30 Mag

Il cielo sopra la biennale con i piccioni di cattelan

Scritto da DARIO PAPPALARDO – la Repubblica

L´artista a Venezia: “È la mia ultima opera poi, come ho detto, chiudo a New York”

Duemila piccioni incombono sulla Biennale di Venezia. Non è Hitchcock, ma un´idea di Maurizio Cattelan. L´artista ha messo appollaiati sulle travi e il soffitto di tutto il Padiglione centrale i volatili impagliati, che faranno da minacciosa cornice alle opere degli ottanta partecipanti alla mostra principale, Tintoretto compreso. Così, con l´installazione intitolata Others, ha accettato l´invito della curatrice Bice Curiger alla 54ma esposizione internazionale che si apre sabato. «Sarà un disturbo periferico al lavoro degli altri, una presenza persistente in tutte le sale», spiega, mentre è ancora alle prese con l´allestimento che svela in anteprima. «Devo ringraziare gli artisti che mi hanno dato questa possibilità di intrusione». Nonostante la presenza in laguna, Cattelan mantiene ferma la decisione annunciata due mesi fa di lasciare il mondo dell´arte: «Lo confermo: dopo la retrospettiva al Guggenheim di New York (apertura il 4 novembre), ritiro le armi. Le mostre successive, di cui non mi occuperò più io direttamente, saranno solo di carattere storico».
La stessa installazione dei piccioni non è esattamente una novità, ma la rielaborazione su scala più ampia dell´opera Tourists, esposta alla Biennale curata da Germano Celant nel 1997. «Allora avevo molta paura di esporre: Celant mi chiamò a rappresentare la generazione più giovane accanto a Ettore Spalletti ed Enzo Cucchi», racconta Cattelan. Adesso lo spirito è decisamente diverso: «Ho spiegato a Bice Curiger che ormai mi diverto di più con la mia rivista Toilet Paper, anzi sto pensando di farne un´altra. Così mi sono messo a lavorare con la vista periferica, più che con la solita ossessione». Per lui è la settima e ultima Biennale: «Ma la fase che preferisco è sempre quella del montaggio, quando i Padiglioni sono come piccole cattedrali vuote. In quel momento, le cose più preziose sono un martello e un chiodo: se li hai, ti fai amici tutti». Su come sarà la Biennale, ha già qualche opinione: «Mi pare che questa edizione non vada alla ricerca dello strillo, della novità per la novità. Da quello che ho già visto, sarà una Biennale pacata con qualche bel cazzotto nello stomaco che arriverà dalle opere del Padiglione americano, come il carro armato rovesciato di Allora e Calzadilla. Mi aspetto molto anche da sudamericani e nordafricani». E i piccioni che fine faranno, chiusa la Biennale?: «Quattrocento esemplari “voleranno” a New York: al Guggenheim saranno davvero protagonisti».

27 Mag

Balene e carri armati: è l’arte

Scritto da PAOLO CONTI – CORRIERE DELLA SERA

La Biennale indaga guerre e ambiente. Ma tre Tintoretto accoglieranno i visitatori

Venezia, 54 ª Biennale d’arte, annata 2011. Nulla di rassicurante sotto il cielo della laguna, nonostante il titolo scelto dalla curatrice Bice Curiger sia «ILLUMInazioni» . Nei Padiglioni nazionali, per esempio, c’è inevitabilmente la guerra, e certo non potrebbe mancare in un 2011 che gronda conflitti da ogni angolo del pianeta. Ma l’impatto visivo sarà forte: un carro armato, a grandezza naturale, rovesciato di fronte allo storico Padiglione degli Stati Uniti d’America, col suo raffinato frontale neoclassico che rinvia tanto al Pantheon di Roma quanto al Campidoglio di Washington. Una profezia di sconfitta, una denuncia di stanchezza per le imprese militari americane? Una cosa è certa: «Track and field» (ovvero «Atletica leggera» , questo il titolo dell’opera) si trasformerà proprio in una pista per i ragazzi della squadra di atletica leggera degli Stati Uniti con la sovrapposizione di tapis roulant sul cingolo destro: ci correranno sopra.

L’opera porta la firma di Jennifer Allora e Guillermo Calzadilla, artisti di origine portoricana ma scelti dalla curatrice del Padiglione statunitense, Lisa Freiman, che ha affidato alla stessa accoppiata anche una provocazione sul denaro (un immenso bancomat organo) e sulla competizione. Spiega Freiman: «I progetti sono interventi quasi surrealisti, che intendono catapultarci in una contestazione delle narrative ufficiali. Tali gesti assurdi e paradossali ci implorano di riflettere sul rapporto tra arte, guerra, nazionalismo e competizioni atletiche» .

Poi c’è la recente «rivoluzione nordafricana» . Il vento della protesta e del cambiamento giunge dal nuovo Egitto del dopo-Mubarak: il Padiglione ha confermato la scelta del videoartista Ahmed Basiouny, già selezionato a fine 2010 per la mostra veneziana, morto durante il «venerdì della collera» in piazza Tahrir a Il Cairo il 28 gennaio 2011, ucciso dai cecchini mentre riprendeva le proteste. Verrà installata la sua opera «30 Days of Running in the Place» , progetto digitale contenuto in una struttura quadrata racchiusa in teli di plastica trasparenti. Egiziano, rieccoci al mondo in fermento, è anche il presidente della giuria che assegnerà i premi, Hassan Khan, classe 1975, artista, musicista, scrittore. Infine, l’ambiente naturale al collasso.

Il francese Loris Gréaud, nel cuore della Mostra internazionale e non nel Padiglione del suo Paese, espone «The Geppetto pavillon» , una gigantesca balena spiaggiata (17 metri di lunghezza, 3 di altezza e 2 di larghezza) in resina, berglass e metallo. Un’apertura nel ventre permetterà un viaggio nel suo interno, tra Collodi, il Moby Dick di Melville e il biblico Giona. Per l’oggi, inevitabile il rinvio all’inquinamento marino che uccide decine di balene ogni anno. Le cifre della Biennale sono note da tempo: 89 Padiglioni nazionali (contro i 77 del 2009) inclusa Haiti nonostante la catastrofe. Invece 83 gli artisti invitati da Bice Curiger alla Mostra internazionale: tra questi 32 sono in età under 35 e sempre 32, coincidenza delle statistiche, sono donne.

Poi c’è il Padiglione Italia (3.400 metri quadrati dietro le Gaggiandre più altri 800 di giardino) curato da Vittorio Sgarbi: circa trecento artisti noti e meno noti designati ciascuno da un intellettuale, un imprenditore, un filosofo… Sgarbi è al lavoro e Paolo Baratta, presidente della Biennale, ne parla con entusiasmo e rispetto, smentendo la tradizionale fama del “Vittorio Furioso”: «Il Padiglione Italia si sta realizzando con sistematicità ed efficienza. La sua scelta di affidare ad altri la lista degli artisti ha quasi il sapore di un grande test sulla qualità del rapporto in Italia tra la società italiana e gli artisti» (ma Sgarbi fa sapere agli amici che il budget non gli consentirà di far arrivare a Venezia le opere dei «grandi nomi» . Come finirà?).

Comunque, Baratta è soddisfatissimo proprio per questo dialogo intenso tra Mostra internazionale, Padiglioni nazionali e Padiglione Italia: «La Biennale 2011 corona la scelta di muoversi su diversi binari. La dialettica darà vita a una grande mostra. I Padiglioni nazionali sono sufficientemente grandi per esporre proposte interessanti, ma abbastanza piccoli per evitare che le burocrazie politiche locali li trasformino in un palcoscenico delle loro personali vanità. Il collegamento tra arte e fenomeni sociopolitici mi sembra più evidente e fecondo del solito. Ennesima dimostrazione che la Biennale di Venezia non è un mercato, ma un luogo di cultura in cui si viene per assicurare un valore aggiunto, ma non certo economico, ricco di constatazioni sulla contemporaneità. Venezia come straordinaria piazza di scambio, certo, ma per idee e valori. Non per il denaro» .

I visitatori verranno accolti, all’ingresso della Mostra internazionale, da tre tele del Tintoretto: la sconvolgente «Ultima cena» , «Il trafugamento del corpo di san Marco» e «La creazione degli animali» . Spiega Baratta: «Lì c’è la luce, che rinvia al titolo della mostra. Soprattutto c’è un grande come Tintoretto che avverte: io ho evitato il pericolo del convenzionalismo e della ripetizione, ora tocca a voi…» . Partendo di lì, Baratta assicura che Bice Curiger più i Padiglioni nazionali (incluso quello italiano) formeranno «un reticolo per leggere i fenomeni della globalizzazione» . Ma c’è chi andrà controcorrente, come il performer veneziano Giorgio Andreotta Calò che propone il tema del pellegrinaggio: è partito a piedi da Amsterdam, dove vive, e nei prossimi giorni consegnerà una lettera per Bice Curiger, nel Giardino di Carlo Scarpa al Padiglione centrale. Proprio il suo lungo cammino sarà la sua partecipazione alla mostra.

Baratta ha un ultimo desiderio: «Cioè che nelle ore dell’inaugurazione la Cina comunichi qualcosa di positivo sulla sorte di Ai Weiwei» . Ovvero sul grande artista, autore dello stadio nazionale di Pechino per le Olimpiadi 2008, invitato alla Biennale 2011, arrestato il 2 aprile scorso e detenuto in una località segreta. Il suo posto, per ora vuoto, lo attende alla Biennale di Venezia 2011.

18 Mag

Biennale d’arte, la rivoluzione contro le lobby

Scritto da MICHELE AINIS – CORRIERE DELLA SERA

«Un’idea figlia della Costituzione che invita a promuovere ogni opera. A dispetto del mercato»

Premessa: sono in conflitto d’interessi. Faccio parte, ahimè, dei 200 intelligentoni (o non saranno già 300? Con Sgarbi non si può mai sapere) ai quali il direttore del Padiglione Italia ha chiesto di selezionare gli artisti che esporranno alla Biennale. Premessa-bis: non sono un critico d’arte. Il mio mestiere è quello del giurista, e il giurista non è qualcuno che giura, come pensava un signore che ho incontrato l’altro ieri. Semmai è un esperto di commi, di tribunali, di pandette. Nel mio caso, ho a che fare con le regole più eteree e controverse del nostro ordinamento: quelle costituzionali. Quali titoli potrei dunque accampare per valutare i titoli di uno scultore o d’un pittore? E con che faccia tosta posso prendere partito su una vicenda (la 54esima Biennale) in cui sono coinvolto mani e piedi? Ma invece sì, lo faccio. Solo che per illustrarne le ragioni devo partire da lontano, più o meno dai tempi della prima guerra punica, quando ho vinto la mia cattedra all’università. Devo quel successo a un libro che mi è costato cinque anni di fatica, ben più dei troppi libri che ho pubblicato dopo. Argomento: le garanzie costituzionali dell’arte e della scienza. Fra le letture digerite prima di mettere inchiostro alla mia penna, una su tutte torreggiava come un monumento: Norberto Bobbio, Politica e cultura. In quell’aureo volumetto, dato alle stampe nel 1955, il filosofo torinese distingueva fra «politica culturale» e «politica della cultura» , l’una calata dall’alto sulle attività dell’intelletto, l’altra sgorgante dal basso, dagli stessi intellettuali, per difendere la propria autonomia. E aggiungeva che ogni sistema liberale ammette la seconda ma rifiuta la prima alla radice, perché rifiuta la pianificazione della cultura da parte dei politici, che è sempre spia di dispotismo. Quando scriveva quelle pagine, Bobbio aveva sotto gli occhi l’esperienza del realismo socialista, insieme alla memoria del ministero della Propaganda di Goebbels o del Minculpop fascista. E naturalmente aveva tutte le ragioni. Non soltanto perché ogni censura è odiosa, ma altresì per l’argomento indicato da Adorno nel 1960: c’è nella vita culturale una scintilla che non può essere pianificata, o che altrimenti muore. E allora come la mettiamo con la Costituzione italiana? Sta di fatto che quest’ultima non si limita a garantire la libertà dell’arte e della scienza (art. 33), ma attribuisce inoltre alla Repubblica il compito di promuoverle, di farle sviluppare (art. 9). Dunque di sostenerle con mezzi finanziari, strutture, eventi imbastiti dai pubblici poteri. E come potrebbero mai farlo, se non armandosi d’un disegno di politica culturale? Se lo Stato deve spendere quattrini per le arti figurative o lo spettacolo, dovrà decidere anzitutto quante risorse devolvere all’uno e all’altro campo, e in secondo luogo quante a ciascun genere (per esempio alla musica sinfonica rispetto al jazz), e in terzo luogo quante e a quali artisti. Senza un quadro di fini e di criteri, insomma senza una politica, l’intervento culturale premierebbe infatti le clientele, le appartenenze di partito. C’è modo di coniugare libertà e promozione culturale? Sì che c’è: assegnando alla Repubblica la missione di rendere effettiva la libertà di cui sulla carta godono gli artisti. E dunque liberandoli dai condizionamenti delle lobby, dei potentati, dell’industria culturale. L’unica politica culturale democratica è quella che operi in soccorso delle culture deboli, delle energie artistiche depresse e periferiche, lontane dal gusto delle masse o dalle grazie dei signori del mercato. Questa, almeno, è la mia chiave di lettura; ma a suo tempo venne subito accettata da Paolo Barile, e oggi (posso dirlo?) è moneta corrente nella letteratura specialistica. L’ho poi difesa quando, insieme a una decina di «povericristi» , scrivemmo le norme istitutive del nuovo ministero per i Beni e le attività culturali; la propongo agli studenti nei miei corsi di Legislazione dei beni culturali. Ma la realtà è tutt’altra, come chiunque può vedere. Per dirne una, il finanziamento al cinema cresce man mano che crescono gli incassi delle singole pellicole, che è un po’ come nutrire i sazi lasciando a digiuno gli affamati. E senza i favori d’un assessore o di un guru dell’arte difficilmente potrai esporre le tue tele. Quanto poi al prezzo dei favori, meglio star zitto, non ho voglia di beccarmi una querela. Ecco perché l’operazione messa su da Vittorio Sgarbi reca il vento della rivoluzione. Una rivoluzione costituzionale, anche se magari lui non se ne è accorto. La sua idea d’aprire al mondo la Biennale riecheggia il 1791, quando il Salon schiuse i battenti a tutti gli artisti parigini, non più soltanto a quelli benedetti dall’Académie des Beaux Arts. D’altronde la prima garanzia della libertà dell’arte risale alla Costituzione francese del 1795. Ma nel frattempo l’arte — per usare le parole di Sgarbi— è diventata un sanatorio, dove entrano unicamente i medici (la critica accademica), mentre i sani se ne tengono alla larga. Invece dovrebbe raggiungere un pubblico più vasto di quello che riempie la cittadella artistica. Dovrebbe intercettare ogni sapere, non solo quello custodito dai sapienti dell’arte. E un’istituzione pubblica come la Biennale dovrebbe puntare i riflettori su artisti fin qui misconosciuti, se ciò nonostante meritano l’alloro. Sicché ho accettato volentieri d’indicare un nome: Fausto Roma opera alla periferia dell’Impero, ma a mio parere è un artista straordinario. Posso sbagliare, certo, e ciascuno di voi potrà misurare l’errore (www. Fausto Roma it). Del resto sbaglia l’asino, benché abbia una gran testa. Ma se è per questo, sbagliano pure i critici togati: dai falsi di Modigliani (1984) a quelli di Andy Warhol (2007), la storia è piena d’abbagli con una firma illustre in calce. L’abbaglio più grosso, tuttavia, è di chi ha già caricato i cannoni contro questa Biennale. Peggio: di chi rimprovera agli intellettuali di sinistra d’essersi prestati a un pifferaio di destra, come se anche il giudizio estetico fosse un referendum pro o contro Berlusconi. E allora vediamoci a Venezia, inforchiamo sul naso un paio d’occhiali, valutiamo laicamente. Poi, magari, ne parliamo.