Scritto da FRANCESCA BONAZZOLI – Corriere della Sera
Che sia Giuditta o Salomè, come lascia immaginare a piacere il doppio titolo di questo quadro dipinto nel 1909, esposto a Venezia nel 1910 e acquistato nello stesso anno per la Galleria d’arte moderna, in entrambi i casi, si tratta comunque di una sanguinaria assassina tagliatrice di teste.
Le femmes fatales erano uno dei temi più sfruttati dalla cultura fin de siècle nonché la principale ossessione simbolista che vedeva la donna sotto due opposti aspetti: angelico e diabolico; madre e Medea, vergine e Salomè.
Gustav Klimt fu il pittore per eccellenza di tali donne, moderne Eva che non seducevano più con la mela ma con il corpo, forse perché fece conoscenza del loro prototipo in carne e ossa: Alma Mahler. All’epoca del loro incontro, prima di sottomettere al suo fascino in successione ma anche in contemporanea, Mahler, Gropius, Kokoschka e Werfel, Alma aveva solo diciassette anni, mentre Klimt, che se ne innamorò perdutamente, ne aveva trentacinque.
Fu forse lei a suggerirgli il modello della donna distruttrice che detiene il totale dominio sugli uomini. Alma era esattamente il tipo della dominatrice, la crudele seduttrice di Vienna, il modello perfetto per le Giuditte di Klimt che, quanto mai lontane dalle immagini della pia vedova ebrea dipinta fino ad allora nella storia dell’arte, erano invece nuovi ibridi fra le vergini martiri coperte d’oro dei mosaici bizantini e le vamp che possedevano innato quell’altezzoso distacco che verrà così ben incarnato da Greta Garbo o Marlene Dietrich.
Altera, sprezzante, le mascelle dure e volitive, il neo voluttuoso sopra lo zigomo, gli occhi bistrati e coperti a metà dalle palpebre come quelli delle vipere, le labbra rosse appena dischiuse e il seno nudo come una Sfinge, sembra sfidare gli uomini che vogliono avvicinarla. Esigerà il loro sacrificio e la loro testa, che sia quella di Oloferne o del Battista, e la terrà appesa per i capelli nelle mani ingioiellate, simili ad artigli. È la donna/animale, pericolosa e selvatica. È sanguinaria come la Clitennestra dell’Elettra che in quegli anni metteva in scena Richard Strauss e inconquistabile come la glaciale Turandot, la sublime e irraggiungibile bellezza che pone enigmi insolvibili ai suoi pretendenti per farli poi decapitare. Giuditta, così come Salomè è, insomma, per il Simbolismo la donna castratrice, nella quale si incarna il mistero ancestrale della congiunzione di Eros e Thanatos, la Morte.
Ecco perché il titolo del quadro di Klimt è doppio: la Giuditta, infatti, non scandalizzò solo la buona società conservatrice viennese che accusava il pittore di «pornografia» ed «esasperata perversione», ma suscitò sconcerto anche nella borghesia ebrea illuminata che soleva difendere Klimt contro le istituzioni pubbliche. Quella Giuditta, però, era davvero troppo lontana dalla coraggiosa eroina degli Apocrifi che si presta a sedurre e uccidere Oloferne, il malvagio capo dell’esercito assiro, solo per la salvezza del popolo ebreo e senza provarne alcun piacere. Meglio allora abbinare, come avvenne sempre più speso nei libri e nei cataloghi dell’epoca, quell’immagine alla perversa Salomè che volle servita su un piatto la testa del profeta ebreo Giovanni Battista.
Ma da bravo simbolista anche Klimt, nel cui studio correvano a farsi ritrarre tutte le donne dell’alta borghesia viennese, prime fra tutte le mogli e le figlie dei ricchissimi industriali ebrei, aveva due registri femminili: da una parte quello demoniaco, pericoloso e intuitivo di Giuditta, di Pallade Atena, della Nuda Veritas o delle sue sirene marine lascive e provocanti; dall’altra quello più sentimentale, dai vapori Art Nouveau, i colori tenui o le deliziose piogge di fiori con cui incorniciava e vestiva le dame della sua città. Queste ultime sono donne dall’espressione vagamente malinconica, sempre un po’ assente e trasognata, simili a bambole che aspettano che qualcuno le animi come i due ritratti di Adele Bloch Bauer o di Margaret Stonborough, che pure era una donna volitiva, faceva parte dell’élite intellettuale viennese, era sorella del filosofo Wittgenstein e amica di Freud.
E tuttavia anche da queste immagini si sprigiona comunque un sottile veleno erotico, qualcosa di indefinibile, forse dovuto al fatto che le ricche signore pare posassero nude nello studio del pittore, vestito sempre con larghi camicioni e barba da profeta e solo dopo averle ritratte come Veneri le ricopriva di splendidi abiti.
Sia che aspettasse passiva sia che soggiogasse l’uomo, dunque, la donna rimaneva un pericoloso demone. Era un’idea che univa profondamente e in modo sotterraneo l’immaginario simbolista alla letteratura greca con le sue figure di femmine castratrici e vendicatrici, da Clitennestra a Medea, da Atena a Circe. La stessa mitologia cui in quegli stessi anni faceva riferimento Freud.