Ultimo aggiornamento Martedì 11 Ottobre 2011 15:53 Scritto da PAOLO FRANCHI – Corriere della Sera
Insomma: gli intellettuali (non solo i pittori) compresi, come nel nostro caso, quelli iscritti al partito o molto simpatizzanti, vanno mazzolati per il loro bene. Anni terribili. Poche settimane dopo il 18 aprile, Mario Scelba, a proposito degli uomini di cultura (numerosissimi) che si erano schierati per il Fronte Popolare, aveva parlato sprezzantemente di «culturame»; adesso Togliatti ricorre più o meno allo stesso linguaggio per parlare di artisti che, in ultima analisi, stanno dalla sua stessa parte della barricata. E che, nella maggior parte dei casi, nonostante tutto ci resteranno, almeno fino al terribile ’56, continuando magari a proclamarsi «formalisti e marxisti», come si dichiarano nel loro manifesto (1947) i fondatori del gruppo Forma 1, Carla Accardi, Ugo Attardi, Pietro Consagra (che nella campagna elettorale del ’48 ogni giorno trascina fino alle scalinate di Trinità dei Monti una sua statua di ferro astratta inneggiante al Fronte), Piero Dorazio, Mino Guerrini, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo e Giuseppe Turcato. È un mondo variegato e anche affascinante quello dei pittori «astrattisti e comunisti»: forse il racconto più bello (e malinconico), compresi i duelli a distanza con Renato Guttuso e Antonello Trombadori, divenuti ai loro occhi i sergenti del realismo socialista all’italiana, è quello che ne fa Ugo Pirro, nella sua «Osteria dei pittori».
Il Fronte nuovo delle arti, che aveva organizzato la mostra bolognese, si scioglie rapidamente. Guttuso, Mafai, Consagra, Leoncillo e Turcato, che vi avevano partecipato, scrivono su Rinascita per prendere qualche distanza da Togliatti, chiedendo che non venga stroncata la giusta aspirazione degli artisti italiani, specie i più giovani, a riprendere quel confronto con le esperienze di avanguardia che il fascismo aveva cercato di impedire. Ma, almeno per Guttuso, i distinguo finiscono qui. Ormai è agli atti che la politica culturale del Pci fa suo un concetto, quello della partiticità dell’arte, che è uno dei cardini dello zdanovismo. Anche nel mondo delle arti quel che conta è la lotta di classe e lo scontro tra imperialismo e socialismo, il realismo (magari non socialista, perché in Italia il socialismo non c’è) diventa sinonimo di una concezione progressista dell’arte, l’astrattismo del suo esatto contrario. Del suo, Togliatti ci mette un irrefrenabile fastidio per tutte o quasi le avanguardie, lo stesso che lo fa accapigliare con Massimo Mila su Shostakovich e la musica dodecafonica.
Nella realtà, le cose vanno un po’ diversamente. Lo zdanovismo all’italiana fatica ad attecchire, e dopo il ’56 viene ufficialmente archiviato: non spetta al partito intervenire nel merito dei dibattiti filosofici o artistici. Zdanov non c’è più, Stalin nemmeno. Nel ’62, quando il destalinizzatore Krusciov definisce dipinti «con la coda dell’asino» i quadri astratti esposti sulla Piazza Rossa, non c’è un dirigente comunista italiano, nemmeno il più acceso sostenitore del realismo, disposto a seguirlo.