profonda dell’arte italiana. «La rimozione forzata, negli anni Settanta, di pittura e religione», biasima Bonami, è «il trauma di una cultura che anziché cercare nella propria specifica intraducibilità l’occasione per diventare universale, ha preferito diventare introversa, finendo per parlare a se stessa». Sul finire degli anni Settanta, con il ritorno alla pittura, si poteva infine sperare «in un recupero innovativo… Ma anziché sviluppare l’idea di un luogo, l’Italia, come fabbrica di genialità internazionale, (si) è ripiegati sulla catastrofica idea del genius loci».
Non ha importanza, nel caso specifico, cogliere l’acerba polemica di Bonami con Bonito Oliva, quanto misurare il senso e perfino la paradossale vicinanza di posizioni peraltro aspramente conflittuali sul mercato della curatela. Il curatore di Italics, responsabile di istituzioni influenti e disparate, al centro di una densa rete di rapporti internazionali, non dismette la prospettiva in sostanza neofolklorica (o «irrazional-popolare», come lui stesso la definisce) che si consolida tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Semplicemente chiede di giocarla con maggiore scaltrezza cosmopolita, malizia negoziale e attitudini brillantemente glocal. Non solo Totò, in altre parole, ma pure Dalì. Sullo sfondo della polemica antimodernista corre l’idea, parrebbe un po’ alla Brandi, di una fedeltà profonda, «antropologica», della cultura figurativa italiana all’immagine, intesa ambiguamente sia in senso ludico che cultuale.
Colpiscono le analogie tra Bonami e Cattelan, l’artista più vicino al curatore. Italics ci appare di fatto come una sorta di cristallizzazione curatoriale della Nona Ora di Cattelan, scultura in lattice, cera e tessuto raffigurante papa Giovanni Paolo II colpito da un meteorite. Presentata nel 1999 alla Royal Academy di Londra in occasione della mostra Apocalypse e battuta due anni dopo da Christie’s alla cifra record di 886 mila dollari, la scultura costituisce sotto il profilo commerciale l’inatteso, deflagrante successo di un artista italiano nel contesto del sistema internazionale dell’arte. Dolente e lussuosa al tempo stesso, l’immagine del papa conquista la comunità angloamericana: congiunge ambiguamente liturgia e glamour pubblicitario, enigma del martirio e retoriche visuali da set. Può apparire come una professione di fede, come l’autoritratto en travesti di un artista impegnato in un difficile negoziato tra Centro e Periferia; oppure, all’opposto, come l’astuta dilapidazione in chiave etnografica, sulla piazza metropolitana, di un’identità millenaria.
Le due rive dell’Atlantico
Vogliamo esemplificazioni più brutali della subalternità del mercato italiano dell’arte contemporanea al capitale internazionale, in particolare alla comunità angloamericana? Bene. È in corso, nella sede newyorkese della galleria Haunch of Venison, Afro Burri Fontana, mostra che si propone di promuovere negli Stati Uniti il modernismo italiano colto nei suoi pretesi apici (fino al 28 aprile). Per farlo la curatrice, Elena Geuna, curva in senso adulatorio la storia dell’arte italiana. L’interesse storico degli artisti esposti, apprendiamo, risiede nel loro «intenso scambio interculturale con gli Stati Uniti» – affermazione, questa, del tutto fallace sul piano storiografico e risibile nello scrupolo di correttezza politica. Che nelle opere di Burri, dalle Muffe ai Sacchi a Ferri, si depositi una caustica riflessione politica sul dopoguerra italiano e sul processo di ricostruzione democratica; o che l’attività di Fontana al tempo dei Buchi e Tagli sia accompagnata da costanti inquietudini sul mutato equilibrio geopolitico e culturale del pianeta: questo sembra non interessare Geuna oppure costituisce motivo di imbarazzo alla sua sbrigativa agenda commerciale. È dunque taciuto. Sarebbe stato sconveniente proporre una mostra sulla complessità tutt’altro che pacificata dei rapporti tra Italia e Usa negli anni Cinquanta e Sessanta? Non sappiamo. È tuttavia rilevante osservare che il maggior titolo di Geuna sembra essere quello dell’amicizia con François Pinault, proprietario di Christie’s e dunque della stessa Haunch of Venison. Già nell’organico di Sotheby’s Londra, in seguito curatrice di mostre come la retrospettiva di Pierre & Gilles alla seconda Biennale di Mosca (2007), Jeff Koons a Versailles (2008) e Lucio Fontana: Luce e Colore (sic) al Palazzo Ducale di Genova (2008), Geuna appare un’esecutrice elettiva quanto discreta dell’attuale disegno di commodification del modernismo italiano nel contesto globale.
Nel 1968 Paolini produce un fotocollage dal titolo Autoritratto. Malgrado il titolo, l’immagine non mostra il volto dell’artista, piuttosto la comunità amicale e degli affini. Lonzi è raffigurata in primo piano con Fontana e il Doganiere. Scorgiamo Boetti, Festa, Fabro, Consagra. E ancora: Corrado Levi, Anna Piva, Marisa Volpi, Pistoi, Argan, Calvesi. Le distinzioni di ruolo e cerchie professionali, pure presenti, non si sono ancora rivelate distruttive. A distanza di pochi mesi, il dibattito su statuto e ruolo sociale della critica porterà, in Italia, a distaccare curatorship e scrittura, organizzazione e interpretazione con argomenti che appaiono retrospettivamente non di rado sommari o strumentali.
Cambiamenti in corso
La discussione sull’arte italiana contemporanea privilegia oggi gli anni Sessanta e Settanta. Tralascia in larga parte di indagare i decenni successivi o di esaminare criticamente le più significative posizioni critiche e curatoriali. Si interpreta l’Arte povera come «arte politica» tout court, riconoscendo importanza cruciale (forse eccessiva?) a Pistoletto. Emerge, tra molte semplificazioni, un elemento che consideriamo positivo: per la prima volta dalla stagione dei movimenti (forse addirittura dal dopoguerra) è condivisa la necessità di storiografie costruite «in presenza delle opere» (la citazione è da Longhi). Si presenta dunque l’opportunità di aprire a una filologia tutt’altro che repertoriale, al contrario: politica e immaginativa, praticata nei pressi di studi culturali e sociologia della cultura (di cui appare dispositivo metodologico preliminare), disponibile infine a provarsi sul piano dei processi culturali in divenire.