28 Set

ANNI’30 L’ARTE ITALIANA TRA RIVOLTA E RITORNO ALL’ORDINE

28Sett2012

Scritto da FABRIZIO D’AMICO, la Repubblica

A Palazzo Strozzi di Firenze 100 opere raccontano la nascita dello “stile moderno” e le diverse correnti durante il fascismo


FIRENZE. Il precedente è illustre (e come tale è puntualmente ricordato in catalogo da Antonello Negri, curatore della mostra che apre adesso i battenti a Palazzo Strozzi,
Anni Trenta. Arti in Italia oltre il fascismo), ed è una delle mostre più ampie e memorabili che si siano svolte sulla pittura e la scultura del ventennio: quell’Arte moderna in Italia 1915-1935 che lasciò in eredità, nel 1967, una nuova immagine dell’arte nostra di quel tempo difficile, a lungo sottratta alla memoria storica. Fu quella una mostra che consentì sull’arte italiana fra le due guerre, per la prima volta, uno sguardo libero da retaggi eteronomi (e, ovviamente, in primo luogo politici). Carlo Ludovico Ragghianti, che la volle e l’organizzò, proprio a Firenze e proprio a Palazzo Strozzi, vi convocò un numero impressionante di opere – più di duemila. Ma quasi cinquant’anni sono da allora trascorsi: studi generali e particolari sul periodo, assieme a un collezionismo pubblico e privato a lungo in oculata espansione, e ovviamente alle innumerevoli mostre che li hanno accompagnati, rendono oggi non più necessaria la misura debordante della mostra del ’67 (come dell’altra grande esposizione sugli anni Trenta organizzata a Milano nel 1982): e opportuno invece uno sguardo diverso, più acuminato su taluni aspetti della creatività italiana del tempo (per esempio il design, che si sviluppò parallelamente alle arti così dette maggiori, e che è largamente rivisitato dalla mostra di oggi), e più selettivo in base alla qualità e allo spessore delle singole personalità.
Il centinaio di dipinti oggi riuniti a Palazzo Strozzi, insieme alle opere di scultura, di design, di fotografia che li affiancano (e insieme alle mostre correlate che punteggiano vari luoghi storici di Firenze), basteranno allora a definire il tema, e ad approfondirne qualche aspetto. E forse a dar fiato, nuovamente, ad un interesse, anche mercantile, che è andato negli ultimi anni indubbiamente, e incomprensibilmente, scemando su molte personalità di quel tempo: si pensi ai mediocri e amaramente sorprendenti risultati d’asta che hanno recentemente travolto autori come Sironi o de Pisis, ed insidiano adesso persino figure giudicate “intoccabili” come il de Chirico post-metafisico, o Morandi.
Certo, nei nostri anni Trenta si ricovera tanto; e forse troppo per tirarne la somma in un’unica esposizione. Per primo, l’ultimo frangente del “ritorno al classico” che ha involto le arti di tutta Europa subito dopo la “grande guerra” e l’eclisse delle avanguardie storiche, e che va presto rapidamente mutando i propri panni in un più retrivo “richiamo all’ordine”, guidato dall’adesione ad una nozione del “museo” e dell’“antico” che si fanno vieppiù normativi e soffocanti (e che finiranno per confluire con l’analogo dettame dell’ultima fase, ormai decisamente regressiva, dell’arte di regime). Proprio all’alba di quel tempo, già sul finire del decennio precedente, cresce invece, in molte realtà italiane (a Roma e a Torino anzitutto, con quella che fu battezzata da Roberto Longhi la “scuola di via Cavour”, e con il gruppo dei “Sei”), un senso di rivolta verso quella stanca imitazione di modelli aulici, che guarda in primo luogo alla Francia come metro di una possibile modernità, pur disgiunta dall’insegnamento dell’avanguardia. Nasce anche, allora, il conflitto fra una Biennale di Venezia sempre più legata al gusto paludato e neo-ottocentesco di Antonio Maraini e la Quadriennale di Roma di Cipriano Efisio Oppo, che ha la prima edizione nel 1931, e che nella sua edizione maggiore, del 1935, si erge a
contraltare battagliero e “giovanile” dell’istituzione veneziana.
A Milano, intanto, i primi passi maturi di Fontana e di Melotti, assieme a quelli di un grande outsider come il marchigiano Osvaldo Licini, guidano il manipolo d’astrattisti che, attorno alla Galleria del Milione, formulano per primi – e, per allora, unici in Italia – un linguaggio che s’allinea alle ricerche europee; mentre tutt’intorno ad essi, il “Novecento Italiano” protrae la propria egemonia sul gusto del pubblico. Certo, dunque, non tutto è degno, oggi, d’essere rivisitato, in quella nostra storia: che fu
un’epoca di divaricazioni insanabili, che la mostra odierna documenta, presentando anche, per la prima volta in Italia, un grande telero di Adolf Ziegler –
I quattro Elementi,
rappresentati da altrettanti accademici e leccati nudi femminili – che fu considerato il capolavoro della pittura nazista, e che è qui in ideale opposizione con talune opere che furono esposte, proprio alla fine del decennio e all’avvio del successivo, alle edizioni del Premio Bergamo, uno dei “luoghi” ove si concentrò l’insorgere dell’arte più decisamente avversa alla magniloquenza del regime. Toccata da un realismo e da un espressionismo che avrebbero connotato i modi maggiori della pittura e della scultura fin dentro gli anni della seconda guerra: e ad esempio esemplata, qui, dagli Amici nello studio di Guttuso, dal Seggiolone di Afro o dalla Demolizione di
Mafai; e ancora dal Caos di Birolli, da Sassu, Migneco, fino al primo Morlotti (Natura morta, 1941).
Chiude la mostra una ricca sezione che documenta gli sviluppi dell’arte a Firenze, guardata a muovere dall’opera tarda di Libero Andreotti (Orfeo che canta, 1931), attraverso taluni interpreti del secondo futurismo (Ram e Thayaht), ed esempi delle prove mature di Soffici (La processione, 1933), di Baccio Maria Bacci, di Lorenzo Viani, di Romanelli, e d’un Magnelli nella sua fase più legata alla tradizione, fino ai più giovani Ottone Rosai, Colacicchi, Manzù (David, 1938), e a coloro che a Firenze apportarono, venendo da fuori, un magistero seguito da molti (Felice Carena od Onofrio Martinelli).

23 Set

Anni ’30. Tra mito e modernità

23Sett2013

Scritto da Wanda Lattes, Corriere della Sera

La bellezza nonostante il fascismo Stili e tendenze contrastanti di un decennio che sconvolse l’arte

È una proposta ambiziosa quella della mostra che Firenze ospita da ieri a Palazzo Strozzi. Il titolo stesso, «Anni Trenta. Arti in Italia oltre il fascismo», si sforza di dimostrare che il periodo demagogico e colorito che precedette in Italia il decennio sanguinoso degli Anni Quaranta, dei bombardamenti, degli arresti, delle deportazioni, fosse anche un ambiente adatto alle arti e alla poesia. In realtà la selva di opere e di nomi portati a simbolo degli anni Trenta conserva il suo valore di contraddizione. Nel «sacro alloro che verdeggiava — secondo gli inni — sul Campidoglio della Roma divina» germogliarono inarrestabili i talenti che nulla avevano a che fare con l’ideologia fascista. Le opere, i personaggi portati alla ribalta sono di per sé la dimostrazione di un «non fascismo» dei protagonisti del decennio. Abbiamo a Milano Sironi, Martini, Carrà, a Torino un Casorati, a Roma Carena, Scipione, Mafai, Cagli, Gentilizi, a Firenze, tanto per dire, Soffici, Rosai, Lega e Viani, mentre nel settore della riproduzione industriale degli oggetti vediamo nascere il design vero e proprio grazie alla genialità di personaggi come Gio Ponti. Particolarmente audace il nucleo dedicato alle riviste culturali di Firenze capace di illustrare sguardi incrociati tra poesia, pittura, musica.
I personaggi di tutto rispetto qui citati forse non vestirono mai l’orbace, i neri indumenti che tanto piacevano al Duce e al suo Starace, ma di sicuro sarebbe difficile ancora oggi legare nomi, genialità, creazioni importanti di gente come Carlo Levi, che poi andò a patire nel confino di Eboli o di un Cagli, costretto come ebreo perseguitato alla fuga in America, a una propensione per il fascismo imperante. Il carattere sovranazionale dell’arte negli anni Trenta, dicono opportunamente gli organizzatori, si coglie comunque in modo più diretto nell’avanguardia futurista e astrattista e nelle opere dei più giovani e nella selezione di quelle nate a Roma o Milano.
Novantasei i dipinti, 17 le sculture, 20 gli oggetti di design esposti in varie sezioni. Si va dunque dai centri artistici con le opere esposte alle Biennali di Venezia e alle Quadriennali di Roma alle stanze dedicate ai giovani con le loro forme anti-accademiche. E poi il tema del viaggio con il gusto europeo degli artisti che avevano Berlino e Parigi come punto di riferimento, quello dell’arte pubblica con i bozzetti e i disegni preparatori delle costruzioni monumentali, spesso retoriche. E ancora il contrasto tra avanguardie e tradizione dopo l’etichetta di «arte degenerata» data alla prima corrente dai nazisti saliti al potere. Infine la sezione del design con una carrellata di oggetti e di immagini di interni tratte da fotografie e film d’epoca e un’ultima dedicata incentrata su Firenze in un incrocio di pittura, poesia, musica.
I curatori (Antonello Negri con Silvia Bignami, Paolo Rusconi, Giorgio Zanchetti e Susanna Ragionieri) tengono dunque a riconoscere esplicitamente come negli anni Trenta fu combattuta una serie di battaglie artistiche nelle quali erano schierati stili e tendenze, dal classicismo al futurismo, dall’espressionismo all’astrattismo, dall’arte monumentale alla pittura e alla oggettistica da salotto. La scena delle esperienze era complicata dalle comunicazioni di massa e dal design, manifesti, radio, cinema che in mostra sono ampiamente rappresentate.Se l’idea di arte come comunicazione di massa si concentra sull’arte pubblica-muralismo,manifesti la mostra offre confronti con le coeve situazioni europee,quali quelle di Berlino o di Parigi.
Quello degli anni Trenta,ribattono dunque gli ordinatori a scanso di confusioni,è Un decennio cruciale, iniziato con il clima di consenso al regime fascista che subirà dal 1938 la drammatica accelerazione delle leggi razziali per precipitare infine nella catastrofe dell’alleanza bellicosa con la Germania nazista. In questo scenario per gli artisti diventava sempre piu difficile «non schierarsi» come dimostra, ad esempio, il contrasto tra l’allineato Premio Cremona e un premio «fuori dalle righe» come il Bergamo.
Non si può fare a meno di ricordare come un approccio di alto valore critico all’analisi delle tendenze, delle fisionomie degli artisti costretti a misurarsi con un’epoca molto insidiosa fu quello del grande studioso Carlo Ludovico Ragghianti con la sua importantissima mostra degli anni Sessanta, sempre a Palazzo Strozzi (2108 opere), sull’Arte Moderna in Italia.
Wanda Lattes

 

20 Set

PICASSO IL CANNIBALE DELLA PITTURA

20Sett2012

Scritto da LEA MATTARELLA, la Repubblica

MAESTRO DI TUTTI GLI STILI Al Palazzo Reale di Milano una grande rassegna ripercorre la poetica del genio del Novecento attraverso 250 opere provenienti da Parigi


«La pittura è più forte di me, mi fa fare ciò che vuole», diceva Picasso. Ed era davvero così: il più grande artista del Novecento sembrava posseduto dal suo stesso talento, dalla sua passione, da una vitalità esplosiva e una specie di bulimia creativa che lo portava a sperimentare materiali e linguaggi senza fermarsi mai. Una mostra di Picasso, come quella aperta a Palazzo Reale dove torna dopo quasi 60 anni, curata da Anne Baldassari, che raccoglie 250 tra dipinti, disegni, sculture e fotografie, è un viaggio attraverso invenzioni e suggestioni sempre diverse e affascinanti. È vero, insieme a Braque ha avuto l’intuizione del cubismo, e basterebbe questo per consacrarlo tra i grandi. Ma lui era molto di più, un vero monumento alla storia dell’arte e non era qui, sulla strada cubista, che poteva fermarsi. La sua è una vicenda leggendaria dai molti capitoli che a volte, per sua precisa volontà, si accavallano tra loro.
Le opere esposte in questa occasione ripercorrono le tappe di un cammino che lo ha visto non soltanto inventare ma anche guardare, attravermorte,
sare, amare, possedere e trasformare gran parte delle immagini che lo circondavano. Sempre in modo originale, frugando tra le pieghe dell’arte. Tutta. Dalla scultura iberica all’arte africana, dal classicismo al surrealismo, ma non solo. Diceva: «A me la pittura piace tutta, guardo sempre i quadri buoni o cattivi che siano, dal barbiere, nei negozi di mobili, negli alberghi di provincia. Sono come un bevitore che ha bisogno di vino. Purché sia vino non importa che vino». Guardare per lui significava afferrare. E trasfigurare tutto in qualcosa di personale. Non a caso lo hanno definito il Gran Cannibale della pittura. «Io dipingo esattamente come altri scriverebbero la loro autobiografia. Le tele, finite o non finite, sono come le pagine del mio diario». E quelle che si sfogliano a Palazzo Reale sono davvero le più intime: si tratta infatti di opere che arrivano dal Musée Picasso di Parigi, nato dopo la sua
con i materiali conservati nei suoi diversi studi. Quadri, sculture, disegni che lo hanno accompagnato per tutta la vita. E se si crede alla sua dichiarazione «sono il più grande collezionista di Picasso di tutto il mondo», si può essere certi della qualità e dell’importanza della raccolta che viene presentata qui.
Folgoranti gli esordi. Picasso, che è nato a Malaga nel 1881, compie il suo primo viaggio a Parigi nel 1900 e inizialmente è attratto dall’universo di Toulouse-Lautrec, com’è evidente dall’atmosfera di questo Café Concerto.
Ma nel giro di poco tutto cambia: il suo amico, il poeta Carlos Casagemas che era arrivato con lui da Barcellona dove avevano studiato, si uccide per amore. E il giovane Pablo, dopo averlo raffigurato con il buco della pallottola bene in vista sulla tempia e una lampada che emana irradiazioni colorate alla Van Gogh, mette a lutto la sua tavolozza per varcare la soglia di mondi notturni e oscuri abitati da mendicanti, derelitti, emarginati. Come l’intensa Célestine dall’occhio cieco, uno dei capolavori di questa stagione dominata dalla compassione, nota come il suo “periodo blu”. Dopo, eccolo abbandonare i toni freddi e mettere in scena la rivincita del rosa, degli ocra, di un colore caldo che veste ogni cosa.
Les deux frères del 1906 e l’Autoportrait che pare di pietra, sono un esempio straordinario della malinconia picassiana di questi anni in cui compaiono le prime figure di saltimbanchi e l’Arlecchino che diventerà uno dei suoi tanti alter ego sulla tela.
La sterzata dell’anno successivo non riguarda soltanto Picasso, ma investe tutta la pittura occidentale. Dal 1907 in poi la parola bellezza rivestirà davvero un nuovo significato. Nascono le Démoiselle d’Avignon, precedute dagli studi qui esposti che lo mostrano alle prese con modelle e muse scovate – e non cercate – al museo etnografico del Trocadero. Lui lo racconta così: «Era disgustoso, quando vi sono andato, un mercato delle pulci. Puzzava. Ero solo. Volevo andarmene.
Non me ne andavo. Restavo. Ho capito che era molto importante: mi stava accadendo qualcosa. Le maschere non erano sculture come le altre. Per niente. Erano oggetti magici… Contro tutto: contro spiriti sconosciuti, minacciosi. Continuavo a guardare i feticci. Ho capito: anch’io sono contro tutto… Ho capito perché ero pittore…
Les Demoiselles d’Avignon mi devono essere nate quel giorno: non per via delle forme, ma perché era la mia prima tela di esorcismo». Da lì al Cubismo il passo è breve e così, tra spigoli e scomposizioni, si arriva a un rigore che ha bisogno del monocromo dell’Homme à la guitare e dell’Homme à la mandoline.
Ma non basta. Per conquistare la realtà, questa deve penetrare l’arte: legni, carte, chiodi, carte da gioco occupano lo spazio del dipinto, latte tagliate, piegate e colorate diventano sculture. C’è anche una sella di bici con un manubrio a fingere la testa di un toro o uno scolapasta che è quella di una donna. Ma per Picasso è impossibile fermarsi: nel 1914 dipinge, ritrovando una volumetria classica,
Il pittore a la modella.
Una parentesi? Niente affatto. Nel 1917, mentre il cubismo si diffonde come un’epidemia diventando quasi un’accademia, lui che fa? Un viaggio in Italia dove collabora con i Balletti russi e si innamora di Olga, una ballerina, che subito ritrae strizzando l’occhio ad Ingres. Ed è lui stesso a raccontare di averlo fatto perché «non si è stregoni a tempo pieno. Come si potrebbe vivere?». Nascono così, da suggestioni mediterranee e rivolte all’antico, le sue gigantesse che corrono in riva al mare, monumentali anche nella piccola dimensione. E Paul en Arlequin, un capolavoro nella sua risolta incompiutezza. Ma Picasso non la smette di infilarsi in nuove avventure: deforma surrealisticamente strane figure che giocano a palla sulla spiaggia o si accoppiano in maniera bizzarra. L’eros ha un ruolo fondamentale nella sua vita e dunque nella sua arte. La sua amante Marie Thèrese è la protagonista di immagini neocubiste dalla forte componente sensuale, mentre l’altra sua compagna, la fotografa
Dora Maar, è spesso ritratta che piange. Succede nel 1937 quando Picasso sta immaginando Guernica, la sua opera “politica”, insieme al Massacro in Corea
qui esposto. Dopo è un fiorire di bagnanti, donne che si pettinano o leggono, nudi distesi, rivisitazioni dei grandi maestri del passato che anticipano il postmoderno. Fino a quell’ultimo Le jeune peintre dipinto nel 1972 che sembra voler schiacciare il pulsante sul rewind. Per ricominciare ancora.

 

17 Set

I miei sì e il mio no a Picasso

17Sett2012

Scritto da EVGENIJ EVTUSHENKO – Corriere della Sera

«Un maestro di libertà e amore, però sbeffeggiava le donne»

Come poeta rimasi molto colpito da quello che avvenne tra la folla durante i funerali di Stalin. E, tre anni dopo, in un’altra folla che si riversò alla mostra di Picasso, nel museo Puskin, fondato e diretto da Ivan Cvetaev, padre della grandissima poetessa Marina Cvetaeva.
La prima folla era composta da diverse ma tutto sommato brave persone, che, trasformate in rabbiosi animali, si spingevano a vicenda sino a calpestare chi aveva avuto la sfortuna di cadere. La folla stava diventando un mostro che divorava se stesso; poi, fortunatamente, la gente si ravvide e cominciò a intrecciare le braccia. Fra questi, due poeti: German Plisetzkij, autore dello sconvolgente poema La tromba ed io.
La seconda folla era diventata un gigantesco blocco compatto, come avveniva normalmente in Urss. Chiamarla folla sarebbe forse offensivo. La gente irrompeva nelle sale di Picasso, come volesse far breccia nella cortina di ferro. Non ho mai visto tanti occhi intelligenti, a distanza di anni dall’insurrezione popolare sulle barricate e, purtroppo, in seguito vilmente ingannata. Fu la prima volta che potei guardare molti quadri di Picasso in originale, come d’altronde il mezzo milione di visitatori. In seguito, quando Krusciov attaccò i nostri pittori, Picasso rinunciò ad essere premiato. Accettò soltanto quando agli artisti venne garantita l’incolumità.
Ognuno di noi ha il suo personale Picasso e mai nessuno riuscirà a convincerci che quello di un altro possa essere, alla lunga, migliore del nostro. I geni sono sempre universali: ricordo che una volta, in Mauritania, un mio collega d’università mi portò, con fare misterioso, in un angolino appartato e con voce sommersa mi comunicò che, nel suo dottorato, aveva dimostrato in maniera inattaccabile che Otello aveva un carattere mauritano — la qual cosa dimostrava senza dubbio che uccidere la fedifraga in modo così passionale avrebbe potuto farlo solo un mauritano. Aveva trovato il suo prototipo storico: non era stato poi così difficile, perché in realtà la spiegazione era sotto gli occhi di tutti, persino il nome aveva l’assonanza con quello di Shakespeare — lo sceicco al Sabir.
Mi è sempre sembrato e mi sembra tuttora che la genialità di Shakespeare stia nel fatto che il suo Amleto può contemporaneamente essere sia arabo, sia ebreo, sia danese, sia tantissimi russi, mentre, per dire, un personaggio come Aljosha Karamazov, con la sua lancinante confessione e cocente autoaccusa, mi è capitato — figuratevi — di incontrarlo in mezzo alle distese dell’Oklahoma, che bruciava dalla vergogna del suo appena confessato, e non così spaventoso, peccato, che persino lo invidiai un pochino. Ahimé!, neppure l’autoaccusa di noi russi è quella d’una volta. Mentre nella gioiosa Italia, figuratevi, mi capitò d’incontrare una persona tormentata da dilemmi di coscienza d’uno dei personaggi di Faulkner.
Picasso non solo ha cambiato la pittura, ma anche la letteratura, il cinema, la musica, l’architettura, ma non se stesso. Lo si può intravedere nel primo Majakovskij, in Márquez, nei film di Fellini. E così, il mio Picasso è un uomo felice, perché nel 1900 — a diciannove anni — come racconta sua madre, si fece un autoritratto con una didascalia non certo modesta: «Sono il re».
Anche sua madre l’assecondò nel suo egocentrismo: «Se farai il soldato, alla fine diventerai generale. Se farai il prete, arriverai alla sedia gestatoria».
Mentre sapete che cosa ho pensato io? Se esiste il detto «Ama il tuo prossimo come te stesso», forse non c’è, in fondo, niente di male se le persone imparano ad amare gli altri sulla propria pelle. E qui mi accorgo che, sottovoce, assieme a Picasso giustifico anche me stesso. A volte egli non aveva pietà con le donne, anche se, dicono che non lo facesse apposta, ma solo per via della sua diabolica insaziabilità di bellezza: ora le ammirava estasiato, ora le distruggeva con un piacere per me inspiegabile. Eppure guardando con attenzione alcuni suoi ritratti femminili — Dio mio!, non mi dispiace che ne abbia lasciato tanti a Saint-Paul-de-Vence — molti di essi sono una beffa alla grande arte: che più grande è, più caritatevole deve essere. In poche parole, il mio Picasso è quello del periodo blu, quello familiare-circense, oppure quello della donna stanchissima con il ferro da stiro, così teneramente dipinta; o ancora quello del vecchio ebreo con il bambino; oppure del figlio di Paul Cézanne nel ruolo di Arlecchino, in cui egli ha colto qualcosa di pericolosamente fragile, indipendentemente dall’aria spocchiosa. Mentre non posso accettare la mancanza di carità che si trasforma in beffa vendicativa sulle donne, come se per i loro dispetti, lui volesse fargliene ancora di più. Il quadro più significativo di Picasso, per cui si fa perdonare tutti i suoi — talvolta pessimi — scherzi e giochi con pennello e colori, è naturalmente la tela che non si sa perché a volte viene chiamata «Gli acrobati» o «La bambina sulla palla». Tempo indietro questo quadro mi aiutò a comporre una poesia dedicata all’amore, che ho riscritto più volte (Guardando un dipinto di Picasso). Forse una volta mi ha anche salvato la vita.
(Traduzione di Rayna Castoldi)
© Pen Italia

09 Set

Le tele visionarie di Modzelewski alla guida dell’avanguardia polacca

9Sett2012

Scritto da LEA MATTARELLA, la Repubblica

   Jaroslaw Modzelewski presenta fino al 20 settembre a Palazzo Blumenstihl, sede dell’Istituto Polacco di Roma, i suoi dipinti datati dal 2008 a oggi sotto un titolo inconsueto: Retroguardia polacca.
Sono passati più di vent’anni dalla sua prima apparizione romana nella mostra del 1987 dedicata a Gruppa, il movimento che aveva contribuito a fondare, intitolata proprio
Avanguardia polacca.
Oggi con ironia si diverte a mettere la marcia indietro. Nato nel 1955, Modzelewski vive a Varsavia dove insegna pittura all’Accademia di belle arti. E dipinge quadri come quelli mostrati in questa occasione: paesaggi senza nessuno, oppure interni abitati da strani eppure tremendamente familiari personaggi che sembrano mettere in scena veri racconti.
C’è una chiesa infuocata di rossi e ori in cui si aggirano figure che suggeriscono immagini e spazi tra Munch e Bergman. Se il punto di partenza è la realtà, Modzelewski sa come trasfigurarla: lo fa con i gesti esagerati dei Pescatori sordomuti o con i contrasti di colore della sua visionaria Centrale termoelettrica.