9Ott2012

Scritto da NELLO AJELLO, la Repubblica

Il pittore, il Pci e i dettami del “realismo socialista”

Un caposcuola e un bersaglio: questo è stato Guttuso per l’arte della sinistra italiana nel dopoguerra. La sua figura era al centro di intensi scontri politico-culturali. Tutto nasceva dal fatto che il Pci, il “suo” Pci, trovava normale adeguarsi, in questo campo, ai suggerimenti teorici provenienti dall’Urss, e ciò implicava un ossequio alla teoria del “realismo socialista”. La direttiva, già diramata nel 1934 dal massimo teorico della materia, Andrej Zdanov, imponeva agli artisti di «operare al servizio del partito». Chi, fra loro, «non è capace di marciare col popolo sarà messo da parte». Così avrebbe ribadito lo stesso Zdanov nel ’46.
Un paese come il nostro – che aveva partecipato ai movimenti del primo Novecento, dalla pittura metafisica al cubismo – aderiva a fatica a una consegna così categorica. Togliatti se ne rendeva conto. Da uomo dell’Ottocento, egli condivideva le direttive del “Paese-guida” in ciò che esse avevano di più ruvidamente conservatore (in un congresso degli scrittori sovietici tenuto a Wroclav nel ’48, si arrivò a dire che la moderna cultura borghese poneva «sul piedestallo gli schizofrenici e i morfinomani, i provocatori e i degenerati»). Il segretario comunista si sforzava così, alla meno peggio, di sottoporre gli artisti a un’obbedienza, sia pure non del tutto ortodossa.
Guttuso apparve dunque l’uomo più adatto a interpretare il progetto. A partire dalla letteratura e dal cinema, la formula del realismo sovietico assumeva da noi le vesti del “neorealismo”. Ma per molti pittori la variante somigliava troppo all’originale, anche perché il segretario del Pci non sempre riusciva a nascondere il proprio consenso allo zdanovismo: in una nota su Rinascita del novembre 1948, egli non si trattenne dal liquidare l’arte moderna dell’Occidente – definita «una raccolta di cose mostruose» – condannando in particolare i suoi esponenti italiani. Di conseguenza gli astrattisti, che avevano aderito sulle prime, insieme ai colleghi di diversa tendenza, a un Fronte nuovo delle arti, diedero vita a un gruppo autonomo, detto “degli Otto”. Erano i pittori Birolli, Corpora, Morlotti, Santomaso,
Turcato, Vedova, e due scultori, Leonardi e Viani. Più tardi Ennio Morlotti avrebbe rimproverato a Guttuso di voler «ficcare in testa a martellate il realismo socialista» ai propri seguaci, che Pietro Consagra giudicava «un’ottusa tresca di sergenti».
Guttuso, in realtà, era molto legato all’ultima grande pittura italiana – da de Chirico a Morandi, da Carrà a Boccioni – e lo spagnolo Pablo Picasso, assai sgradito agli “zdanoviani”, rappresentava per lui un mito al quale rifarsi: non a caso c’era chi lo descriveva intento a produrre «picassate alla siciliana».
Una felice stagione guttusiana era stata in passato il tardo periodo fascista, nel quale taluni suoi quadri, dalla
Fuga dall’Etna alla Crocifissione, simboleggiavano un’acre dissidenza. Poco più tardi, la guerra partigiana lo trovò fra i suoi fervidi interpreti: si ricordi il bel ciclo intitolato Gott mit uns, una netta denunzia della brutalità nazista.
Bastavano simili precedenti ad accreditargli la posizione di “leader” della nuova pittura “di sinistra”? Di fatto Guttuso prese a effigiare nelle sue tele degli anni Cinquanta operai, contadini, solfatari, braccianti e mondine, ed era difficile decidere se lo facesse per intima predilezione o per adeguarsi agli umori del partito. I suoi denigratori optavano, ovviamente, per la seconda ipotesi.
Intanto, lui “faceva scuola”. E a chi, come trent’anni fa Moravia sull’Espresso, gli rimproverava di avere «allievi non alla sua altezza» reagiva citando le risposte noncuranti rivolte da Picasso a chi gli imputava di aver generato tanti “picassini”. E, a proposito del sapore “di partito” che emanavano certe sue opere, tagliava corto: «Se ho fatto brutti quadri, ho voluto farli io. Ma ne ho fatti anche di belli. Comunque, Togliatti non mi ha ordinato niente».
I tempi divennero maturi per il tramonto dell’“impegno” in pittura. Di suo, Guttuso era poi un uomo naturalmente sensibile alla popolarità. Nel 1981, avendo la rivista Capital pubblicato una sua intervista, apparve sull’Unitàla lettera d’un lettore scandalizzato: perché il Maestro – si chiedeva il mittente – s’è confidato con un periodico che è «espressione della nostra controparte politica»?. La reazione del Maestro fu di un’ironia sferzante: «Mettete davanti a quella rivista un “Das” e tutto va posto». “Das Kapital”, come il capolavoro di Marx.