Scritto da MICHELE AINIS – CORRIERE DELLA SERA

«Un’idea figlia della Costituzione che invita a promuovere ogni opera. A dispetto del mercato»

Premessa: sono in conflitto d’interessi. Faccio parte, ahimè, dei 200 intelligentoni (o non saranno già 300? Con Sgarbi non si può mai sapere) ai quali il direttore del Padiglione Italia ha chiesto di selezionare gli artisti che esporranno alla Biennale. Premessa-bis: non sono un critico d’arte. Il mio mestiere è quello del giurista, e il giurista non è qualcuno che giura, come pensava un signore che ho incontrato l’altro ieri. Semmai è un esperto di commi, di tribunali, di pandette. Nel mio caso, ho a che fare con le regole più eteree e controverse del nostro ordinamento: quelle costituzionali. Quali titoli potrei dunque accampare per valutare i titoli di uno scultore o d’un pittore? E con che faccia tosta posso prendere partito su una vicenda (la 54esima Biennale) in cui sono coinvolto mani e piedi? Ma invece sì, lo faccio. Solo che per illustrarne le ragioni devo partire da lontano, più o meno dai tempi della prima guerra punica, quando ho vinto la mia cattedra all’università. Devo quel successo a un libro che mi è costato cinque anni di fatica, ben più dei troppi libri che ho pubblicato dopo. Argomento: le garanzie costituzionali dell’arte e della scienza. Fra le letture digerite prima di mettere inchiostro alla mia penna, una su tutte torreggiava come un monumento: Norberto Bobbio, Politica e cultura. In quell’aureo volumetto, dato alle stampe nel 1955, il filosofo torinese distingueva fra «politica culturale» e «politica della cultura» , l’una calata dall’alto sulle attività dell’intelletto, l’altra sgorgante dal basso, dagli stessi intellettuali, per difendere la propria autonomia. E aggiungeva che ogni sistema liberale ammette la seconda ma rifiuta la prima alla radice, perché rifiuta la pianificazione della cultura da parte dei politici, che è sempre spia di dispotismo. Quando scriveva quelle pagine, Bobbio aveva sotto gli occhi l’esperienza del realismo socialista, insieme alla memoria del ministero della Propaganda di Goebbels o del Minculpop fascista. E naturalmente aveva tutte le ragioni. Non soltanto perché ogni censura è odiosa, ma altresì per l’argomento indicato da Adorno nel 1960: c’è nella vita culturale una scintilla che non può essere pianificata, o che altrimenti muore. E allora come la mettiamo con la Costituzione italiana? Sta di fatto che quest’ultima non si limita a garantire la libertà dell’arte e della scienza (art. 33), ma attribuisce inoltre alla Repubblica il compito di promuoverle, di farle sviluppare (art. 9). Dunque di sostenerle con mezzi finanziari, strutture, eventi imbastiti dai pubblici poteri. E come potrebbero mai farlo, se non armandosi d’un disegno di politica culturale? Se lo Stato deve spendere quattrini per le arti figurative o lo spettacolo, dovrà decidere anzitutto quante risorse devolvere all’uno e all’altro campo, e in secondo luogo quante a ciascun genere (per esempio alla musica sinfonica rispetto al jazz), e in terzo luogo quante e a quali artisti. Senza un quadro di fini e di criteri, insomma senza una politica, l’intervento culturale premierebbe infatti le clientele, le appartenenze di partito. C’è modo di coniugare libertà e promozione culturale? Sì che c’è: assegnando alla Repubblica la missione di rendere effettiva la libertà di cui sulla carta godono gli artisti. E dunque liberandoli dai condizionamenti delle lobby, dei potentati, dell’industria culturale. L’unica politica culturale democratica è quella che operi in soccorso delle culture deboli, delle energie artistiche depresse e periferiche, lontane dal gusto delle masse o dalle grazie dei signori del mercato. Questa, almeno, è la mia chiave di lettura; ma a suo tempo venne subito accettata da Paolo Barile, e oggi (posso dirlo?) è moneta corrente nella letteratura specialistica. L’ho poi difesa quando, insieme a una decina di «povericristi» , scrivemmo le norme istitutive del nuovo ministero per i Beni e le attività culturali; la propongo agli studenti nei miei corsi di Legislazione dei beni culturali. Ma la realtà è tutt’altra, come chiunque può vedere. Per dirne una, il finanziamento al cinema cresce man mano che crescono gli incassi delle singole pellicole, che è un po’ come nutrire i sazi lasciando a digiuno gli affamati. E senza i favori d’un assessore o di un guru dell’arte difficilmente potrai esporre le tue tele. Quanto poi al prezzo dei favori, meglio star zitto, non ho voglia di beccarmi una querela. Ecco perché l’operazione messa su da Vittorio Sgarbi reca il vento della rivoluzione. Una rivoluzione costituzionale, anche se magari lui non se ne è accorto. La sua idea d’aprire al mondo la Biennale riecheggia il 1791, quando il Salon schiuse i battenti a tutti gli artisti parigini, non più soltanto a quelli benedetti dall’Académie des Beaux Arts. D’altronde la prima garanzia della libertà dell’arte risale alla Costituzione francese del 1795. Ma nel frattempo l’arte — per usare le parole di Sgarbi— è diventata un sanatorio, dove entrano unicamente i medici (la critica accademica), mentre i sani se ne tengono alla larga. Invece dovrebbe raggiungere un pubblico più vasto di quello che riempie la cittadella artistica. Dovrebbe intercettare ogni sapere, non solo quello custodito dai sapienti dell’arte. E un’istituzione pubblica come la Biennale dovrebbe puntare i riflettori su artisti fin qui misconosciuti, se ciò nonostante meritano l’alloro. Sicché ho accettato volentieri d’indicare un nome: Fausto Roma opera alla periferia dell’Impero, ma a mio parere è un artista straordinario. Posso sbagliare, certo, e ciascuno di voi potrà misurare l’errore (www. Fausto Roma it). Del resto sbaglia l’asino, benché abbia una gran testa. Ma se è per questo, sbagliano pure i critici togati: dai falsi di Modigliani (1984) a quelli di Andy Warhol (2007), la storia è piena d’abbagli con una firma illustre in calce. L’abbaglio più grosso, tuttavia, è di chi ha già caricato i cannoni contro questa Biennale. Peggio: di chi rimprovera agli intellettuali di sinistra d’essersi prestati a un pifferaio di destra, come se anche il giudizio estetico fosse un referendum pro o contro Berlusconi. E allora vediamoci a Venezia, inforchiamo sul naso un paio d’occhiali, valutiamo laicamente. Poi, magari, ne parliamo.