28Sett2012

Scritto da FABRIZIO D’AMICO, la Repubblica

A Palazzo Strozzi di Firenze 100 opere raccontano la nascita dello “stile moderno” e le diverse correnti durante il fascismo


FIRENZE. Il precedente è illustre (e come tale è puntualmente ricordato in catalogo da Antonello Negri, curatore della mostra che apre adesso i battenti a Palazzo Strozzi,
Anni Trenta. Arti in Italia oltre il fascismo), ed è una delle mostre più ampie e memorabili che si siano svolte sulla pittura e la scultura del ventennio: quell’Arte moderna in Italia 1915-1935 che lasciò in eredità, nel 1967, una nuova immagine dell’arte nostra di quel tempo difficile, a lungo sottratta alla memoria storica. Fu quella una mostra che consentì sull’arte italiana fra le due guerre, per la prima volta, uno sguardo libero da retaggi eteronomi (e, ovviamente, in primo luogo politici). Carlo Ludovico Ragghianti, che la volle e l’organizzò, proprio a Firenze e proprio a Palazzo Strozzi, vi convocò un numero impressionante di opere – più di duemila. Ma quasi cinquant’anni sono da allora trascorsi: studi generali e particolari sul periodo, assieme a un collezionismo pubblico e privato a lungo in oculata espansione, e ovviamente alle innumerevoli mostre che li hanno accompagnati, rendono oggi non più necessaria la misura debordante della mostra del ’67 (come dell’altra grande esposizione sugli anni Trenta organizzata a Milano nel 1982): e opportuno invece uno sguardo diverso, più acuminato su taluni aspetti della creatività italiana del tempo (per esempio il design, che si sviluppò parallelamente alle arti così dette maggiori, e che è largamente rivisitato dalla mostra di oggi), e più selettivo in base alla qualità e allo spessore delle singole personalità.
Il centinaio di dipinti oggi riuniti a Palazzo Strozzi, insieme alle opere di scultura, di design, di fotografia che li affiancano (e insieme alle mostre correlate che punteggiano vari luoghi storici di Firenze), basteranno allora a definire il tema, e ad approfondirne qualche aspetto. E forse a dar fiato, nuovamente, ad un interesse, anche mercantile, che è andato negli ultimi anni indubbiamente, e incomprensibilmente, scemando su molte personalità di quel tempo: si pensi ai mediocri e amaramente sorprendenti risultati d’asta che hanno recentemente travolto autori come Sironi o de Pisis, ed insidiano adesso persino figure giudicate “intoccabili” come il de Chirico post-metafisico, o Morandi.
Certo, nei nostri anni Trenta si ricovera tanto; e forse troppo per tirarne la somma in un’unica esposizione. Per primo, l’ultimo frangente del “ritorno al classico” che ha involto le arti di tutta Europa subito dopo la “grande guerra” e l’eclisse delle avanguardie storiche, e che va presto rapidamente mutando i propri panni in un più retrivo “richiamo all’ordine”, guidato dall’adesione ad una nozione del “museo” e dell’“antico” che si fanno vieppiù normativi e soffocanti (e che finiranno per confluire con l’analogo dettame dell’ultima fase, ormai decisamente regressiva, dell’arte di regime). Proprio all’alba di quel tempo, già sul finire del decennio precedente, cresce invece, in molte realtà italiane (a Roma e a Torino anzitutto, con quella che fu battezzata da Roberto Longhi la “scuola di via Cavour”, e con il gruppo dei “Sei”), un senso di rivolta verso quella stanca imitazione di modelli aulici, che guarda in primo luogo alla Francia come metro di una possibile modernità, pur disgiunta dall’insegnamento dell’avanguardia. Nasce anche, allora, il conflitto fra una Biennale di Venezia sempre più legata al gusto paludato e neo-ottocentesco di Antonio Maraini e la Quadriennale di Roma di Cipriano Efisio Oppo, che ha la prima edizione nel 1931, e che nella sua edizione maggiore, del 1935, si erge a
contraltare battagliero e “giovanile” dell’istituzione veneziana.
A Milano, intanto, i primi passi maturi di Fontana e di Melotti, assieme a quelli di un grande outsider come il marchigiano Osvaldo Licini, guidano il manipolo d’astrattisti che, attorno alla Galleria del Milione, formulano per primi – e, per allora, unici in Italia – un linguaggio che s’allinea alle ricerche europee; mentre tutt’intorno ad essi, il “Novecento Italiano” protrae la propria egemonia sul gusto del pubblico. Certo, dunque, non tutto è degno, oggi, d’essere rivisitato, in quella nostra storia: che fu
un’epoca di divaricazioni insanabili, che la mostra odierna documenta, presentando anche, per la prima volta in Italia, un grande telero di Adolf Ziegler –
I quattro Elementi,
rappresentati da altrettanti accademici e leccati nudi femminili – che fu considerato il capolavoro della pittura nazista, e che è qui in ideale opposizione con talune opere che furono esposte, proprio alla fine del decennio e all’avvio del successivo, alle edizioni del Premio Bergamo, uno dei “luoghi” ove si concentrò l’insorgere dell’arte più decisamente avversa alla magniloquenza del regime. Toccata da un realismo e da un espressionismo che avrebbero connotato i modi maggiori della pittura e della scultura fin dentro gli anni della seconda guerra: e ad esempio esemplata, qui, dagli Amici nello studio di Guttuso, dal Seggiolone di Afro o dalla Demolizione di
Mafai; e ancora dal Caos di Birolli, da Sassu, Migneco, fino al primo Morlotti (Natura morta, 1941).
Chiude la mostra una ricca sezione che documenta gli sviluppi dell’arte a Firenze, guardata a muovere dall’opera tarda di Libero Andreotti (Orfeo che canta, 1931), attraverso taluni interpreti del secondo futurismo (Ram e Thayaht), ed esempi delle prove mature di Soffici (La processione, 1933), di Baccio Maria Bacci, di Lorenzo Viani, di Romanelli, e d’un Magnelli nella sua fase più legata alla tradizione, fino ai più giovani Ottone Rosai, Colacicchi, Manzù (David, 1938), e a coloro che a Firenze apportarono, venendo da fuori, un magistero seguito da molti (Felice Carena od Onofrio Martinelli).