29 Nov

Caravaggio a Mosca

Scritto da LEA MATTARELLA – la Repubblica

IL GENIO DEL SEICENTO CONQUISTA LA RUSSIA
Una vita breve che gli basta però a cambiare per sempre le sorti della pittura Fino al 19 febbraio il Museo Pushkin ospita ben 11 dipinti dell´artista lombardo. Si tratta di una delle più grandi mostre all´estero dedicate a Merisi


Caravaggio va in trasferta. Una formazione composta da undici capolavori si gioca la sua partita sul campo del Museo Pushkin. È la prima volta che un gruppo così consistente di opere del grande maestro lombardo viene ammirato fuori dal nostro paese. Il termine “evento” che viene utilizzato un po´ troppo di frequente per quel che riguarda le mostre d´arte, questa volta va davvero scomodato. Intanto per i musei coinvolti: tra i più prestigiosi d´Italia. Da Milano alla Sicilia, da Brera a Capodimonte, dalla Pinacoteca Capitolina alla Galleria Borghese, dal Museo Regionale di Messina alla Galleria Palatina sono partiti i gioielli di questa campagna di Russia. Alla quale ha partecipato anche la Pinacoteca Vaticana che ha mandato un pezzo forte come la Deposizione. E, come se non bastasse, persino la Chiesa di Santa Maria del Popolo si è privata di uno dei due quadri che adornano la Cappella Cerasi. Infatti, è volata a Mosca anche la Conversione di San Paolo.
Così queste 11 tappe di un viaggio attraverso il genio e la sregolatezza caravaggeschi, riescono davvero a fare capire tutta la grandezza di uno degli artisti più amati di tutti i tempi. E anche la sua singolarità, la sua incredibile modernità. Si comincia con un´opera giovanile, il Ragazzo con canestra di frutta della Galleria Borghese e si termina con il Martirio di Sant´Orsola, un´opera dipinta nel 1610 poco prima della sua prematura, drammatica e continuamente presagita, fine. Non ha ancora 40 anni quando muore mentre cerca di ritornare a Roma, dopo aver passato gli ultimi quattro anni in fuga. Una vita breve che gli basta a cambiare le sorti della pittura, a rivoluzionarne per sempre il linguaggio su un palcoscenico di un umanissimo teatro tutto contrasti di luci e ombre, redenzioni e cadute, ricerca spasmodica di verità. Qui si passa dalla luminosità, dalla fresca composizione di uva, pere, fichi tenuta in mano da un giovane che sprizza vitalità del quadro Borghese datato tra il 1593 e il 1594, al buio in cui avviene la sfida tra l´arrendevolezza determinata di Sant´Orsola e la brutalità del re degli Unni suo carnefice. In mezzo c´è un ciclone.
Proprio davanti al Martirio di Sant´Orsola si capisce quanto in Caravaggio la pittura si intrecci con l´esistenza. In questo dipinto drammatico e teatrale si affaccia il volto del pittore, in una posizione tale che pare quasi sovrapporsi al corpo morente della martire. L´episodio raccontato diventa il pretesto per un´autobiografia. Con questo primo genio maledetto l´arte e la vita si scoprono necessarie l´una all´altra. L´artista usa il suo autoritratto anche nel Martirio di San Matteo, nella Cattura di Cristo, nella Sepoltura di Santa Lucia e nella Resurrezione di Lazzaro. E poi la sua faccia, devastata, compare nel Davide e Golia che doveva aprirgli la strada per tornare a Roma. Lui si raffigura come Golia. Ma sta elargendo la sua effigie. È un modo di chiedere perdono. Spedisce l´opera a Scipione Borghese e resta in attesa della grazia. Vuole far sapere al papa di essersi pentito. E lo fa nel modo che gli è più congeniale: teatralizzando su una tela la sua storia.
Nello Stato pontificio, in effetti, sulla sua testa pesava una condanna a morte. È questa la ragione che lo spinge a lasciare la città eterna in cui aveva ricevuto moltissimi onori, ma anche tanti “rifiuti”. Gli si rimproverava di non avere abbastanza “decoro”. Prendeva i suoi modelli dalla strada, raffigurava i poveri. Roberto Longhi per la Deposizione evocava un funerale di un capo zingaro. Ma Caravaggio non voleva certamente essere dissacrante. Racconta una storia sacra dalla parte dei poveri perché era vicino alle correnti della chiesa degli umili di Borromeo. Allo stesso modo interpreta la Conversione di San Paolo: un uomo investito dalla grazia rappresentata da un chiarore diffuso. Tutto il chiaroscuro di Caravaggio, il suo scontro di oscurità e di improvvise illuminazioni sono la rappresentazione fisica dell´eterna lotta tra le tenebre del peccato e la luminosità della fede in Dio. Che Caravaggio fosse ateo e miscredente è un luogo comune costruito intorno a un personaggio vissuto pericolosamente che nel corso dei secoli è diventato una leggenda. Non è invece un´invenzione il suo carattere impetuoso e ribelle. Il fatto che fosse un attaccabrighe, che girasse armato passando dai bordelli alle osterie è storia. In una di queste notti brave nel 1606, gli capita di uccidere un uomo durante una rissa seguita a una partita al gioco della pallacorda. Da qui la condanna capitale e la fuga. A Napoli lascia questa Flagellazione che pare ambientata tra i vicoli in cui Cristo sembra illuminato da un flash che lo stacca dal quel buio che invece avvolge i suoi torturatori. Un fondo scuro è anche nella Cena in Emmaus di Brera, dove, com´è emerso dagli ultimi restauri, Caravaggio cancella un´apertura, una finestra su una vegetazione, per fermare lo sguardo, come se non volesse distrarlo dal volto dolente e assorto di Cristo intento a benedire un misero tozzo di pane. La sua pittura si fa sempre più tragica mentre la sua corsa non si placa. Raggiunge Malta da cui deve scappare ancora, va a Messina a Palermo, di nuovo a Napoli. Dove passa succede che tutti lo guardino, lo imitino. Non ha mai avuto allievo eppure fa scuola. La sua pittura si diffonde come un virus in tutta Europa. Dopo di lui niente sarà più come prima.

13 Nov

Surrealismo. La pattuglia di Breton che voleva dare una forma all´inconscio

Ultimo aggiornamento Domenica 13 Novembre 2011 08:16 Scritto da ACHILLE BONITO OLIVA – la Repubblica

Da Dalí a Miró, da Magritte fino a Picasso ed Ernst. Alla Fondazione Beyeler i capolavori del movimento

Basilea. Tanto credito prestiamo alla vita, a ciò che essa ha di più precario – la vita “reale” naturalmente – che quel credito finisce per perdersi». Così nel 1924 André Breton apriva il Primo manifesto del Surrealismo, nel quale l´arte teorizzava una strategia di avvicinamento alla vita proprio per risolverne la realtà “mancata”. Vivo e perenne rimane questo tentativo, come si desume dalla straordinaria mostra Surrealismus in Paris a cura di Philippe Büttner alla Fondazione Beyeler di Basilea fino al 29 gennaio 2012.

Breton assume e teorizza il verbo di Freud, la lezione di una letteratura risalente a Sade, di una filosofia negativa che recupera Schopenhauer e Nietzsche, di una pittura metafisica che ha in De Chirico il suo più splendente esecutore, per dare la scalata alle profondità della psiche. La mano di alcuni pittori, come Max Ernst, Salvador Dalí, Joan Miró, Magritte, Masson, Tanguy, Brauner, Matta, Bellmer, Delvaux, Oppenheim e (per un periodo) anche Picasso e si mette all´opera per fondare l´immagine di una discesa agli inferi.
La materia dell´arte surrealista è l´inconscio con la sua energia, l´immaginario che vola in tutte le direzioni, disseminato a tutte le altezze e le bassezze. L´automatismo del gesto è direttamente proporzionale all´automatismo della psiche, al moto inconsulto e involontario del profondo.
L´immaginario dunque sprigiona energia, che poi l´arte si incarica di condensare diversamente secondo le differenze che separano la diversa creatività degli artisti. Come dice Breton, il Surrealismo apre una doppia strada, al simbolico e al materico. Dispiega procedimenti e strategie dell´immagine che approdano a risultati complementari, tutti dettati dall´impulso a prendere forma della disarticolata surrealtà: esemplare il Paysage au coq (1927) di Joan Miró.
Per fare affiorare il rimosso è necessario grattarsi sotto la pelle. E grattare è letteralmente ciò che fa Ernst, scoprendo per l´arte ciò che il gioco infantile pratica mediante il frottage, una maniera di strofinare l´anima dell´oggetto per farla affiorare come ombra e immagine sublimale, come nella sua La grande forêt (1927). Ma le vie dei surrealisti sono infinite, e ogni artista del gruppo adotta una sua personale strategia figurativa.
In Dalí e Miró l´immagine esprime la doppia valenza di portatrice di simbolo e di deterrente materico. L´automatismo funziona sia come associazione libera e aperta di dati che si potenziano reciprocamente, sia come prodotto della casualità e della crescita spontanea. Vedi in Dalí Rêve causé par le vol d´une abeille autour d´une pomme-grenade, une seconde avant l´evil (1944). Più mentale è l´opera di Magritte (L´empire des lumieres, 1962) nel quale l´automatismo psichico fonda un tipo di immagine raffreddata sulla soglia di una rivelazione che mette a nudo i paradossi del linguaggio. Lo conferma anche Delvaux con la sua Aurore (1937).
In Tanguy (Les jeux nouveaux, 1940) e Masson (Métamorphose des amants, 1938) la materia si organizza al livello più basso, l´immaginario vola radente alla sostanza organica assumendo i travestimenti della stessa materia pittorica fino a identificarsi con essa. Con il Picasso di Le sauvetage (1932) il quadro diventa invece il campo d´azione di una continua metamorfosi, di una proliferazione che non significa soltanto crescita ma anche disseminazione mobile e dislocazione aperta di segni.
Victor Brauner organizza il simbolico intorno ad archetipi visivi che non tendono alla stasi ma rimandano alla ciclicità e alla ambigua consistenza e coesistenza di immagini che si raddoppiano oppure si danno l´una dentro l´atra: Les siecles reculon comme des ouragans (1932). Sebastian e Matta e Wilfredo Lam riescono a spostare la geometria dal suo “luogo comune” per spogliarla e consegnarla alla prorompenza di forze naturali e cosmiche che ne fanno esplodere la capacità di misura.
I surrealisti hanno con l´inconscio un rapporto quasi colloquiale, per il tramite di tecniche elementari che riducono la puntigliosa complessità del procedimento tradizionale: essi vogliono dare spazio direttamente all´incedere del caso e della disinvolta eccedenza delle pulsioni interne.
Per definizione il Surrealismo è esuberante, è un gesto affermativo che ristabilisce il primato del fantasma contro l´evidenza statica delle cose: un fantasma che si insinua nei mille modi del linguaggio, in forma germinale, larvale oppure sotto le spoglie di un´immagine perturbante.
Le tecniche automatiche sono gli irriducibili tramiti, gli scandagli che vanno a pescare proprio nel torbido nell´opera di Max Ernst: Fleurs de neige (1929). Il frottage e il dripping, grattare e sgocciolare, costituiscono la materializzazione di tale necessità tecnica, l´azzeramento di ogni complessità a favore di movimenti elementari che privilegiano l´autonomia della mano rispetto all´occhio, l´indipendenza dell´opera rispetto alla vigile accortezza dell´artista.

13 Nov

Elogio di una stagione «venale» che ama il nuovo anche se è brutto

Scritto da GILLO DORFLES – Corriere della Sera

Perché al giorno d’oggi bisogna essere disposti ad accettare forme creative di avanguardia che ieri ci sembravano aliene

Molte delle più recenti manifestazioni dell’arte contemporanea, dall’«arte povera» italiana alla ormai antica epopea della Pop, sino alle molteplici versioni dell’arte concettuale, alle installazioni, alla transavanguardia, alle performance, hanno presentato opere che non rispondono più a quelle costanti che ancora le «avanguardie storiche» seguivano.
Oggi assistiamo a delle brusche virate: dal figurativo all’astratto (e viceversa) dal concettuale al dozzinale, dal privato al «mercato». Il che non significa né disprezzo né sottovalutazione di quanto l’arte odierna ci offre, ma piuttosto necessita di una valutazione dei rapporti tra creazione artistica e situazione socioeconomica, che appare più diretta (e più pericolosa) rispetto all’immediato passato. Ho detto «pericolosa» senza affatto voler svalutare la qualità di molte realizzazioni contemporanee; anzi con la stessa parola «valore» si dovrebbe tener conto non solo del valore estetico, ma di quello economico: il che purtroppo avviene soprattutto a favore del secondo. In altre parole: difficilmente possiamo scindere la valutazione di un grande maestro contemporaneo da quella che è la sua quotazione sul mercato, che ovviamente dipende dal genere dei rapporti odierni tra marketing e attività artistica. Il che non significa che l’opera debba sempre corrispondere alla sua valorizzazione «venale» (che potrà emergere anche solo «postuma»: con scarsa soddisfazione dell’artista!). Il che significa oltretutto che l’alone (o vogliamo addirittura definirla alla Benjamin «l’aura») del capolavoro può esistere anche se «sporcata» dai «denari» di qualche «Giuda artistico».
Non vorrei che si giudicasse il mio discorso come eccessivamente banale e antiestetico, ma è soltanto la volontà di chiarezza che mi spinge a tener conto di alcuni dati che un tempo non erano palesi: basterebbero le recenti mostre di «arte povera» a imporre una visione dell’arte che non è mai stata applicata in passato.
Questo fatto, se da un lato può condurre a facili equivoci circa il limite entro cui considerare lo «status» di un’opera; dall’altro, ci permette di apprezzare alcune situazioni e alcuni fenomeni che mai prima d’oggi erano entrati nell’universo artistico, e di tener conto che, non solo un determinato materiale «improprio», ma l’idea che ne è stata alla base, può essere la vera discriminante per la valutazione d’una creazione originale. Ma, al di là di momenti estremi, di trovate assurde, di stratagemmi aleatori, continuano per fortuna, e continueranno, a popolare l’universo artistico moltissime opere dove il linguaggio non è criptico senza essere desueto. Basterebbero solo i nomi di un Kiefer e di un Chillida, di un Kapoor e di un Pomodoro, ma anche quelli di un Cattelan e di una Vanessa Beecroft e, perché no, di una Cindy Sherman e di una Bourgeois (e ho fatto a bella posta nomi arcinoti), per dirci che esiste una continuità artistica anche quando alcune improvvise obnubilazioni — peraltro feconde — intervengono ad oscurarla temporaneamente.
Credo che al giorno d’oggi dovremmo essere pronti ad accettare numerose forme creative che ieri ci sembravano aliene; mentre dobbiamo essere altrettanto pronti a biasimare tutto ciò che di stantio e di obsoleto si tende a riproporre. E questa posizione ci convince che la nostra «stagione» attuale è forse più «robusta» di molte di quelle (del passato) che non seppero «liberarsi» in tempo delle scorie ormai desuete.
Certo alle volte il «nuovo» può non essere «piacevole» (già Vasari ce lo insegnava a proposito del gotico); e, del pari, il «piacevole» può non essere «nuovo»; sicché dovremo imparare ad accettare le nuove correnti artistiche anche se non sempre sono edonistiche e, del pari, a rifiutare tutto quanto è obsoleto ed entropizzato, anche se ha l’apparenza del gradevole.

11 Nov

Quanto costa l’arte di un’altra vita

Scritto da FRANCESCA BONAZZOLI – Corriere della Sera

Shukin e Morozov, i miliardari che sognarono con Picasso e Matisse

«A rrivati a Parigi scendevano dal treno ed erano già nelle botteghe; davanti ai loro occhi sfilavano tele come episodi di un film, poi tornavano a Mosca senza aver visto altro». Così il critico e giornalista francese Félix Fénéon descriveva due facoltosi collezionisti russi, gli imprenditori tessili Sergei Shukin (1854-1936) e Ivan Morozov (1871-1921). Incuranti delle critiche e persino della derisione dei loro contemporanei benpensanti, spendevano grandi cifre per accumulare quadri degli artisti più radicali dell’avanguardia francese. Erano considerati degli eccentrici, personaggi che volevano mostrarsi diversi e originali, al pari dei pittori da loro amati, a cominciare da Picasso da cui Shukin aveva acquistato cinquanta tele. Shukin era senz’altro più invischiato di Morozov nella «pazzia» collezionistica che lo portò a possedere, fra gli altri, sedici Gauguin e trentasette Matisse. Con quest’ultimo il mecenate russo stabilì una solida amicizia: una costante di comportamento, questa, comune a tutti i grandi collezionisti che traggono gratificazione dalla famigliarità con i geni che ammirano. Anche oggi, per esempio, il multimiliardario Dakis Joannou ama portare fra le isole greche i suoi artisti sullo yacht decorato dall’amico Jeff Koons, non diversamente da come faceva Vincenzo Gonzaga che volle con sé a Genova il suo pittore Rubens con cui partecipò a una memorabile festa organizzata da Nicolò Pallavicino.
Il desiderio di amicizia con gli artisti spesso più trasgressivi da parte di questi miliardari, per lo più imprenditori di gran successo come Shukin, la cui competenza nei prodotti tessili e negli affari gli era valsa il soprannome di «ministro del commercio», ha qualcosa dell’invidia per una vita più libera, squattrinata e sregolata. Una specie di ribaltamento del tavolo delle regole per interposta persona. La stessa propensione che sembra di ritrovare in François Pinault, magnate di una delle maggiori multinazionali del lusso: ingabbiato nelle rigide regole di consigli di amministrazione e indici di borsa, libera la sua energia volando col jet privato da un vernissage all’altro dei suoi artisti pupilli, i più «strani» e controversi del mondo dell’arte. Non diversamente da come facevano i Giustiniani, i banchieri dominatori dei mercati finanziari del Seicento, quando compravano i quadri dello scandaloso Caravaggio per il loro palazzo romano. O come Agostino Chigi, il più ricco banchiere d’Europa nel Cinquecento, che consentì a Raffaello, che gli decorava la villa Farnesina, di lavorare vivendo scandalosamente sotto quelle mura con l’amante, la Fornarina.
Quel che piace a questi miliardari collezionisti, tanto a Shukin come oggi a Charles Saatchi, è la contiguità con l’eccentricità, il gusto di passare per incompresi, per compratori di abbagli e paccottiglia, per poi dimostrare al mondo che loro, con l’arte, come con gli affari, vedono invece più lontano degli altri. È il piacere di creare tendenze, di anticipare e staccare tutti gli altri come fece Shukin che, quando ricevette da Matisse i due pannelli de «La danza e La musica» per la casa di Mosca, rimase perplesso, ma scrisse al pittore queste parole: «Nel complesso li trovo interessanti e spero che un giorno inizierò ad amarli. Di lei mi fido ciecamente. Il pubblico è contro di lei, ma il futuro le è a favore». È proprio questo buttarsi di pancia, tale istinto di gettare il cuore avanti, oltre la prudenza del ben pensare, che fa il grande collezionista. La capacità di vedere subito quello che gli altri impareranno a vedere col tempo. È un magnetismo che li spinge verso i nomi giusti, verso gli artisti più stravaganti senza temerne la radicalità e l’incomprensibilità, anzi lasciandosene invischiare come in una storia d’amore imprudente che regala loro il brivido del rischio. Lo storico dell’arte non ha questo stesso occhio: egli apprezza un artista quando può interpretarlo e incasellarlo nella sequenza storiografica. Il collezionista, invece, lo apprezza perché in quell’artista vede riflessi la propria inclinazione per la follia e il talento della ribellione.

   

10 Nov

Van Gogh & Gauguin a Genova

Scritto da LEA MATTARELLA – la Repubblica

Il Viaggio, il dolore, la bellezza di due grandi artisti
Al Palazzo Ducale di Genova sono esposti ottanta capolavori Cuore del progetto è l´opera chiave del maestro francese prestata solo di rado da Boston Anche per il pittore olandese c´è un dipinto-evento: “Campo di grano con covoni”
Un paio di scarpe deformate, logore, sfinite. Vincent Van Gogh le ha indossate nel suo viaggio, in gran parte a piedi, dall´Olanda al Belgio. E poi le ha dipinte, nel 1886 dopo aver raggiunto Parigi, in un quadro pieno di pathos, dono prezioso e carico di significato per Paul Gauguin che ne parla in uno scritto del 1894. Inizia così, con una tela simbolica e struggente, la mostra Van Gogh e il viaggio di Gauguin, aperta a Genova a Palazzo Ducale (fino al 15 aprile), curata da Marco Goldin e accompagnata da un suo libro pubblicato da Linea d´ombra.
Questo dipinto, metafora di un cammino nello stesso tempo fisico e interiore, è allestito in maniera sorprendente. Accoglie infatti il visitatore in un ambiente in cui è ricostruita la celebre camera di Van Gogh ad Arles dove, in un cortocircuito prima ancora emotivo che visivo, è posto accanto a due paesaggi di Giorgio Morandi del 1943. «Il viaggio – spiega Goldin – parte sempre da una stanza. Ma ci sono due strade possibili e io le ho volute indicare immediatamente entrambe. La prima è quella di Van Gogh che si sposta da un luogo all´altro o che cammina nervosamente nella sua camera di solitudine, calzando quelle stesse, struggenti scarpe con cui ha intrapreso un cammino che poi si rivelerà nel colore e nella luce. La seconda è quella di Morandi che resta tutta la vita nello stesso posto e non ha neanche bisogno di uscire perché dipinge ciò che vede dalla sua finestra con il cannocchiale. La sua è un´avventura mentale, sottilmente di sguardi. Ma è pur sempre un viaggio».
Cuore di questa mostra che attraversa l´Europa e l´America, il XIX e il XX secolo, è un´opera chiave di Paul Gauguin, uno dei capolavori della pittura di tutti i tempi: Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Un dipinto che ha comunque viaggiato molto poco: il Museum of Fine Arts di Boston, dov´è conservato, lo ha concesso in prestito soltanto quattro volte in un secolo. E solo due in Europa. Quindi l´arrivo di questo monumentale quadro che si estende per quasi 4 metri di larghezza, è un evento che già di per sé varrebbe una visita alla mostra. E che rivela, fin negli interrogativi suggeriti dal titolo e dichiarati da Gauguin in una scritta sul lato sinistro in alto, il significato più profondo di questa rassegna: il viaggio è sempre dentro di sé. E non importa se si attraversi l´Oceano, o una strada, o un pensiero.
Per mostrare tutta la forza visiva di quest´opera nella sala più grande del palazzo si è ricostruita, con un imponente effetto teatrale, la capanna di Gauguin a Tahiti come ci è stata tramandata da alcune fotografie scattate nel 1897. È qui e proprio in quell´anno che Gauguin lo ha dipinto, durante il suo secondo soggiorno – o la sua seconda fuga? – nei mari del Sud.
Sappiamo che nessun artista più di lui incarna la figura del viaggiatore che esplora luoghi lontani per ritrovare un´armonia altrimenti perduta, una riappacificazione con la natura, con il suo io primordiale e primitivo e per questo autentico, inviolato. «Sono un selvaggio, un lupo, senza collare, nella foresta» diceva di sé. E questo quadro doveva essere una specie di testamento, «il sontuoso mantello dei miei sogni». Gauguin lo realizza in un mese di lavoro febbrile che va avanti giorno e notte. Ha infatti saputo della morte della sua amata figlia Aline, è malato, povero e infelice. Vuole togliersi la vita. Prima di farlo però ha intenzione di realizzare il suo capolavoro. È questo: enigmatico, pieno di simboli, costruito come un fregio, dove si incontrano bambini addormentati, figure che si confidano pensieri, idoli, vecchie, animali, vegetazione. Gauguin confesserà all´amico Daniel de Monfreid: «Credo che non solamente questa tela superi in valore tutte le precedenti, ma soprattutto che io non ne farò mai una migliore o che anche solo le si avvicini. Qui ci ho messo, prima di morire, tutta la mia energia, una tale passione dolorosa in delle circostanze terribili, e una visione talmente netta, senza correzioni, che l´aspetto frettoloso scompare e ne emerge la vita». Il tentativo di suicidio dell´artista andrà fallito. Sopravviverà fino al 1903 e di opere ne farà altre. Celebri e bellissime. Ma come aveva preconizzato nessuna raggiungerà mai la potenza espressiva di questo superba tela orizzontale.
La dimensione spirituale del viaggio così ben interpretata dal quadro-culto di Gauguin, scandisce con sicurezza le tappe della mostra. Ma è davvero evidente quando ci si imbatte nei quaranta Van Gogh raccolti per questa occasione, 25 dipinti e 15 disegni a essi collegati, provenienti in gran parte dal Van Gogh Museum di Amsterdam e dal Kröller Müller Museum di Otterlo. Com´è noto un pezzetto del loro cammino l´artista olandese e Gauguin lo hanno fatto insieme. Pochi mesi di convivenza nel 1888 ad Arles, nel Sud della Francia, con un finale tragico.
Anche per Van Gogh la mostra si distingue per un dipinto-evento. Si tratta di quel Campo di grano con covoni dipinto ad Auvers poche settimane prima del suicidio. Questa volta riuscito. Un´opera che a causa della sua fragilità non era esposta al pubblico da più di 40 anni e che per l´occasione è stata sottoposta a un accurato restauro. «Ho voluto rappresentare il suo passaggio dall´oscurità alla luce», dice ancora Goldin parlando della scelta delle opere di Van Gogh. Si parte infatti dal buio appena interrotto dall´apertura di una finestra del Tessitore al telaio del 1884 fino alla luminosità dei frutteti, dei campi di grano, delle barche a Saintes-Maries-de-la-Mer, dei vigneti, gli ulivi, l´immensità del sole che sembra proteggere il Seminatore. Con la stessa pennellata febbrile, nervosa, carica di espressività, Van Gogh ritrae se stesso al cavalletto. Fino alla fine Van Gogh sarà capace di creare allarme e inquietudine nelle cose più semplici: alberi, orizzonti, paesaggi. E quel campo su cui si agitano i corvi sembra dare forma a un chiaro presagio di morte.

10 Nov

Se lo sguardo è un´avventura interiore

Scritto da CARLO ALBERTO BUCCI – la Repubblica

In mostra anche Hopper, Morandi, Kandinsky, Rothko. Si disegna un itinerario diacronico dentro l´arte dell´Otto e del Novecento


La donna sta seduta sul letto e guarda fuori dalla stanza, verso le prime luci del giorno. È il Sole del mattino che la illumina e che imprime sulla parete disadorna un quadrato luminoso. Un quadrato nel quadro, ma anche la proiezione della città americana “ritagliata” dalla finestra aperta sul paesaggio. L´opera del 1952 di Edward Hopper – arrivata alla mostra di Genova su Van Gogh e il viaggio di Gauguin dal Columbus Museum of Art, Ohio – fotografa una situazione antitetica rispetto al tema del viaggio inteso come movimento; all´incedere solenne del Seminatore di Van Gogh, in quel “primo passo” che porterà agli albori del Novecento i futuristi a sintetizzare le forme dinamiche nello spazio e nel tempo.
In attesa di qualcosa, come le Dame di Carpaccio aspettano gli uomini impegnati nella caccia in valle, la modella di Hopper sta da sola, e ferma, sulla soglia del giorno, in bilico tra realtà e astrazione. Il Sole del mattino è uno degli innesti (35 opere, prestiti internazionali di prestigiosi musei) apportati fuori dal tempo di Van Gogh e Gauguin, il corpo principale della mostra, da Marco Goldin. «Anche quando il viaggio nasce da un luogo, è sempre un viaggio interiore» sottolinea il critico trevigiano.
Viaggiare stando fermi, insomma. Come ha fatto Giorgio Morandi, presente a Genova con, tra l´altro, due paesaggi del 1943 colti sull´Appennino emiliano, uno dei pochi viaggi “reali” che il maestro italiano si concesse lontano dalle nature morte allestite nell´atelier di via della Fondazza a Bologna. E come fanno le “figure che guardano”, una delle sezioni che compongono la mostra genovese: la Ragazza che guarda il paesaggio (1957) dell´americano Richard Diebenkorn, ad esempio; o la Figura sulla riva del mare (1952) del francese Nicolas De Staël.
America e Europa sono le due latitudini che si confrontano in questa mostra nella mostra. Ed è il viaggio alla conquista del West quello intrapreso da Albert Bierstadt di cui sono esposti Nella Yosemite Valley (1866) e, dell´anno dopo, Tra le montagne mentre all´esplorazione dell´Est il visitatore è portato da Edwin Church (1826-1900), lungo quella costa del Maine frequentata anche, nel ´900, da Andrew Wyeth (5 opere: da Mattina di Natale del 1944 a Secca nel fiume del 2003). E se l´orizzonte “americano” segnato da Mark Rothko con due essenziali, straordinari dipinti degli anni Sessanta (dalla National di Washington e dallo Stedelijk di Amsterdam) è vicino a quello dei Tre paesaggi marini eseguito il secolo prima da Turner (1827, Londra, Tate), la sezione sulla pittura europea muove del sentimento romantico della Barca sull´Elba nella nebbia del primo mattino di Friedrich (1820-25), si infiamma nelle tempeste di Turner per placarsi nelle Ninfee (1905, Boston, Museum of Fine Arts) del giardino di Monet a Giverny.
Un percorso diacronico dentro l´arte dell´Otto e del Novecento quello disegnato al palazzo Ducale di Genova intorno, e dentro, il faccia a faccia tra Van Gogh e Gauguin. «È una mostra molto personale la mia – spiega Goldin – fatta anche di intrecci di natura letteraria: dai Quattro quartetti di Eliot alla poesia di Attilio Bertolucci». Nel secolo della velocità, un «viaggio interiore, di naturale spirituale». E la strada porta così dritta a Wassily Kandisky, all´autore dello Spirituale nell´arte, il padre dell´astrazione del Novecento, di cui sono esposte cinque dipinti, dal 1908 al 1917, della galleria Tretyakov di Mosca.

01 Nov

Russia: Torna Lenin dopo 20 anni

Nel Bashkortostan rimesso in piedi monumento a padre Rivoluzione

MOSCA – Lenin torna al suo posto dopo 20 anni a Ufa, capitale del Bashkortostan, dove il monumento del padre della Rivoluzione d’Ottobre, rimosso con la caduta dell’Urss, questa notte è stato rimesso in piedi. Il monumento sara’ inaugurato domani alla presenza del leader dei comunisti russi Gennadi Zhiuganov. La decisione di ripristinare la statua è stata presa dal Comune la scorsa primavera, dopo ripetuti appelli dei cittadini. Ufa nel 1924 accolse il primo monumento a Lenin dopo la sua morte.