30 Set

Alma, quella crudele seduttrice che dominò lo sguardo di Klimt

Scritto da FRANCESCA BONAZZOLI – Corriere della Sera

 Che sia Giuditta o Salomè, come lascia immaginare a piacere il doppio titolo di questo quadro dipinto nel 1909, esposto a Venezia nel 1910 e acquistato nello stesso anno per la Galleria d’arte moderna, in entrambi i casi, si tratta comunque di una sanguinaria assassina tagliatrice di teste.

Le femmes fatales erano uno dei temi più sfruttati dalla cultura fin de siècle nonché la principale ossessione simbolista che vedeva la donna sotto due opposti aspetti: angelico e diabolico; madre e Medea, vergine e Salomè.

Gustav Klimt fu il pittore per eccellenza di tali donne, moderne Eva che non seducevano più con la mela ma con il corpo, forse perché fece conoscenza del loro prototipo in carne e ossa: Alma Mahler. All’epoca del loro incontro, prima di sottomettere al suo fascino in successione ma anche in contemporanea, Mahler, Gropius, Kokoschka e Werfel, Alma aveva solo diciassette anni, mentre Klimt, che se ne innamorò perdutamente, ne aveva trentacinque.

Fu forse lei a suggerirgli il modello della donna distruttrice che detiene il totale dominio sugli uomini. Alma era esattamente il tipo della dominatrice, la crudele seduttrice di Vienna, il modello perfetto per le Giuditte di Klimt che, quanto mai lontane dalle immagini della pia vedova ebrea dipinta fino ad allora nella storia dell’arte, erano invece nuovi ibridi fra le vergini martiri coperte d’oro dei mosaici bizantini e le vamp che possedevano innato quell’altezzoso distacco che verrà così ben incarnato da Greta Garbo o Marlene Dietrich.

Altera, sprezzante, le mascelle dure e volitive, il neo voluttuoso sopra lo zigomo, gli occhi bistrati e coperti a metà dalle palpebre come quelli delle vipere, le labbra rosse appena dischiuse e il seno nudo come una Sfinge, sembra sfidare gli uomini che vogliono avvicinarla. Esigerà il loro sacrificio e la loro testa, che sia quella di Oloferne o del Battista, e la terrà appesa per i capelli nelle mani ingioiellate, simili ad artigli. È la donna/animale, pericolosa e selvatica. È sanguinaria come la Clitennestra dell’Elettra che in quegli anni metteva in scena Richard Strauss e inconquistabile come la glaciale Turandot, la sublime e irraggiungibile bellezza che pone enigmi insolvibili ai suoi pretendenti per farli poi decapitare. Giuditta, così come Salomè è, insomma, per il Simbolismo la donna castratrice, nella quale si incarna il mistero ancestrale della congiunzione di Eros e Thanatos, la Morte.

Ecco perché il titolo del quadro di Klimt è doppio: la Giuditta, infatti, non scandalizzò solo la buona società conservatrice viennese che accusava il pittore di «pornografia» ed «esasperata perversione», ma suscitò sconcerto anche nella borghesia ebrea illuminata che soleva difendere Klimt contro le istituzioni pubbliche. Quella Giuditta, però, era davvero troppo lontana dalla coraggiosa eroina degli Apocrifi che si presta a sedurre e uccidere Oloferne, il malvagio capo dell’esercito assiro, solo per la salvezza del popolo ebreo e senza provarne alcun piacere. Meglio allora abbinare, come avvenne sempre più speso nei libri e nei cataloghi dell’epoca, quell’immagine alla perversa Salomè che volle servita su un piatto la testa del profeta ebreo Giovanni Battista.

Ma da bravo simbolista anche Klimt, nel cui studio correvano a farsi ritrarre tutte le donne dell’alta borghesia viennese, prime fra tutte le mogli e le figlie dei ricchissimi industriali ebrei, aveva due registri femminili: da una parte quello demoniaco, pericoloso e intuitivo di Giuditta, di Pallade Atena, della Nuda Veritas o delle sue sirene marine lascive e provocanti; dall’altra quello più sentimentale, dai vapori Art Nouveau, i colori tenui o le deliziose piogge di fiori con cui incorniciava e vestiva le dame della sua città. Queste ultime sono donne dall’espressione vagamente malinconica, sempre un po’ assente e trasognata, simili a bambole che aspettano che qualcuno le animi come i due ritratti di Adele Bloch Bauer o di Margaret Stonborough, che pure era una donna volitiva, faceva parte dell’élite intellettuale viennese, era sorella del filosofo Wittgenstein e amica di Freud.

E tuttavia anche da queste immagini si sprigiona comunque un sottile veleno erotico, qualcosa di indefinibile, forse dovuto al fatto che le ricche signore pare posassero nude nello studio del pittore, vestito sempre con larghi camicioni e barba da profeta e solo dopo averle ritratte come Veneri le ricopriva di splendidi abiti.

Sia che aspettasse passiva sia che soggiogasse l’uomo, dunque, la donna rimaneva un pericoloso demone. Era un’idea che univa profondamente e in modo sotterraneo l’immaginario simbolista alla letteratura greca con le sue figure di femmine castratrici e vendicatrici, da Clitennestra a Medea, da Atena a Circe. La stessa mitologia cui in quegli stessi anni faceva riferimento Freud.

30 Set

Il mito (ambiguo) della donna

Scritto da Melisa Garzonio – Corriere della Sera

L’enigma dei sentimenti I colori dell’inquietudine e del sogno come riparo dalle tempeste del futuro

Parigi, 1891. Sotto le luci della galleria Le Barc de Boutteville, il bel mondo si gode la prima mostra dei Nabis, i «profeti» della seconda generazione simbolista, un gruppo di «facinorosi» che ha sostituito l’ultima Ninfea di Monet con una pittura immateriale, lontana dagli occhi e più vicina al cuore. Agli entusiasmi dei cugini francesi, Milano risponde con la prima Triennale di Brera, un evento di portata storica che segna l’avvio ufficiale di un Divisionismo nuovo, rimasto tale nella tecnica ma più dolce nello stile e rarefatto nei contenuti. Non tutti gradiscono, però. Al punto da inscenare plateali proteste davanti a una tela di Gaetano Previati giudicata troppo «simbolista». S’intitola «Maternità», raffigura una madre che abbraccia teneramente il suo bambino circondata da una schiera di angeli in preghiera, con le ali abbassate, quasi in gesto di protezione. È un capolavoro.

Ma ai nostalgici del vero «scapigliato» — la cruda realtà resa con tinte sfacciate e dissolute — quell’immagine paradisiaca quasi persa in un indefinibile grigioazzurro diviso in filamenti sottili come tentacoli di medusa, suona come una provocazione. Se la madre di Previati è troppo onirica, la versione più realista proposta da «Le due madri» di Giovanni Segantini suscita, invece, ampi consensi. Il maestro di Arco ha dipinto un interno di stalla rischiarato dalla luce soffusa di una lanterna. Il tema che accosta la giovane mamma a una mucca che ha vicino, sullo strame, il suo vitello, è fortemente simbolico ma non perde di vista il mondo reale dei contadini, il lavoro che è fatica ma ti guadagna il paradiso. Previati sogna, Segantini, ancorato alle sue montagne, prega.

Le due grandi tele che all’epoca della Triennale divisero gli animi, di nuovo vis-à-vis e affiancate alle due plastiche maternità di Adolfo Wildt e Pietro Canonica, introducono al percorso di un’eccezionale mostra, la prima dedicata al Simbolismo in Italia, visibile dal 1° ottobre al 12 febbraio a Padova, nelle antiche sale di Palazzo Zabarella. Promossa dalla Fondazione Bano, curata da Fernando Mazzocca e Carlo Sisi con Maria Vittoria Marini Clarelli, ospita un centinaio di opere, prestito di collezioni private e musei italiani e stranieri. Cosa raccontano queste opere appare chiaro visitando le otto sezioni a tema, momenti topici di un percorso che parte dal Realismo dell’ultimo decennio degli anni Ottanta e si chiude con le poetiche del Decadentismo, alla vigilia della prima guerra mondiale.

I temi condivisi dai simbolisti riguardano i grandi valori dell’umanità: il senso della vita, la morte, il sogno, il mito, il mistero, l’enigma, la religione, valori che gli artisti sentivano minacciati dal rullo compressore del progresso scientifico e tecnologico. E allora, che si salvino almeno i sentimenti, i propri e gli altrui, rubati al segreto del cuore e portati alla luce attraverso il ritratto psicologico. Quello che Troubetzkoy ha realizzato di Segantini colpisce nel segno. Così fa Pellizza da Volpedo, quando esibisce la propria angoscia mascherata con teschi, edera, violette e altre diavolerie. Dal cilindro di Alberto Martini (fantastiche le sue opere grafiche raccolte nella sezione in bianco e nero, e il «Notturno» e la «Diavolessa» della Sala del Sogno della Biennale del 1907, ricostruita in mostra) escono mani nervose, spiritelli alati e aguzzi profili di città chiaroscurati da un’eclissi di luna. Diceva le peintre-magicien: «Chi vive nel sogno è un essere superiore, chi vive nella realtà uno schiavo infelice».

E la natura? È madre o matrigna? Martini, così come Plinio Nomellini, Vittore Grubicy, Nino Costa, Mario de Maria e il più grande di tutti, lo svizzero Arnold Böcklin, il padre nobile dei simbolisti (in mostra una versione dall’«Isola dei morti» di Otto Vermehren), condividevano lo stesso principio di Henry-Frédéric Amiel: «Un paesaggio è uno stato dell’anima». Così, a seconda del mood, gli ipersensibili artisti di fine secolo dipingevano ora la nebbia e i fulmini, ora il vento e le tormente di neve (e qui la vince il trio Previati, Pellizza e De Grubicy) facendo della natura la cassa di risonanza dei loro inconfessati patimenti. E la donna? È una strana creatura dalle mille sfaccettature, ora fata ora strega, un po’ musa e un po’ erinni, una sfinge (Bistolfi), una Cleopatra (Previati), una Sirena (Sartorio). Fino a diventare emblematico simbolo di amore e morte nelle opere capitali dei due capiscuola del Simbolismo tedesco transitati alle Biennali di Venezia: «Il peccato» col serpente di Franz von Stuck e la «Giuditta con la testa di Oloferne» di Gustav Klimt. Più spiritoso, Giulio Aristide di Sartorio, in un dipinto commissionato dal conte Gegé Primoli, se la cava dividendo l’altra metà del cielo in due, «Le vergini savie e le vergini stolte». Lo stile immaginifico ispirato alla pittura preraffaellita entusiasmerà Gabriele d’Annunzio. Anche perché tra le vergini (stolte), figurava il ritratto della diletta moglie, Maria Hardouin di Gallese.

26 Set

Parigi Anni 20: le follie dell’avanguardia

Scritto da Marco Rosci – La Stampa

Picasso, Dalì, Modigliani: tra le due guerre la città fu una fucina di movimenti e creatività. Una grande mostra a Ferrara la racconta
 “I nudi di Modì, i primi mobiles di Calder e la nascita del surrealismo Le sperimentazioni negli Anni 30 vedranno gli opposti ostracismi di nazismo e stalinismo”

FERRARA. Prima che New York e l’America prendessero negli Anni 50 il sopravvento, fu Parigi la capitale dell’arte del Novecento. La Ville Lumière tra le due guerre era una sorta di fucina di movimenti e di idee, vide artisti di tutto il mondo accorrervi per capire le nuove forme e i nuovi linguaggi che Picasso, Ray, Léger, Modigliani Dalí andavano sperimentando. A questo irripetibile crogiuolo di creatività è dedicata la mostra «Gli anni folli», che mette in vetrina la città ombelico delle avanguardie artistiche e letterarie fra ritorni all’ordine, eredità cubofuriste, astrattismi e surrealismo (i movimenti che hanno segnato il «Secolo Breve» videro dopo gli Anni 30 gli «opposti ostracismi» del nazismo e dello stalinismo).
A raccontare tutto questo è un’esposizione intelligente nelle scelte e negli accostamenti, curata a Palazzo dei Diamanti da Simonetta Fraquelli, Susan Davidson e Maria Luisa Pacelli. In vetrina in tutto una novantina fra dipinti, sculture e fotografie. Proprio alcune foto d’epoca, che accompagnano i saggi introduttivi, ne illustrano lo spirito di fondo. Tra queste troviamo Silvia Beach e James Joyce nella segreteria della libreria «Shakespeare and Co.», con alle spalle manifesti di conferenze sullo «scandalo Ulysses» (l’opera dello scrittore irlandese ha segnato la letteratura del ‘900 proprio come le opere di Picasso & C. ne hanno segnato l’arte) o la Tour Eiffel notturna, con le luci mobili a spirali e i marchi Citroën, in occasione dell’Expo des Arts Décoratifs nel 1925. Vi sono inoltre gli interni della casa del mercante Léonce Rosenberg con i quadri di De Chirico e di Savinio e Scacchiera di Man Ray, 20 ritratti di artisti e letterati surrealisti su fondi bianchi e neri. Siamo nel ‘34, un anno prima delle rotture interne del gruppo in seguito alla denuncia dello stalinismo da parte di Breton e Eluard. Vi è infine lo stupendo ritratto di profilo di Picasso realizzato da Cecil Beaton nel 1933 nella sua casa di Rue de La Boétie, con lo sfondo flou di un quadro di Bagnante di Renoir.
La mostra si apre proprio con due grandi quadri di vecchi superstiti, La fonte di Renoir e Il ponte giapponese a Giverny di Monet. Quasi a testimoniare come questi abbiano influenzato gli artisti a venire. Il primo salone esibisce sul fondo due Nudi sdraiati contrapposti di Modigliani e di Foujita, vere e proprie insegne ed emblemi delle follie di Montparnasse. Essi serrano al centro la verticale dello S tudio a Montparnasse di Nevinson del 1926, della Tate Gallery. A circondare questi capisaldi ci sono opere non sempre dello stesso livello qualitativo. Lo slancio déco della Rossa di Kisling, con la sorpresa dechirichiana della mezza figura nera dietro alla tenda di spalle, surclassa agevolmente la solita Tamara de Lempicka, che pure era una star dell’epoca. Il Ragazzo con i pantaloni corti di Modigliani da Dallas, il Chierichetto di Soutine, il geniale fil di ferro aereo Senza titolo del giovane Calder parigino sono nettamente più significativi e rappresentativi del Gallo del 1928 di Chagall e del Nudo di Matisse da Lugano.
Viene poi evidenziata, con scelte di ottima qualità, l’alternativa fra l’eredità cubista dei maestri e dei «puristi» e la nascita dell’astrattismo. Da un lato si susseguono Chitarra, bicchiere e fruttiera di Picasso del 1924 da Zurigo, il capolavoro di Braque Il tavolino rotondo del 1928 da Copenhagen, ottime scelte di Léger e di Gris, le eleganze architettoniche puriste delle tele di Ozenfant e di Le Corbusier. Dall’altro due tipici Mondrian del 1922 e 1926 sono abbinati all’ulteriore sorpresa di una tela di Calder della Fondazione Calder di New York.
Di grande fascino scenico è la sala dedicata alle concessioni da parte del Dansmuseum di Stoccolma, intitolato a Rolf de Maré, l’erede di Diaghilev creatore nel 1920-25 dei Balletti Svedesi, con bozzetti di scena e di costumi di Léger, e costumi di Larionov, di Matisse e di De Chirico. Altrettanto affascinante è la sezione fotografica, con il suo incrocio fra la tradizione dell’oggettività documentaria e sociale del mondo urbano e l’innovazione della soggettività anche sperimentale dell’operatore: la Parigi di Atget, di Kertész con gli occhiali e la pipa di Mondrian del 1926, della Krull, della Bing, di Man Ray.
La parte successiva esalta il contrasto, ma anche la profonda inquietudine che c’è nella nuova plasticità del «ritorno all’ordine» postavanguardista. Abbiamo così le due Maternità di Picasso del 1921, il fondamentale Due figure mitologiche di De Chirico del 1927, due Derain del 1923, e le opere di Duchamp del 1919-21, con i rifacimenti del 1974, e Obstruction di appendiabiti del 1920 di Man Ray, anch’esso rifatto nel 1964. Queste icone del trasferimento di Dada da Zurigo, dalla Germania e da New York a Parigi, aprono la strada all’ultimo capitolo dedicato al surrealismo. Le scelte sono giustamente limitate fra gli ultimi Anni 20 e i primi Anni 30: da Arp a un bel Dalí del 1935, con giusto primato pittorico di Ernst, Miró, Masson, Magritte e un bellissimo bronzo di Donna cucchiaio di Giacometti del 1926.

GLI ANNI FOLLI LA PARIGI DI MODIGLIANI, PICASSO E DALÍ 1918-1933 FERRARA PALAZZO DEI DIAMANTI FINO ALL’8 GENNAIO 2012

25 Set

Avanguardie in forma di pagina

Scritto da VITTORIO GREGOTTI – Corriere della Sera

Oggi il protagonismo ha banalizzato tutto, dimenticando la lezione di Lissitsky

Le riviste di avanguardia sorte intorno al periodo della «Grande Guerra» europea del ’14-’18, sono molte, discontinue, sovente di breve durata, ma specchio fedele delle inquietudini e delle spinte ad un rinnovamento radicale decisivo per il pensiero delle pratiche artistiche della modernità. Limitandosi alle arti visive ed all’architettura si possono, per schematica comodità, dividere in tre gruppi. Quelle tra l’inizio del secolo ed il ’14, dal cubismo al futurismo, dai diversi espressionismi alle riviste che spingono ad un rinnovamento radicale delle «arti decorative ed industriali», alle prime proposte del moderno in architettura. Quelle che si sviluppano durante il conflitto, come il dadaismo nel segno di una critica radicale dello stato autodistruttivo della società europea; poi quelle postbelliche caratterizzate da un internazionalismo critico volto soprattutto ai Paesi d’Europa, a partire da quelle della «Neue Sachlichkeit» sino alle diverse forme del costruttivismo e del razionalismo, per giungere nel ’25 alla pubblicazione delle diverse riviste dei surrealisti.

Elemento comune è nello stesso tempo un desiderio rivoluzionario e insieme un senso di responsabilità anche politica delle arti che sembra riproporre la celebre frase di Marx «L’arte non deve spiegare il mondo ma cambiarlo». Le indicazioni delle vie da seguire sono molto diverse e sovente fra loro in conflitto sul piano dei linguaggi o delle proposte di metodo, ma le riviste di avanguardia restano il luogo deputato delle discussioni che nell’insieme offrono il quadro di un internazionalismo critico fondamentalmente europeo.

Fra le riviste di avanguardia un caso interessante è quello dei sei numeri della rivista Berlinese «G» (formula che sta per «Material zur elementaren Gestaltung») pubblicata tra il 1923 ed il 1926 su iniziativa di Hans Richter (con Eggeling uno dei protagonisti delle esperienze dell’astrattismo nel cinema) nella quale le personalità più presenti sono quelle di Lissitsky, di Teo Van Doesburg, Raul Hausmann, Mies Van der Rohe, Hilberseinser e del fotografo Werner Graeff.

La rivista sarà un luogo di discussione anche per molte altre grandi personalità dell’architettura, delle arti come del cinema e della critica d’arte degli anni venti, da Adolf Behne a Walter Benjiamin. Centro della discussione proprio il principio della Gestaltung in quanto proposta di costituzione di un processo metodologico della produzione di una cultura in cui la creazione della forma è connessa ad un’idea di necessità di critica nei confronti dello stato delle cose e di interpretazione socialmente positiva della possibilità di una nuova equità nella civiltà industriale dopo un secolo di sviluppo. Il libro G: An Avant Garde Journal of Art, Architecture, Design and Films (Tate Publishing) appena pubblicato è composto da un’analisi storico-critica ampia e ben articolata con quattro saggi sulle idee della rivista, sulla sua grafica, sulla presenza della fotografia, del cinema, dell’architettura. Offrendo, tra l’altro, un ottimo materiale iconografico dei sei introvabili numeri pubblicati.

Le pubblicazioni in merito al ruolo complessivo delle riviste di avanguardia dei primi trent’anni del XX secolo non sono numerose: il numero monografico della rivista «Rassegna» del 1982 ne illustrava più di una quarantina da quelle come «Rept», «Asnova», «S.A.I Si Moisej Ginzburg», «Vesc.» di Lissitsky pubblicate in Unione Sovietica, a «Blok» e «Presens» in Polonia; altre sei in Ungheria e Romania (da «Zivet» a «Disk»), «Red» in Cecoslovacchia, «De Stijl», «I10» e «Meceano» in Olanda, «391» e poi «AC» in Spagna, «Dada» e «ABC» in Svizzera, in Francia, «Mecano» e «L’eprit nouveau». Negli Stati Uniti vanno ricordate almeno «Camera work» e «Little Review» che si pubblica dal 1914 al 1929. Naturalmente la tradizione delle riviste di avanguardia si muove da riviste come «Das Andere» in Austria. Ma è soprattutto la Germania a produrne in maggior numero: da «Der Sturm» a «Frulicht», da «Die Form» a «Mérz», dai «Bauhausbücher» a «Das Neue Frankfurt», a «der Dada».

Poi le riviste di avanguardia diventano negli anni trenta riviste di opinione critica, come «OpBaun» o l’inglese «Focus», l’«Architecture d’aujourd’hui» in Francia, o le riviste italiane di resistenza come «Casabella» e «Quadrante». La tradizione critica si prolunga sino agli anni cinquanta e sessanta con «Casabella Continuità» di Rogers in Italia e poi con «Contropiano» e «Marcatré», con «Utopie» in Francia, «Focus», «Uppercase» e «Living Arts» in Inghilterra, «Nueva Vision» in Argentina, sino alle utopie tecnologiche di Archigram e degli architetti giapponesi ed alle riviste americane come «Dot Zero» e «Design Quarterly».

L’importante capitolo del mutare della funzione e dell’importanza delle riviste in architettura non è stato sinora accompagnato da un tentativo esauriente di analizzare la relazione tra le diverse posizioni, il loro evolversi nel tempo ed insieme il vitale interesse nel confronto di un internazionalismo critico, che sono invece i meriti di questo studio sulla rivista «G». Tutto questo è ben diverso dall’attuale noiosissima unificazione delle pubblicazioni sotto l’insegna del protagonismo del successo mediatico, dell’incessante attualità pubblicitaria senza progetto critico. Al contrario «G» è il simbolo della contesa aperta tra progetti di futuro, colmi di speranza che oggi possiamo anche tristemente considerare ingenue ed inadeguate, ma che hanno mosso quasi tutte le invenzioni creative dell’ultimo secolo. Invenzioni che, svuotate di ogni ideale se non quello del mercato, muovono invece oggi sotto l’insegna delle mode del «contemporaneo» considerato come il genere indispensabile del successo.

Ciò che stupisce nei nostri anni è proprio l’assenza di tensione che sembra essere stata invece materiale indispensabile dell’invenzione dei linguaggi nella prima avanguardia compresa, ma anche l’infrazione dell’etica convenzionale, la viva curiosità critica nei confronti della diversità delle culture, lo scambio delle esperienze tra le arti nel rispetto delle diverse specificità. Ed infine, per quanto riguarda anche la preminenza dell’architettura come sede o contesto di ogni nuova forma creativa, la Gestaltung che riemerge continuamente rafforzata e radicalmente rinnovata dall’esempio dell’antico.

   

24 Set

L’America sovietica.

Scritto da LEONETTA BENTIVOGLIO – la Repubblica

 Quell´estetica socialista celebrata negli stati uniti    A New York la mostra sull´arte dell´ex Urss
NEW YORK .

Troneggiano, nelle bacheche degli spazi espositivi, arnesi obsoleti della vita quotidiana, tipo una vecchia antenna televisiva a forma di doppio rombo: un residuato aguzzo che Vladimir Arkhipov trasforma in opera pop. Appartamenti asfittici, ripresi in video o immortalati da lavori fotografici, segnalano dimensioni di estrema marginalità, come nel caso delle immagini ambientalmente squallide, e ciò nonostante vitali, realizzate dal rumeno Ion Grigorescu, dove uomini nudi ballano tra pile caotiche di libri, sfidando la claustrofobia delle loro abitazioni con gesti sfrenati. Un altro aspetto è il senso di un maniacale isolamento: emerge, per esempio, nell´opera di Viktor Pivovarov, con la sua mappa solipsistica del regime giornaliero di un uomo. Un desolato cronometro, suddiviso in 24 fasce orarie, è architettato in modo che a ogni ora corrispondano compiti e ruoli imposti dai doveri sociali.
Percezioni di memorie profonde, senza riscatti né indulgenze, affiorano dalle foto in bianco e nero di Nikolay Bakharev: un´adolescente troppo magra, abbattuta e inerme, spicca distesa sull´erba con un bikini leopardato; e sono carnalissimi i quadri fotografici anni Settanta di vasti gruppi di famiglia all´aria aperta, ritratti da Bakharev in raduni estivi o in pic-nic. Tutti indossano ruvidi costumi da bagno, e pargoli mocciolosi si appendono ai corpi flosci di donne che testimoniano destini stanchi, logorati dal lavoro e dalle maternità. Comunicano struggimenti e acute mancanze anche le immagini di Helga Paris, bravissima fotografa dell´ex Germania est, che schiaccia in impietosi primi piani iperrealisti i volti di operaie delle fabbriche tedesche: occhiaie fosche, grembiuli sformati, sguardi obliqui che fuggono altrove.
Sono alcune delle cadenze del viaggio tra i luoghi e gli oggetti del tramontato comunismo che compie Ostalgia, mostra ospitata (prorogata con successo fino al 2 ottobre) dal New Museum, il cui edificio è un mastodontico blocco ferrigno che si erge come un monolite incongruo tra i colori pittoreschi della Bowery di New York. Vi sono esposte le opere di una cinquantina di artisti di diverse generazioni, operativi lungo un periodo che dagli anni precedenti alla caduta del Muro arriva fino a oggi. Provenienti da vari paesi, e in particolare da Germania, Russia, Polonia, Romania ed ex Jugoslavia, sono identità condizionate dall´esilio e dalla perdita, e legate da una rete di emblemi e ricordi che li uniscono e li tormentano, in un intreccio di rapporti psicologici e simbolici che supera le differenze culturali e le contingenze territoriali.
Il titolo dell´esibizione (il cui epicentro temporale è il passaggio sconvolgente durante il quale si sono verificati il dissolversi dell´Unione Sovietica, la fine del Patto di Varsavia e il primo governo della Germania unita), coincide con un neologismo tedesco che amalgama le parole “Ost” (cioè Est) e “Nostalgie”. Il termine prese a circolare in Germania negli anni Novanta, dov´era usato per descrivere il rimpianto dei trascorsi socialisti. D´altronde, come nota a più riprese nel suo bel testo di presentazione della mostra Massimiliano Gioni, un cambio di marcia di proporzioni tanto gigantesche non poteva essere assorbito all´improvviso: l´interiorità delle persone si muove con molta più lentezza della Storia.
Scandita per un verso da narrazioni originali, e per un altro dalla ricostruzione (psicologica, sociale, culturale) del passato prossimo, Ostalgia incorona, come cuore del discorso, l´estetica e gli assiomi del socialismo sovietico, con i vari annessi consapevoli o inconsci. Molte delle opere mirano all´enfasi di personaggi eroici, come Once in the XX Century, dove Deimantas Narkevicius filma la resurrezione di un monumento a Lenin, reinstallato su un piedistallo con strombazzanti fanfare. È ossessiva la presenza delle parole e del linguaggio, sia come attaccamento alla burocratizzazione tipica degli Stati socialisti, sia come uso martellante di slogan politici, sia come culto di una letteratura e di un giornalismo sotterranei, distribuiti clandestinamente. C´è qualcosa di commovente nella volontà passatista di Andrei Monastyrski di disseminare di strani e verbosi striscioni le distese innevate del paesaggio russo. È la voglia di invadere gli spazi di ricordi.
Un´altra peculiarità della mostra newyorkese è l´abbondanza di documentari e video, che ci dicono il peso della funzione avuta dalla tivù nel diffondere il verbo ideologico dei regimi dettati dal totalitarismo sovietico, come nei film di certe interminabili sessioni dei congressi comunisti, dove l´incontinenza delle arringhe sconfina nel comico. E nel suo diario Lithuania and the Collapse of the Urss, Jonas Mekas, un espatriato che vive a New York, monta un collage di programmi televisivi americani votati a ciò che accadde in Lituania nel ´91, quando il paese cominciò a staccarsi dall´Unione Sovietica.
L´aspetto più pervasivo della mostra è il senso di vissuto, consunto e dismesso di visioni e cose che compongono l´atlante mnemonico di Ostalgia. Al confronto delle prospettive “ostalgiche”, l´Occidente è saturo, lustro, acido e volgare: un mondo dove tutto – arredi, corpi, vestiti, pubblicità, automobili, panoramiche urbane – si espone come patinato, impudente, artefatto ed eccessivo. Invece i fisici “ostalgici” non sono mai palestrati. Le facce non sono liftate. Gli abiti non sono alla moda. Le pettinature sono casuali o selvagge. E in questo slittare all´indietro dei simulacri consumistici, sbalza in superficie una specie di romantica innocenza. Il sentire “ostalgico” è tenue e discreto, oltre che permeato dalla lotta all´oblio: un tema, non a caso, caro ai due più importanti scrittori sovietici della seconda metà del Novecento, i Nobel Joseph Brodsky e Aleksandr Solzhenitsyn.
Quando l´impero s´incanala in mille rivoli rompendosi in tanti staterelli, come riferisce l´impressionante esplorazione compiuta dal libro di Ryszard Kapuscinski Imperium (Feltrinelli), esplodono contaminazioni culturali e linguistiche che riportano il mondo alla violenza del crollo della Torre di Babele. Si reagisce al trauma attaccandosi al passato, soprattutto nell´ex Germania est, dove la malinconia attanaglia chi si culla nel ricordo dei vantaggi del vecchio sistema – sanità e istruzione pubbliche, sicurezza sociale, basso costo della vita – dimenticando tutto il resto. E mentre si assiste a un revival di vecchie marche della Ddr, Berlino continua a nutrirsi di riflussi: lungo i marciapiedi dell´Unter den Linden, così come sulle bancarelle dei mercati domenicali, si vendono medaglie, bandiere, divise e onorificenze del periodo socialista. Un fantasticare che fu ben tradotto, qualche anno fa, da un film di successo, Good Bye, Lenin!, di Wolfgang Becker, esplicitamente pieno di Ostalgia. Fenomeno che è la vendetta dell´umano contro l´accelerazione imposta dai rivolgimenti esterni: i miti, per venire sradicati, hanno bisogno di un tempo assai più lungo di quello in cui ci catapultano gli eventi.