17 Mar

Riuniti a Milano i quattro Bruegel

Ultimo aggiornamento Sabato 17 Marzo 2012 08:15 Scritto da PIERLUIGI PANZA – CORRIERE DELLA SERA

Per la prima volta insieme da quando Napoleone li requisì

Dopo più di 200 anni i Quattro elementi di Jan Bruegel il Vecchio — figlio di Pieter e padre di Jan il Giovane — tornano tutti insieme a casa. Dal 27 marzo saranno esposti alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano, che ne possiede permanentemente due («Acqua» e «Fuoco») mentre gli altri due («Terra» e «Aria») sono finiti a Parigi, dove li spedì Napoleone nel maggio 1796. A dire il vero Napoleone li requisì tutti e quattro; ma nel corso delle restituzioni post Congresso di Vienna due tornarono grazie all’impegno del Canova. Perché, se fosse stato per il generale austriaco che gli Asburgo mandarono al tavolo delle trattative, non sarebbero tornati nemmeno quelli. Ora non è più tempo di restituzioni ma di scambi temporanei incrociati tra musei: per riaverne due in mostra (sono già arrivati a Milano) abbiamo prestato al Louvre la Sacra famiglia del Luini eseguita sul cartone di Leonardo (e altro).

Prima che tornassero per questa mostra dedicata a loro («Rizomata. Il ritorno di Bruegel a Milano» a cura di Marco Navoni, arriverà in prestito dal Louvre anche il Ritratto di Francesco I di Tiziano), i Quattro elementi avevano casa a Milano perché Jan Bruegel (che soggiornò in Italia tra il 1592 e il 1596) fu pittore del cardinal Federico Borromeo. «I due si erano conosciuti a Roma, ma i dipinti vennero commissionati al pittore successivamente, quando Federico era già arcivescovo di Milano e lui (noto per i suoi dipinti di fiori) era tornato nelle native Fiandre», racconta monsignor Navoni. «Gli furono ben pagati e finirono nella pinacoteca. C’è molta corrispondenza tra i due, che ben racconta le trattative». Poi Napoleone li requisì insieme al Codice Atlantico di Leonardo e al manoscritto con le opere di Virgilio annotate dal Petrarca.
Quattro elementi di Jan Bruegel, figlio di un pittore in odore di alchimia, sono delle vere e proprie enciclopedie ricche di elementi disposti secondo schemi allegorici e un ordine che seguiva i metodi dell’Arte della memoria, insegnata allora dai filosofi. E alla luce di queste discipline scomparse andrebbero interpretati.
Dipinti in età abbastanza matura, a partire dal 1608 (Bruegel nacque a Bruxelles nel 1568 e morì ad Anversa nel 1625) sono olî su rame piccoli (cm. 46×66) ma straordinariamente particolareggiati. Il più impressionante è forse l’allegoria del «Fuoco», nel quale l’elemento è evidenziato nell’enorme incendio ma, come messo in evidenza dallo stesso cardinal Federico nel suo commento, sviluppato attraverso la rappresentazione di un’enorme officina metallurgica dove gli operai (che egli definisce «ciclopi») sono al lavoro per produrre un’enorme quantità di oggetti come armature, cristallerie, brocche, utensili domestici e strumenti da laboratorio tutti con valenza allegorica ed enciclopedica. C’è anche un lampadario con aquila bicefala, sei fiammelle di cui una sola accesa…
L’Allegoria della terra mostra in primo piano il leone, il lupo e il pavone, animali con vari significati allegorici, ambientati in una sorta di Paradiso Terrestre (sullo sfondo ci sono anche un Adamo ed Eva con Dio che mostra l’Eden): la scena illustra gli animali in perfetta armonia, cosa che più non sarà dopo lo sbarco delle bestie dall’Arca di Noé. Oltre alla vegetazione rigogliosa del bosco, nell’angolo destro spicca un raffinato mazzo di fiori, che richiama i sontuosi dipinti di vasi di fiori (come i due conservati all’Ambrosiana), considerati tra i capolavori del pittore.
«Acqua» e «Aria» aggiungono all’enciclopedismo anche riferimenti mitologici.
L’«Allegoria dell’acqua», divisa in due parti dai due alti alberi frondosi, presenta al centro un’anziana divinità fluviale maschile accanto a una grande conchiglia dalla quale sgorga acqua di sorgente. In piedi un giovane, da un’altra conchiglia, spande acqua all’intorno: è l’immagine della rigenerazione. A destra delle due piante si vede, circondata da un lussureggiante bosco, una cascata impetuosa a indicare l’acqua che proviene dalla terra e dal cielo; a sinistra, invece, un panorama marino con l’accenno di un arcobaleno, simbolo dell’Alleanza tra Dio e gli uomini. Siamo all’atto della Creazione, e in primo piano troviamo una palude dove si notano «tutte» le specie di pesci, crostacei e molluschi creati da Dio in un susseguirsi che ha lo stesso senso tassonomico di quello ricercato da Arcimboldo con le sue grottesche figure. Questo dipinto fu inviato con certezza da Bruegel al cardinal Federico nel 1614, ed è il terzo della serie a essere stato realizzato.
L’ultimo è l’Allegoria dell’aria. Il cardinal Federico afferma che, nel dipingere questo quadro, «Bruegel lo ha perfuso tutto di gioia». La scena è animata e domina, al centro, una figura mitologica femminile rivestita di un drappo rosso, che nella mano sinistra regge una sfera armillare, cioè un modello della volta celeste con le orbite dei vari pianeti. Intorno dei putti stanno giocando con strumenti per la misurazione del cielo: compassi, astrolabi e un cannocchiale. Cosa guardano? Nel cielo spuntano i mitologici carri del sole e della luna. Tutt’intorno si affolla una quantità impressionante di uccelli esotici, che Bruegel forse aveva visto in vendita nei porti anseatici insieme a spezie, metalli, sale, lino e curiositas allora tanto apprezzate da allestirci con esse meravigliose camere delle meraviglie.
Questo fu l’ultimo dei quattro elementi a essere dipinto; viene datato 1621. Quattro anni dopo, Jan Bruegel «dei fiori» morì di colera nella mercantile Anversa. La sua bottega fu presa dal figlio Jan il Giovane e la sua testimonianza portata avanti dal più celebre dei suoi collaboratori, Pieter Paul Rubens.

16 Mar

Mirò, il sognatore che volle diventare cattivo

Scritto da LEA MATTARELLA – la Repubblica

Al Chiostro del Bramante di Roma ottanta opere tra dipinti, sculture e disegni ripercorrono la poetica del maestro catalano. Un viaggio alla scoperta dei segni e dei colori di un artista che ha rappresentato il lato fantasioso e onirico della pittura del Novecento.  Nel silenzio di Palma, è come se sentisse il desiderio di reinventarsi, di accelerare il passo

ROMA.  «Quando potrò stabilirmi da qualche parte – scriveva Joan Miró nel 1935 – il mio sogno è avere un grande studio… andare oltre la pittura da cavalletto». Il desiderio di una “stanza tutta per sé”, l´artista catalano lo realizza nel 1956 quando l´amico architetto Josep Lluís Sert progetta il suo atelier a Palma de Maiorca, dove Miró immediatamente si ritira.
La mostra Miró! Poesia e luce, aperta al Chiostro del Bramante fino al 10 giugno, curata da María Luisa Lax, racconta proprio gli anni in cui il pittore vive in una dimensione che aveva sempre agognato, in una terra che ama, con molto spazio intorno per creare. All´epoca è già un artista celebre, ha legato il suo nome alle esperienze surrealiste, ha vissuto a Parigi, ha inventato un mondo pittorico trasognato, fatto di elementi biomorfici, di costellazioni stilizzate, di forme misteriose che navigano, sospese e senza peso in uno spazio della tela diventato fluido.
Ma adesso, più che sessantenne (era nato a Barcellona nel 1893), nel silenzio di Palma, è come se sentisse il desiderio di reinventarsi, di accelerare il passo della sua pittura. Ed è proprio il suo studio il fulcro di questa mostra. Tanto che viene ricostruito attraverso gigantografie e oggetti originali nel piano superiore del museo: c´è la sua sedia a dondolo, il carrello su cui lavorava, sporco di colore come fosse un quadro.
Le opere raccolte in questa esposizione – 80 in tutto, tra dipinti su diversi supporti (tela, compensato, masonite), carte, sculture, ceramiche – sono state realizzate in gran parte dal 1956 in avanti. Con qualche eccezione, come il paesaggio che apre la rassegna datato al 1908. Miró, nel 1960, guardandosi alle spalle, consapevole di essere entrato in una nuova stagione della sua vita pittorica, lo aveva occultato con un giornale su cui aveva posto la firma e la data del dipinto che aveva eseguito sul retro. Un accurato restauro ha permesso di rivelare l´opera precedente, così è possibile vedere contemporaneamente l´antica veduta ancora figurativa, il nuovo quadro in cui appare il suo lessico più noto e il giornale con la firma. «Lo abbiamo voluto esporre perché è importante per capire il modo in cui l´artista lavorava –spiega la curatrice – questa è infatti una mostra sul metodo di Miró, sul suo modo di affrontare il quadro che nell´ultima fase della carriera assume toni sempre nuovi. È come se Miró vivesse una seconda giovinezza. Si mette in discussione, ribalta il punto di vista. Per esempio guarda all´arte americana, ma anche alla pittura orientale. E dà vita a un universo in cui i suoi temi classici, le stelle, l´uccello, i corpi suggeriti e mai descritti, le clessidre, i bilancieri, raggiungono una potente carica espressiva».
Questa nuova attitudine la si coglie perfettamente fin dalle prime sale. Che cosa è cambiato dal Miró parigino? Innanzitutto il formato. Le opere esposte sono, tranne qualche raro caso, tutte di grandi dimensioni. E se nel 1935 l´artista sognava di abbandonare il cavalletto, nel buen retiro sull´isola, questo accade per davvero. «Appoggio i miei quadri su trespoli o sul pavimento. Quando sono per terra, posso camminarci sopra», afferma nel 1974. E ancora: «Per terra lavoro sdraiato a pancia in giù. Oh sì, mi sporco tutto di pittura, faccia, capelli; mi ritrovo schizzi dappertutto». In queste monumentali tele si trovano tracce delle suole delle sue scarpe. E il pennello di Miró sgocciola, il suo gesto è ampio, carico di espressività. L´artista ha abbandonato la linea precisa e ferma del passato e predilige adesso gigantesche pennellate che rivelano i suoi lati più segreti. C´è certamente uno scambio con l´action painting americana. I surrealisti, che mettono l´inconscio al centro del quadro, sono alle radici dell´Espressionismo astratto americano: Miró però non solo contribuisce alla nascita di questa nuova generazione di pittori, ma arricchisce, guardandoli, il proprio linguaggio. D´altra parte Miró era entrato in contatto con Jackson Pollock quando nel 1946 aveva ricevuto l´incarico di realizzare un dipinto per il Gourmet Restaurant del Terrace Plaza Hotel di Cincinnati e per realizzare quest´opera aveva vissuto a New York tra febbraio e ottobre. La decorazione in questione, come mostra lo schizzo preparatorio qui in mostra, dove le sue immagini tipiche svolazzano in un fondo azzurro, non risente ancora delle feconde suggestioni degli americani. Queste verranno fuori proprio negli anni di Palma, quelli in cui Miró non costruisce più un universo onirico e sognante, conquistando invece una brutalità e una totale immersione nel quadro quasi primitive, che provocano un´immediata reazione emotiva in chi guarda.
«Più invecchio e più divento matto, aggressivo, cattivo», –affermava. E nel corso degli anni sembra sempre di più far sua la poetica dell´amico critico d´arte Sebastià Gasch che auspicava «un´arte intensa e forte, ricca di pathos, aspra e barbara, senza attenuanti. Un´arte che ci inebri di profumi, finché non ci metterà fuori combattimento con un vigoroso pugno». È esattamente quello che fa l´ultimo Mirò: seduce con un gesto elegante che sembra quello di un maestro orientale, conducendo chi guarda in spazi di grande armonia; e poi sfodera i suoi fondi volutamente sporchi (li eseguiva con la trementina in cui aveva prima pulito i pennelli), la materia dura, gli scarabocchi, le scolature. Inoltre utilizza sempre di più il bianco nero: c´è una sala bellissima, di dipinti monocromi, che pare un viaggio nella notte tra uccelli misteriosi, figure femminili accennate e sensuali, teste inventate, orizzonti accesi da una dispettosa luna nera.
Resta costante, anche negli ultimi anni, il côté ribelle della gioventù, quell´antico desiderio di voler “assassinare la pittura”, che per lui ha sempre significato la tenace volontà di rivoluzionare i codici formali della tradizione. Eccolo, nel 1976, inchiodare assi di legno su un fondo di carta abrasiva a creare il suo Personaggio e uccelli. E affrontare la scultura, recuperando oggetti. Come una zucca e una bambola uniti a creare una forma inaspettata, protetti per sempre da una colatura di bronzo.

02 Mar

Mondrian, Mirò, Calder alla corte di Peggy

Scritto da Francesca Montorfano – Corriere della Sera

Surreali, astratti e poetici: l’ncrocio di tre destini all’ombra della donna che allevò l’arte del ‘900

Uno spagnolo, un olandese, un americano. Personalità e destini differenti che, in un magico momento della storia culturale e artistica del Novecento, si sono incontrati, hanno intrecciato esperienze e linguaggi, cambiando il modo stesso di fare arte, diventando il punto di riferimento per le generazioni a venire. Joan Miró con il suo poetico surrealismo, con quelle rappresentazioni fantastiche e oniriche dove la creazione è anche gioco, divertimento, ironia. Piet Mondrian, alla ricerca di quella superiore armonia dell’universo che lo porterà ad allontanarsi dalla raffigurazione della realtà per arrivare a una semplificazione assoluta di linee e colori. Alexander Calder, che saprà riflettere suggestioni surrealiste e astratte insieme e rivoluzionare il concetto stesso di scultura, facendo dell’aria e del vento, della fluidità e del movimento, gli elementi costitutivi delle sue opere, i suoi celeberrimi mobiles come li definirà Duchamp. Sarà proprio un giovane Calder, arrivato a Parigi nel 1926, a legarsi d’amicizia con Miró e il gruppo surrealista e a entrare poi in contatto anche con Mondrian, restando affascinato dallo studio dell’artista, con le pareti dipinte di bianco e suddivise da linee nere e rettangoli luminosi, come i suoi quadri. «In quel momento pensai a come sarebbe stato bello se tutto avesse preso a muoversi», racconterà in seguito, quasi a sottolineare come da quella visione fosse nata l’idea che sarà alla base del suo universo creativo. Inizia così quel dialogo continuo fra i tre grandi protagonisti dell’avanguardia, quello scambio di stimoli ed esperienze che durerà tutta la vita e li porterà a frequentare il circolo di artisti e intellettuali riuniti nei primi anni Quaranta intorno alla casa e alla galleria newyorkese di Peggy Guggenheim, grande collezionista e mecenate e, insieme allo zio Solomon, capace di entusiasmarsi per le sperimentazioni più avanzate.
Sarà oggi la nuova mostra all’Arca di Vercelli a raccontare le vicende di quegli anni così ricchi di fermenti creativi e di quegli artisti nei quali Peggy e Solomon avevano creduto, vincendo la sfida. Una quarantina di dipinti ad olio, tempere, gouaches, pastelli e sculture provenienti dalle collezioni Guggenheim e da altre prestigiose raccolte ne traccerà il percorso creativo dalle prove giovanili ai traguardi finali. «Oggi più che mai l’Arca si presenta come uno scrigno, un “concentrato” di capolavori straordinari. Ad andare in scena è uno spettacolo dalle tante letture, cronologico e al tempo stesso emblematico dell’opera dei tre grandi artisti, visti nella specificità e nel valore del proprio linguaggio ma anche nel gioco di confronti che li ha portati a rispecchiarsi, a inanellarsi l’uno nell’altro. Sarà proprio Calder il magnete delle diverse esperienze, il traghettatore in America di quella vicenda astratta e surrealista che era nata in Europa e si proponeva di riformulare il mondo esistente, di dare un’interpretazione nuova della realtà», commenta Luca Massimo Barbero, curatore dell’evento.
Ad aprire il percorso è Mondrian, con un nucleo strepitoso di opere che ne seguono l’evoluzione creativa da una pittura ancora legata ad echi postimpressionisti e simbolisti e a lavori che riflettono suggestioni cubiste, come «Calla»; «Fiore Blu», «Estate», «Duna in Zelanda» o le due «Nature morte con vaso di zenzero», ad altri, come «Composizione I», dove il passaggio ai colori primari è compiuto, dove la realtà è ricostruita in un intreccio ortogonale di linee verticali e orizzontali, archetipo di un rigoroso ordine cosmico. Ed ecco Miró, con quelle visioni immaginifiche, quei segni grafici, quelle forme antropomorfe che paiono fluttuare nello spazio, con quell’«Interno Olandese II» ispirato a un capolavoro seicentesco, con «Donna seduta II», dove la figura femminile è ormai trasfigurata o «Pittura» del 1953, summa di tutto il suo universo.
Nello splendido scenario dell’Arca e degli antichi affreschi di recente riportati alla luce è adesso la volta di Calder. Di lui la mostra mette in luce l’intera vicenda artistica dai lavori degli anni Trenta, «Senza Titolo» o «Mobile», agli stabiles, forme astratte immobili a terra, ai ritratti in filo di ferro, ai dipinti su carta, agli oggetti più intimi, personali, realizzati per Peggy. Sarà proprio Calder infatti a creare per lei i famosi orecchini mobiles e la testiera di letto in argento per Palazzo Venier de’ Leoni, misteriosa e viva nel suo disegno di luce. Sempre a lui toccherà l’onore di vedere il suo «Arco di petali», con la sua cascata di forme e colori, fotografato insieme al presidente della Repubblica Einaudi e alla grande collezionista alla storica Biennale di Venezia del 1948.