15 Giu

Fabio Mauri e la banalità del male nella sua arte le tragedie del ‘900

Scritto da CRISTIANA CAMPANINI – la Repubblica, pagine Milano

Palazzo Reale dedica una mostra al maestro concettuale, celebrato anche a Kassel

IL DOLORE, la storia, l’ideologia, il percorso di Fabio Mauri (Roma, 1926-2009) è rigoroso attraverso un’opera politica che non fa concessioni allo spettacolo, all’ironia, al gioco o al paradosso a cui l’arte contemporanea ci ha spesso abituati. Pittore, regista, scrittore, drammaturgo, la vita d’artista s’intreccia fitta a quella di editore (prima direttore di Messaggerie e Garzanti, dal 2005 presidente del terzo gruppo italiano, Gems – Gruppo editoriale Mauri Spagnol).
«Un turista di tutte le arti possibili », lo definisce Lea Vergine, curatrice della sua prima grande retrospettiva prodotta dal Comune di Milano che sarà inaugurata lunedì a Palazzo Reale alle 19 (in uscita anche due libri, Ideologia e memoria, Bollati Boringhieri con prefazione di Umberto Eco, e il catalogo Skira The end,
che accompagna la mostra). Mauri è considerato uno dei maestri dell’arte concettuale italiana e anche Documenta 13, la rassegna quinquennale inaugurata da pochi giorni a Kassel, punta i riflettori sul suo lavoro dedicandogli un’intera sala, oltre a riallestire una sua performance del 1989, Che cos’è la filosofia,
un’azione collettiva, quanto mai attuale, che solleva interrogativi come «Cos’è la Germania? E l’Europa? Che significa essere Europa?».
Figlio di Umberto, direttore commerciale della Mondadori e agente di Pirandello, e di Maria Luisa Bompiani, sorella di Valentino, a 16 anni fondava con Pasolini la rivista d’arte e letteratura “Il Setaccio”. Ma sono gli orrori della guerra a condurlo appena diciottenne alla follia, da cui uscirà solo dopo 33 elettroshock. L’adolescenza drammatica lo porta a interrogarsi per tutta la vita sull’origine del male, toccando temi come il fascismo, il nazismo, la shoah, nel tentativo di decifrare la realtà e soprattutto scovare i luoghi in cui il male risiede e si ripete. Dagli anni Cinquanta con Umberto Eco ed Edoardo Sanguineti fonda il Gruppo 63 e la rivista d’avanguardia “Quindici” (1967). E nell’arte dall’espressionismo passa al collage e ai fumetti. Seguono monocromi, installazioni e performance.
Palazzo Reale riunisce oltre cento opere in 12 sale. Ci sono installazioni- capolavoro come Ebrea (1971), un’antologia di design dell’orrore, un ambiente domestico punteggiato di oggetti che dichiarano di essere fabbricati con i materiali organici degli ebrei morti nei campi di sterminio nazisti. Oppure Il muro Occidentale o del pianto
(1993), valige impilate in un muro squadrato per raccontare d’identità in fuga unite da un destino comune. Si aggiungono disegni inediti e dipinti monocromi della serie
Schermi, sculture, installazioni e una forma pionieristica di cinema live. Nel 1975 Fabio Mauri proiettava, ad esempio, un film di Eisenstein in un secchio colmo di latte. Da quell’opera-performance, dal titolo Senza ideologia, i visitatori potevano attingere con un mestolo per bere la materia stessa del film. Lo stesso anno, con
Intellettuale alla Galleria comunale di Bologna, la camicia indossata da Pasolini diventava schermo del suo film Il Vangelo secondo Matteo.
«Una radiografia dello spirito», come la definiva Mauri.

09 Giu

MOSTRA DI PITTURA RUSSA E SOVIETICA

Scritto da Redazione

Dal 12 aprile al 31 maggio 2012 al Teatro della Cooperativa di Milano

Le opere esposte nel foyer del Teatro della Cooperativa appartengono alla corrente artistica pittorica del Realismo socialista sovietico, arco temporale che va dal 1930 al 1990 anno dello scioglimento del CCCP.

Le tele esposte sono state realizzate da artisti per la maggior parte ucraini, tra cui il più anziano Khodchenko Lev Pavlovic (1912-1998), e il più conosciuto in Europa Sulimenko Peter Stepanovich (1914-1996), tutti provengono da importanti scuole accademiche e  sono stati  premiati in Unione Sovietica ed all’estero.

La sincera adesione ai valori del realismo li vede interpreti di tematiche storiche e sociali affidati ad un linguaggio sicuramente didattico e didascalico, ma pur sempre originale nella ricerca dell’impatto comunicativo.

I dipinti presenti in mostra hanno soggetti vari e stili diversi per un pubblico variegato.Il perché di questa mostra è molto semplice: l’arte, in tutte le sue forme, per tutti.Per gli interpreti del realismo sovietico l’arte non era esclusiva dei salotti borghesi, ma era di fruizione pubblica. Anche noi riteniamo che il piacere estetico ed etico di tali opere possa essere fruito dal pubblico e dagli amici del Teatro della Cooperativa.

Tra gli artisti potrete ammirare dipinti di:

BONYA GRIGORY VASILEVICH (“Lenin in Crimea”)
SULIMENKO PETR  STEPANOVICH (“Comizio di Lenin”)
SIDOROV ALEKSEI EVDOKIMOVICH (“Comizio di Lenin”)
TOMENKO GRIGORI ALEKSEEVICH (“Lenin con Bambini”)
KHODCHENKO LEV PAVLOVIC (“Festa”)
KOVTONYUK IVAN ANANEVICH (“Premiazione trattoristi”)
EGOROV BORIS KUZMICH (“Fabbriche in produzione“)
CHERNY MIKHAIL NIKIFOROVICH (“Ciapaiev”)
POLONSKI EUGENI PAVLOVICH (“Fino all’ultimo respiro”)

05 Giu

1917, la morte entra a capofitto nell’arte

Scritto da Anna Maria Merlo – il manifesto

RASSEGNE Al Pompidou Metz, l’anno cruciale METZ.

Il 1917 è «l’anno impossibile» che, pur essendo il meno cruento della Grande guerra (150mila morti, mentre dal 1914 al ’18 ci sono stati circa 9 milioni di morti e 20 milioni di feriti), vede irrompere la morte nella rappresentazione del conflitto e gli artisti non esitano più a mostrare l’orrore. È l’anno in cui arrivano sulla scena bellica i blindati sui campi di battaglia, quello dell’entrata in guerra degli Stati uniti e della rivoluzione in Russia. Il 1917 è anche l’anno della scomparsa dello scultore Rodin e dell’effervescenza creativa, sia nelle retroguardie, come a Parigi, che nei paesi neutri: ad Amsterdam il 16 giugno viene fondato il gruppo De Stijl, a gennaio a Zurigo c’era stata la prima mostra Dada. Grandi artisti si ispirano agli avvenimenti in corso, il vecchio Monet accetta l’idea di dipingere la cattedrale di Reims bombardata, opera che non realizzerà mai, mentre al fronte gli eserciti inviano dei pittori e fotografi per registrare i fatti e riportare immagini del conflitto.
A questo anno di guerra, il Pompidou-Metz dedica la rassegna 1917 (fino al 24 settembre) in cui sono coinvolti tutti i campi di intervento artistico. L’opera più eccezionale esposta è Parade di Picasso, il sipario realizzato per un balletto, con testo di Cocteau e musica di Satie, rappresentato al Téâtre du Châtelet a Parigi il 18 maggio 1917 di fronte a un pubblico più che perplesso e anche offeso. Si tratta del più grande Picasso esistente, 170 mq di stoffa (10,5m x 16,4), 45 kg di peso, che appartiene alla collezione del Pompidou ma che è stato esposto solo una decina di volte e da vent’anni era nei depositi.
La mostra abbina opere di grandi artisti – Duchamp, Giacometti, Brancusi, Klee, Dix, Matisse, de Chirico – ai lavori di dilettanti, che in quell’anno avevano sentito il bisogno di reagire alla tragedia in corso con il ricorso all’arte. Sono quindi presenti esempi della cosiddetta «arte delle trincee», opere realizzate su tutti i fronti a partire da residui di obici e di armi.
L’esposizione si divide in due parti: la prima è dedicata alla nozione di distanza, fisica o simbolica, dagli avvenimenti, con temi dominanti come la morte o il fuoco, i rifugi, le evasioni mistiche, l’oggetto e le sue trasformazioni. Per la prima volta, sono esposte assieme Fontaine di Duchamp (il famoso orinatoio), Princesse X di Brancusi (un fallo in bronzo, all’epoca giudicato osceno) e God di Elsa von Freytag. La seconda parte della mostra, allestita in forma di spirale, si concentra sulle problematiche della distruzione e ricostruzione, sui corpi e i volti deturpati, sui paesaggi e le architetture distrutte. È esposto un insieme eccezionale di autoritratti: Chagall, Gonzalez, Monet, Nolde, Orpen, Hans Richter. E una intera sezione è dedicata all’estetica delle rovine e del frammento.
In questa «spirale» – motivo ricorrente nel 1917, che simboleggia sia i disastri fisici che i tormenti interiori – dominano la morte e i tentativi di proteggersi da essa. La maschera di Arlecchino compare a varie riprese, fino al tendone di Parade. «Per vincere la guerra tutti i soldati avrebbero dovuto vestirsi da Arlecchino», aveva detto Picasso. Accanto, sono esposti i volti modellati in cera e gesso dei soldati terribilmente mutilati dalle esplosioni, con le fotografie delle prime protesi e i tentativi di ricostruzione (provenienti da musei militari). Una mano di Rodin è esposta accanto alle modellature di quelle di due soldati mutilati. L’ultima tranche della rassegna guarda al futuro. In particolare, alcuni esempi di astrazione russa aprono la prospettiva verso tempi di grande creazione.

01 Giu

Dürer La disciplina del genio

Scritto da PAOLO LEPRI – Corriere della Sera

L’artista torna nella sua città natale. Dopo tre anni di raggi X

I l ruolo di Albrecht Dürer nella storia dell’arte mondiale è così importante che un suo quadro era stato scelto per una curiosa operazione politico-diplomatica, poi rimasta bloccata da quegli improvvisi cambiamenti di clima che spesso si registrano nei rapporti internazionali. Per concludere nella Piazza Rossa di Mosca «l’anno tedesco-russo», il presidente della Germania Joachim Gauck e il leader del Cremlino appena rieletto, Vladimir Putin, avrebbero dovuto partecipare al montaggio di un gigantesco puzzle, di 1.023 pezzi, che riproduceva un autoritratto dell’autore di «Il Cavaliere, la morte e il diavolo». Sarebbe stato un evento significativo. Ma lo è sicuramente di più questa mostra, Der Frühe Dürer, apertasi nei giorni scorsi al Germanisches Nationalmuseum di Norimberga. E ai visitatori non sono offerte le tessere di un rompicapo ma i capolavori di uno dei geni della cultura umanistica.
L’itinerario espositivo si ferma alla vigilia del secondo viaggio in Italia di Dürer, un artista profondamente tedesco ma che fu aperto al mondo esterno e capace di conquistare rapidamente un’ampia fama in tutta l’Europa. Centocinquanta opere, di cui 120 provenienti da 12 Paesi, alle quali se ne aggiungono altre cinquanta di contemporanei come Hans Pleydenwurff, Michael Wolgemut e Martin Schongauer. Uno sforzo costato un milione e mezzo di euro, grazie al quale Dürer torna, a distanza di oltre quaranta anni, nella sua città natale dopo la mostra organizzata nel 1971 per il cinquecentesimo anniversario della nascita.
Ad accogliere i visitatori è Dürer in persona. O meglio, la statua in marmo bianco realizzata nel 1882 dallo scultore Friedrich Beer, ritenuta scomparsa durante la seconda guerra mondiale e ritrovata poco meno di due anni fa. L’opera di Beer è ispirata all’«Autoritratto a tredici anni», conservato all’Albertina di Vienna: un disegno a punta di argento che è il punto di partenza della mostra di Norimberga. Poco più che bambino, il figlio dell’orafo ungherese si ritrasse nel 1484 con l’aiuto di uno specchio, inaugurando così precocemente la sua carriera e aprendo una pagina nuova nella storia dell’arte europea.
Sei sezioni tematiche approfondiscono con grande ricchezza di apparati critici la figura di Dürer «come archetipo dell’artista moderno». Sarebbe sbagliato però non citare singolarmente almeno qualcuno dei punti di forza di questo complesso percorso, ricostruito con grande esattezza anche nella chiave della capacità di coniugare la sensibilità nordica con la forza cromatica della pittura italiana. Ecco la «Madonna con bambino» (o «Madonna Haller», dal nome della famiglia di Norimberga che la commissionò), arrivata dalla National Gallery di Washington, che risente degli influssi del primo viaggio a Venezia, Padova e Ferrara, compiuto tra il 1494 e il 1495. Oppure il visionario ciclo di xilografie della «Apocalypsis cum figuris», del 1498. Dalla Galleria degli Uffizi proviene «L’adorazione dei Magi», databile al 1504, opera eccezionale sia per lo studio della prospettiva che per le scelte cromatiche. «Il Dio dei colori», ha scritto il settimanale Der Spiegel.
Una delle novità di questa mostra è stato il lavoro tecnico-scientifico che l’ha preceduta. Nell’arco di tre anni un gruppo di ricercatori ha compiuto una serie di studi in vari musei del mondo con raggi X e fotocamere infrarosse riportando alla luce gli schizzi preliminari e individuando gli strumenti utilizzati da Dürer. I risultati di queste ricerche permettono ai visitatori di capire i segreti dell’artista e di entrare nel suo mondo. È stato, naturalmente, compiuto anche un esame delle condizioni di conservazione delle opere e della loro fragilità, provocata dal passare dei secoli. Non ha rappresentato quindi una sorpresa, anche se è stata accolta con un po’ di delusione e qualche malumore, la decisione presa a Monaco di Baviera dalla Alte Pinakothek di non mandare a Norimberga l’Autoritratto con pelliccia, del 1500. Ma si tratta ugualmente di un appuntamento da non perdere.