19 Gen

Da Vermeer a Kandisky

Scritto da LEA MATTARELLA – la Repubblica

Le affinità elettive dei capolavori    Goldin: ho preferito mescolare le carte, così si parlano tra loro dipinti lontani di secoli Nelle sale di Castel Sismondo Bacon dialoga con Tintoretto e Jacopo Bassano Quattro secoli di arte in una mostra a Rimini che mette a confronto i grandi maestri. Così “Linea d´Ombra” festeggia i suoi 15 anni di attività

RIMINI. Linea d´ombra, la società creata da Marco Goldin per l´organizzazione di eventi espositivi compie 15 anni. E alla sua festa ha invitato una sessantina di opere dei più grandi artisti attivi in Europa dal Cinquecento al Novecento. Che sono arrivate a Castel Sismondo a imbastire un appassionante viaggio nella storia dell´arte: la mostra intitolata Da Vermeer a Kandinsky. Capolavori dai musei del mondo a Rimini, curata dallo stesso Goldin, che spiega: «Vorrei che il visitatore avesse la sensazione di sfogliare le pagine non di un libro, ma di un museo. Così inizialmente avevo pensato di allestire le opere per scuole regionali e in ordine cronologico: Venezia nel Cinquecento, i Paesi Bassi nel Seicento, il paesaggio inglese ecc. E invece ho deciso di mescolare queste carte che compongono il meraviglioso racconto dello sguardo occidentale e di far parlare tra loro dipinti anche geograficamente lontani, separati da secoli». Che di cose da dirsi ne hanno davvero molte.
I casi più clamorosi di questo dialogo a distanza si trovano nell´ottava sala dell´esposizione, una delle ultime del percorso, dove tutto è tenuto insieme dalla rappresentazione del corpo. Uno di fronte all´altro vi sono le Deposizioni eseguite da Tintoretto e da Jacopo Bassano, due protagonisti della pittura veneziana del Cinquecento, e un´infuocata e drammatica triade di dipinti di Francis Bacon, datati 1988 che compongono l´ultimo trittico eseguito da questo grande cantore del dolore dell´uomo, del suo tragico stare al mondo. Ma c´è una sofferenza anche nei due quadri del Cinquecento, in quei Trasporti di Cristo che esprimono, in contrasti di luce e ombre, la tragedia della morte di un Dio che si è fatto uomo. Le figure di Bacon che ghignano, gridano, sono deformate e menomate, hanno una fratellanza antica con il vortice e la vertigine che emerge dal quadro di Tintoretto, dove la Vergine svenuta ha la testa che sembra uscire dalla cornice, tanto è potentemente gettata verso lo spettatore. Al punto che ti viene quasi di sorreggerla, di accarezzare il velo che le cinge la fronte. A pochi metri ecco Picasso e Veronese, quattro secoli di differenza, ma in comune un´agitata composizione verticale.
Un altro incontro tra due mondi che si riconoscono è quello tra il San Francesco, spoglio, solenne, tutto risolto in una fissità dominata da un´ombra che pare la quintessenza dello spirito, eseguito da Francisco Zurbarán in Spagna tra il 1640 e il 1645 e la Cantante di strada dipinta da Edouard Manet nella Parigi della seconda metà del XIX secolo, mentre sorgeva l´alba della modernità. La donna ritratta in questo quadro molto amato da Emile Zola è Victorine Meurent, la modella preferita di Manet, la stessa che farà scandalo con la sua nudità priva di orpelli nella Colazione sull´erba esposta con grande clamore al primo Salon de Refusés nel 1863. Eppure tra la chanteuse intenta a mangiare le sue ciliegie da un cartoccio e la sacralità del santo di Zurbarán ci sono molte cose in comune. Sono due sinfonie in grigio, con le figure in verticale che emergono dal buio. E chiunque conosca un po´ di storia dell´arte sa quanto la pittura spagnola abbia da sempre sedotto Manet, che a differenza di Monet e compagni, non rinuncerà mai all´uso del nero perché era il colore che lo teneva unito a Velázquez per il quale stravedeva.
Diego Velázquez lo si incontra poche sale prima con un quadro che ha qualcosa di inquietante e misterioso: Don Baltasar Carlos, primogenito di Filippo IV, ritratto a tre anni in compagnia di una nana di corte. Un capolavoro di stoffe, velluti e broccati ma anche di una crudele dimensione psicologica. Lo accompagna il ritratto di Fratello Hortensio Félix Paravicino di El Greco, l´opera, proveniente dal Museum of Fine Arts di Boston, che ha il più alto valore assicurativo dell´esposizione: 70 milioni di euro. Un quadro mozzafiato, costruito sui bianchi e sui neri, dove la figura seduta su una sedia con una leggera asimmetria ha sguardo vibrante e labbra screpolate. Lo stesso monaco quando vide il dipinto scrisse un sonetto “O greco divino!”. Nella stessa sala ecco il Vermeer giovanile, Cristo in casa di Marta e Maria, che arriva da Edimburgo. Dei 36 quadri conosciuti del pittore di Delft questo è il più grande di dimensioni e l´unico con un soggetto evangelico. La resa della luce nell´interno della casa è già quella del Vermeer maturo.
Continuando a sfogliare le affinità elettive create da Goldin, ecco il vedutismo settecentesco di Canaletto e della sua spettacolare inquadratura di Venezia che si confronta con la pittura di paesaggio inglese di Constable e Gainsborough. E poi una carrellata di volti e gesti maschili: su una stessa parete, uno accanto all´altro, cardinali, suonatori, gentiluomini che tengono in mano lettere e libri. Si devono al pennello di Savoldo, Sebastiano del Piombo, Moretto, Moroni e Tiziano. Anche qui la sapienza con cui sono raffigurati vesti e abiti si accompagna all´introspezione psicologica del personaggio, sempre rivelato in tutta la sua individualità.
C´è un bellissimo quadro di Lorenzo Lotto, una Sacra Conversazione in cui le teste sono tutte volte in direzioni differenti, così che la quiete che solitamente accompagna questo soggetto è abbandonata per una soluzione movimentata e palpitante, con il meraviglioso particolare del bambino che sembra spaventarsi del santo in preghiera di fronte a lui. E poi ecco una di fronte all´altra le due teste bibliche saltate per volontà femminile: quella di San Giovanni Battista si deve a Mattia Preti, mentre Oloferne decapitato da Giuditta è opera di Francesco Cairo. Siamo tra i caravaggeschi, italiani ma anche fiamminghi, come Gherardo delle Notti, celebre appunto per la sua predilezione nei confronti del buio. Si chiude all´insegna del colore con la felicità cromatica di Matisse e di Kandinsky. E con un altro dialogo sotterraneo: quello tra Mondrian, che aveva finito per semplificare sempre di più il paesaggio in un´armonica composizione astratta per eliminare il tragico dell´esistenza, e la natura informale di Nicolas De Staël con le sue pennellate materiche cariche di pathos. Si leverà la vita nel 1955, l´anno dopo aver dipinto questa tessitura che diventa luce. Aveva 41 anni.

17 Gen

Dall´ex Urss con amore ecco l´arte dei Kabakov

Scritto da CRISTIANA CAMPANINI – la Repubblica, pagine Milano

Le opere della coppia da Lia Rumma.  Non siamo artisti politici, non ci interessa la realtà, se nella vita le utopie sono pericolose e tragiche, nell´arte sono speranza e bellezza.  Sogniamo di cambiare il mondo Un´avventura esistenziale riflessa nei lavori, esposti in tutto il mondo


Una figura si muove appena sotto una coperta di feltro. È il profilo di un uomo che striscia. Forse si nasconde, scappa o cerca di liberarsi. L´uomo, rappresentato da una scultura meccanica, gira in tondo. L´azione è ripetitiva, claustrofobica. È la prima opera che ci accoglie nelle grandi sale distribuite su tre livelli della galleria Lia Rumma, dove giovedì alle 19 inaugura la mostra di due maestri dell´arte russa, e non solo.
Sono Ilya ed Emilia Kabakov, che dal 1988 lavorano insieme a un connubio unico d´installazione e pittura, narrazione e disegno. Dal 1992 vivono a Long Island e raccolgono successi di critica, da Documenta di Kassel alla Biennale di Venezia. Le loro installazioni totali, come le definiscono, sono ambienti realistici come set teatrali e descrivono atmosfere della Russia sovietica, ma i valori che trasferiscono sono universali. Nella prima sala della galleria il tema è la fuga. «L´oscurità degli spazi ci ha spinto a raccontare una tragedia, la storia di un uomo che striscia a terra per liberarsi. La trappola può essere politica o esistenziale».
A spiegarlo con un tono dolce e deciso, uno sguardo intenso incorniciato da capelli corti argentati è Emilia Kanevsky (Dnepropetrovsk, 1945; emigrata negli Stati Uniti nel 1973). È lei la portavoce della coppia. Ylia è silenzioso, sfuggente. La sua riservatezza accresce attorno a lui un´aura di mistero. Ucraino di origini ebree, nato nel 1933, è considerate il padre dell´arte concettuale russa. Il racconto della sua vita è un compendio di storia sovietica. Diviso tra arte ufficiale e non, negli anni del regime si guadagnava da vivere illustrando libri per bambini e allo stesso tempo si muoveva tra i dissidenti della scena moscovita. Alle pareti della galleria, nella prima sala, sfilano le tavole di due album dei dieci realizzati proprio in quegli anni, dal 1968 al 1978. Sono storie di fuga raccontate su carta. E i protagonisti di quell´intreccio di disegni e parole sono sempre artisti, in un certo senso dei suoi alter ego. «Il primo è un uomo che fugge lanciandosi nel vuoto. E i disegni mostrano solo il suo volo. L´altra fuga è quella di un decoratore, un uomo che ha paura di ogni cosa e si chiude nel mondo minuscolo del suo lavoro».
Nella sala successiva la mostra continua con quattro grandi tele in stile postimpressionista e quattro sculture in marmo e ceramica della dimensione di bozzetti. L´atmosfera suggerita dai dipinti è quella dell´atelier di un artista, un altro alter ego. «Si vedono frammenti di quadri nel quadro oppure specchi che riflettono lo spazio attorno. Sta solo a chi guarda decidere», spiega Emilia. «Siamo partiti da Las Meninas di Velázquez e dal gioco di riflessi imprigionato in quell´immagine, abbiamo raccontano la storia di un artista e immaginato lo spazio in cui vive».
Nell´ultima sala l´atmosfera si fa magica. L´installazione Evening è parte di una trilogia dedicata ad Hans Christian Andersen. Al centro c´è un´isola, una Torre di Babele, una città-montagna che ha alle sue pendici un castello. Dentro suona un carillon appena illuminato, con i personaggi delle storie di Andersen in minuscole figurine ritagliate, come lo scrittore stesso amava fare. «L´umanità e i sogni nutrono la nostra arte», continua Emilia. “L´umanità e i sogni nutrono la nostra arte”, continua Emilia. «Non siamo artisti politici, realizziamo utopie. Se nella vita le utopie sono pericolose e tragiche, nell´arte sono speranza e bellezza. Le nostre utopie sono sempre più ambiziose e vorrebbero cambiare il mondo».

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