02 Giu

Un palazzo a Venezia per i grandi maestri della collezione Prada

Scritto da FRANCESCA GIULIANI – la repubblica

Dopo il restauro, Ca´ Corner riapre sabato prossimo con una mostra in contemporanea con la Biennale.
Da Nauman a Bourgeois, da Fontana a Hirst, viene esposto il meglio della raccolta della Fondazione.
Una passione di famiglia che si concentra sul periodo successivo agli anni Sessanta.
Bertelli: “Con gli autori abbiamo rapporti di amicizia Ci piace avere uno spazio di libertà”.

Oltre la facciata candida sul Canal Grande, i blocchi di pietra arenaria che compongono l´opera “Void Field” di Anish Kapoor sono il primo impatto con l´allestimento che la Fondazione Prada presenta nella sua nuova sede di Venezia. La settecentesca Ca´ Corner della Regina ospita (dal 4 giugno al 2 ottobre) un florilegio di opere presentate in un itinerario critico a cura di Germano Celant: il lavoro con cui l´artista angloindiano si presentò alla Biennale nel 1990 accoglie i visitatori. E fa da diapason a una visita nei saloni affrescati, su fino al piano nobile dove sono collocate le opere di Bruce Nauman e Louise Bourgeois, Jeff Koons e Damien Hirst, John Baldessari e Donald Judd, Blinky Palermo e Michael Heizer, insieme a quelle dei “classici” italiani da Schifano a Fontana, Burri e poi Boetti, De Maria, Gnoli e poi ancora dei “nuovissimi” tra cui Cattelan e Vezzoli. È uno sguardo (anche critico) che si concentra sull´arte post-anni Sessanta, che spazia fra i generi a testimoniare una passione “di famiglia”, come è quella di Patrizio Bertelli e Miuccia Prada per l´arte contemporanea.
La nuova sede di Palazzo Corner della Regina è nata – spiega Bertelli – come «un´opportunità, più che come una scelta strategica» ed è destinata a diventare una tappa che si aggiunge al dedalo di spazi e iniziative anche per chi, proprio in questi giorni, si avventura alla scoperta della Biennale d´arte di Bice Curiger. Una novità che si trova a definire un recupero, volendo, anche di segno “nazionale” rispetto alle recenti collezioni private esposte, per esempio, a Palazzo Grassi e a Punta della Dogana. Di proprietà del Comune di Venezia, inserito nella rete dei musei civici, il palazzo adiacente Ca´ Pesaro, a cui peraltro si ispira dal punto di vista architettonico, deve il suo nome alla famiglia Corner e all´aver dato i natali a Caterina Corner che sarà regina di Cipro. Ora, liberati gli spazi dagli archivi della Biennale che li occupava dopo aver preso il posto, a sua volta, del Monte di Pietà, il magnifico palazzo è stato concesso in affitto per sei anni (ma il contratto è rinnovabile per altri sei) alla Fondazione che ha realizzato un progetto di recupero funzionale e di restauro attento ai dettagli, a cominciare dalla messa in sicurezza delle superfici di pregio artistico e architettonico, con il rilevo delle parti impiantistiche fuori norma, la manutenzione dei serramenti lignei, il recupero degli spazi destinati a uffici e servizi: «Si è trattato di una prima fase di restauro, frutto di una collaborazione ottimale con il Comune di Venezia, la Soprintendenza ai Beni culturali, la Fondazione dei Musei civici che vedrà una continuità di intervento nelle prossime fasi di lavori tutte realizzate nel pieno rispetto del palazzo», chiarisce Bertelli. Così il piano terreno, il primo e secondo mezzanino e il piano nobile possono aprire al pubblico distillando una sorta di “best of” della passione artistica di una delle coppie più influenti del mondo della moda che intanto sta provvedendo ad un´altra, nuova sede milanese firmata da Rem Koolhaas (largo Isarco, apre nel 2013) di cui sono qui presentati i modelli. In mostra, anche pezzi del museo del Qatar, della Fondazione dei Musei civici di Venezia, dell´Ermitage; più i prestiti degli artisti Thomas Demand e Francesco Vezzoli.
Ma da Ca´ Corner non partiranno scelte di forzato mecenatismo, né si esprime alcuna volontà di intraprendere un´attività di programmazione artistica complessa o continuativa. Racconta Bertelli: «Con gli artisti abbiamo spesso rapporti personali, di amicizia, di affinità. Sono persone con cui ci piace condividere la vita quotidiana. Ci piace incontrarli, conoscerli, andare a cena insieme. D´altra parte non condividiamo l´idea di una committenza specifica per un luogo né ci consideriamo mecenati ma soltanto collezionisti. Perché artisti come Raffaello o Michelangelo, che creavano le loro opere per dei mecenati, erano vincolati dai dettami dei loro committenti ma anche dal bisogno di denaro: cose che oggi ad artisti come, per esempio, Damien Hirst o Jeff Koons non interessano affatto. A noi del rapporto con l´arte piace soprattutto la libertà, coltivarla attraverso tante piccole cose. Ricordo ad esempio l´incontro che abbiamo avuto con Louise Bourgeois, conservo le foto fatte insieme a Miuccia a New York e i disegni che ci inviava ogni Natale. Io dell´arte amo soprattutto il fatto che sia distante dai nostri doveri e dagli impegni di tutti i giorni, una passione libera».

01 Giu

L’arte imita l’arte

Scritto da PIERLUIGI PANZA – CORRIERE DELLA SERA

 E i contemporanei guardano indietro dal nostro inviato

VENEZIA — Esauriti tutti i post, le decostruzioni e le sperimentazioni, l’età della morte dell’arte si trova a fare i conti con una vasta area di nichilismo operativo dove tutto è possibile, ma ogni esperienza è chiamata solo a emozionare. Così quest’anno le due principali rassegne della Biennale — che oggi verrà ufficialmente presentata dal ministro Galan e dal presidente Baratta — appaiono puntare su un evergreen della creatività: la reinterpretazione degli antichi maestri. Infatti, per quanto diverse nella genesi e nei fini, sia i ILLUMInazioni, curato dalla critica zurighese Bice Curiger, che il Padiglione Italia curato ma non selezionato da Vittorio Sgarbi, presentano una costante: la reinterpretazione di qualche opera del passato. L’illuminazione sarà «un fatto individuale» , come sostiene Baratta attraversando la 54ma mostra e «non di massa» (salvo, forse, i Lumi), ma pare che gli artisti si siano accesi soprattutto mettendo a nudo, ironizzando o interpretando grandi maestri e temi. Intanto mai si erano viste alla Biennale di Venezia tre opere veneziane di un maestro veneziano come Tintoretto. «Venendo alla Biennale ho sempre trovato strano che ci fosse solo dell’arte contemporanea— racconta la Curiger —. Così ho voluto portare anche Tintoretto perché è un pittore sperimentale, anticlassico e rispetto ad altri artisti del passato ha una forza più contemporanea. Basta pensare al suo Cenacolo: il tavolo sembra scivolare sul fondo e ci sono ombre e facce con una fisiognomia nuova rispetto a Leonardo» . Quanto ai 200 piccioni imbalsamati che Cattelan ha disposto tutto intorno ai quadri di Tintoretto, la curatrice afferma: «L’architettura moderna ha scelto di esporre ogni quadro all’interno di stanze che sono scatole bianche. Io, anziché i drappeggi di un tempo, ho pensato di interrompere questo bianco con una forza che entra dall’esterno» . Questa forza sono i piccioni di Cattelan. Ma anche quando non sono esposti gli antichi maestri veri e propri, sono i nuovi che usano gli antichi. Quella dello svizzero Urs Fisher è una delle opere più osservate dentro l’Arsenale. Presenta un Ratto delle Sabine del Giambologna (1583) in grandezza originale in cera con davanti un amico con candela accesa in testa e, di fianco, la poltrona del suo studio con la cera che cola. Anche Karl Holmqvist dà un’interpretazione di un classico dell’architettura come il Palazzo dell’Eur. E anche Sgarbi, dopo aver pensato a un Padiglione Italia con il solo Cristo Morto del Mantegna, avrebbe voluto i Tintoretto. E poiché sono andati alla Curiger manifesta il dissenso: «Non ce l’ho con la Biennale ma con il ministero che ha dato l’autorizzazione per farli spostare» . Ma se il vero Mantegna non c’è, anche al Padiglione Italia il gioco ironico sul passato è onnipresente tra i 200 o più artisti esposti. Giuseppe Veneziano usa il tema della crocifissione ma con il Cristo in mutande firmate Dolce &Gabbana. Cosa che non piace a Gaetano Pesce, che vorrebbe «rispetto e una coraggiosa lettura del passato, pur senza prendersi troppo sul serio come, intelligentemente, Sgarbi invita a fare» . E, in astratto, non gradisce troppo neanche Baratta, che vorrebbe da parte dei «brand» un impegno comune intorno alla Biennale e non ciascuno per sé. Molte altre opere del Padiglione sgarbiano riprendono Piero della Francesca (quella di Federico Fedeli è una sorta di cornice a un vero Piero della Francesca di piccole dimensioni), temi come la Medusa, o la Madonna del Parto o L’Ecce homo (quelle di Lois Anvidalfarei) o proprio il Cristo Morto di Mantegna radiografato da Menghetti. Oppure che «reinterpretano» opere dell’Ottocento e della modernità, dalla Zattera della Medusa di Gericault (Colin) a L’origine del mondo di Courbet rifotografata da Donata Pizzi e posta in fianco a una icona pop stile Andy Warhol di Berlusconi («l’origine del mondo è la sua ossessione» , chiosa Sgarbi) di Vaccari.

30 Mag

Il cielo sopra la biennale con i piccioni di cattelan

Scritto da DARIO PAPPALARDO – la Repubblica

L´artista a Venezia: “È la mia ultima opera poi, come ho detto, chiudo a New York”

Duemila piccioni incombono sulla Biennale di Venezia. Non è Hitchcock, ma un´idea di Maurizio Cattelan. L´artista ha messo appollaiati sulle travi e il soffitto di tutto il Padiglione centrale i volatili impagliati, che faranno da minacciosa cornice alle opere degli ottanta partecipanti alla mostra principale, Tintoretto compreso. Così, con l´installazione intitolata Others, ha accettato l´invito della curatrice Bice Curiger alla 54ma esposizione internazionale che si apre sabato. «Sarà un disturbo periferico al lavoro degli altri, una presenza persistente in tutte le sale», spiega, mentre è ancora alle prese con l´allestimento che svela in anteprima. «Devo ringraziare gli artisti che mi hanno dato questa possibilità di intrusione». Nonostante la presenza in laguna, Cattelan mantiene ferma la decisione annunciata due mesi fa di lasciare il mondo dell´arte: «Lo confermo: dopo la retrospettiva al Guggenheim di New York (apertura il 4 novembre), ritiro le armi. Le mostre successive, di cui non mi occuperò più io direttamente, saranno solo di carattere storico».
La stessa installazione dei piccioni non è esattamente una novità, ma la rielaborazione su scala più ampia dell´opera Tourists, esposta alla Biennale curata da Germano Celant nel 1997. «Allora avevo molta paura di esporre: Celant mi chiamò a rappresentare la generazione più giovane accanto a Ettore Spalletti ed Enzo Cucchi», racconta Cattelan. Adesso lo spirito è decisamente diverso: «Ho spiegato a Bice Curiger che ormai mi diverto di più con la mia rivista Toilet Paper, anzi sto pensando di farne un´altra. Così mi sono messo a lavorare con la vista periferica, più che con la solita ossessione». Per lui è la settima e ultima Biennale: «Ma la fase che preferisco è sempre quella del montaggio, quando i Padiglioni sono come piccole cattedrali vuote. In quel momento, le cose più preziose sono un martello e un chiodo: se li hai, ti fai amici tutti». Su come sarà la Biennale, ha già qualche opinione: «Mi pare che questa edizione non vada alla ricerca dello strillo, della novità per la novità. Da quello che ho già visto, sarà una Biennale pacata con qualche bel cazzotto nello stomaco che arriverà dalle opere del Padiglione americano, come il carro armato rovesciato di Allora e Calzadilla. Mi aspetto molto anche da sudamericani e nordafricani». E i piccioni che fine faranno, chiusa la Biennale?: «Quattrocento esemplari “voleranno” a New York: al Guggenheim saranno davvero protagonisti».

27 Mag

Balene e carri armati: è l’arte

Scritto da PAOLO CONTI – CORRIERE DELLA SERA

La Biennale indaga guerre e ambiente. Ma tre Tintoretto accoglieranno i visitatori

Venezia, 54 ª Biennale d’arte, annata 2011. Nulla di rassicurante sotto il cielo della laguna, nonostante il titolo scelto dalla curatrice Bice Curiger sia «ILLUMInazioni» . Nei Padiglioni nazionali, per esempio, c’è inevitabilmente la guerra, e certo non potrebbe mancare in un 2011 che gronda conflitti da ogni angolo del pianeta. Ma l’impatto visivo sarà forte: un carro armato, a grandezza naturale, rovesciato di fronte allo storico Padiglione degli Stati Uniti d’America, col suo raffinato frontale neoclassico che rinvia tanto al Pantheon di Roma quanto al Campidoglio di Washington. Una profezia di sconfitta, una denuncia di stanchezza per le imprese militari americane? Una cosa è certa: «Track and field» (ovvero «Atletica leggera» , questo il titolo dell’opera) si trasformerà proprio in una pista per i ragazzi della squadra di atletica leggera degli Stati Uniti con la sovrapposizione di tapis roulant sul cingolo destro: ci correranno sopra.

L’opera porta la firma di Jennifer Allora e Guillermo Calzadilla, artisti di origine portoricana ma scelti dalla curatrice del Padiglione statunitense, Lisa Freiman, che ha affidato alla stessa accoppiata anche una provocazione sul denaro (un immenso bancomat organo) e sulla competizione. Spiega Freiman: «I progetti sono interventi quasi surrealisti, che intendono catapultarci in una contestazione delle narrative ufficiali. Tali gesti assurdi e paradossali ci implorano di riflettere sul rapporto tra arte, guerra, nazionalismo e competizioni atletiche» .

Poi c’è la recente «rivoluzione nordafricana» . Il vento della protesta e del cambiamento giunge dal nuovo Egitto del dopo-Mubarak: il Padiglione ha confermato la scelta del videoartista Ahmed Basiouny, già selezionato a fine 2010 per la mostra veneziana, morto durante il «venerdì della collera» in piazza Tahrir a Il Cairo il 28 gennaio 2011, ucciso dai cecchini mentre riprendeva le proteste. Verrà installata la sua opera «30 Days of Running in the Place» , progetto digitale contenuto in una struttura quadrata racchiusa in teli di plastica trasparenti. Egiziano, rieccoci al mondo in fermento, è anche il presidente della giuria che assegnerà i premi, Hassan Khan, classe 1975, artista, musicista, scrittore. Infine, l’ambiente naturale al collasso.

Il francese Loris Gréaud, nel cuore della Mostra internazionale e non nel Padiglione del suo Paese, espone «The Geppetto pavillon» , una gigantesca balena spiaggiata (17 metri di lunghezza, 3 di altezza e 2 di larghezza) in resina, berglass e metallo. Un’apertura nel ventre permetterà un viaggio nel suo interno, tra Collodi, il Moby Dick di Melville e il biblico Giona. Per l’oggi, inevitabile il rinvio all’inquinamento marino che uccide decine di balene ogni anno. Le cifre della Biennale sono note da tempo: 89 Padiglioni nazionali (contro i 77 del 2009) inclusa Haiti nonostante la catastrofe. Invece 83 gli artisti invitati da Bice Curiger alla Mostra internazionale: tra questi 32 sono in età under 35 e sempre 32, coincidenza delle statistiche, sono donne.

Poi c’è il Padiglione Italia (3.400 metri quadrati dietro le Gaggiandre più altri 800 di giardino) curato da Vittorio Sgarbi: circa trecento artisti noti e meno noti designati ciascuno da un intellettuale, un imprenditore, un filosofo… Sgarbi è al lavoro e Paolo Baratta, presidente della Biennale, ne parla con entusiasmo e rispetto, smentendo la tradizionale fama del “Vittorio Furioso”: «Il Padiglione Italia si sta realizzando con sistematicità ed efficienza. La sua scelta di affidare ad altri la lista degli artisti ha quasi il sapore di un grande test sulla qualità del rapporto in Italia tra la società italiana e gli artisti» (ma Sgarbi fa sapere agli amici che il budget non gli consentirà di far arrivare a Venezia le opere dei «grandi nomi» . Come finirà?).

Comunque, Baratta è soddisfatissimo proprio per questo dialogo intenso tra Mostra internazionale, Padiglioni nazionali e Padiglione Italia: «La Biennale 2011 corona la scelta di muoversi su diversi binari. La dialettica darà vita a una grande mostra. I Padiglioni nazionali sono sufficientemente grandi per esporre proposte interessanti, ma abbastanza piccoli per evitare che le burocrazie politiche locali li trasformino in un palcoscenico delle loro personali vanità. Il collegamento tra arte e fenomeni sociopolitici mi sembra più evidente e fecondo del solito. Ennesima dimostrazione che la Biennale di Venezia non è un mercato, ma un luogo di cultura in cui si viene per assicurare un valore aggiunto, ma non certo economico, ricco di constatazioni sulla contemporaneità. Venezia come straordinaria piazza di scambio, certo, ma per idee e valori. Non per il denaro» .

I visitatori verranno accolti, all’ingresso della Mostra internazionale, da tre tele del Tintoretto: la sconvolgente «Ultima cena» , «Il trafugamento del corpo di san Marco» e «La creazione degli animali» . Spiega Baratta: «Lì c’è la luce, che rinvia al titolo della mostra. Soprattutto c’è un grande come Tintoretto che avverte: io ho evitato il pericolo del convenzionalismo e della ripetizione, ora tocca a voi…» . Partendo di lì, Baratta assicura che Bice Curiger più i Padiglioni nazionali (incluso quello italiano) formeranno «un reticolo per leggere i fenomeni della globalizzazione» . Ma c’è chi andrà controcorrente, come il performer veneziano Giorgio Andreotta Calò che propone il tema del pellegrinaggio: è partito a piedi da Amsterdam, dove vive, e nei prossimi giorni consegnerà una lettera per Bice Curiger, nel Giardino di Carlo Scarpa al Padiglione centrale. Proprio il suo lungo cammino sarà la sua partecipazione alla mostra.

Baratta ha un ultimo desiderio: «Cioè che nelle ore dell’inaugurazione la Cina comunichi qualcosa di positivo sulla sorte di Ai Weiwei» . Ovvero sul grande artista, autore dello stadio nazionale di Pechino per le Olimpiadi 2008, invitato alla Biennale 2011, arrestato il 2 aprile scorso e detenuto in una località segreta. Il suo posto, per ora vuoto, lo attende alla Biennale di Venezia 2011.

18 Mag

Biennale d’arte, la rivoluzione contro le lobby

Scritto da MICHELE AINIS – CORRIERE DELLA SERA

«Un’idea figlia della Costituzione che invita a promuovere ogni opera. A dispetto del mercato»

Premessa: sono in conflitto d’interessi. Faccio parte, ahimè, dei 200 intelligentoni (o non saranno già 300? Con Sgarbi non si può mai sapere) ai quali il direttore del Padiglione Italia ha chiesto di selezionare gli artisti che esporranno alla Biennale. Premessa-bis: non sono un critico d’arte. Il mio mestiere è quello del giurista, e il giurista non è qualcuno che giura, come pensava un signore che ho incontrato l’altro ieri. Semmai è un esperto di commi, di tribunali, di pandette. Nel mio caso, ho a che fare con le regole più eteree e controverse del nostro ordinamento: quelle costituzionali. Quali titoli potrei dunque accampare per valutare i titoli di uno scultore o d’un pittore? E con che faccia tosta posso prendere partito su una vicenda (la 54esima Biennale) in cui sono coinvolto mani e piedi? Ma invece sì, lo faccio. Solo che per illustrarne le ragioni devo partire da lontano, più o meno dai tempi della prima guerra punica, quando ho vinto la mia cattedra all’università. Devo quel successo a un libro che mi è costato cinque anni di fatica, ben più dei troppi libri che ho pubblicato dopo. Argomento: le garanzie costituzionali dell’arte e della scienza. Fra le letture digerite prima di mettere inchiostro alla mia penna, una su tutte torreggiava come un monumento: Norberto Bobbio, Politica e cultura. In quell’aureo volumetto, dato alle stampe nel 1955, il filosofo torinese distingueva fra «politica culturale» e «politica della cultura» , l’una calata dall’alto sulle attività dell’intelletto, l’altra sgorgante dal basso, dagli stessi intellettuali, per difendere la propria autonomia. E aggiungeva che ogni sistema liberale ammette la seconda ma rifiuta la prima alla radice, perché rifiuta la pianificazione della cultura da parte dei politici, che è sempre spia di dispotismo. Quando scriveva quelle pagine, Bobbio aveva sotto gli occhi l’esperienza del realismo socialista, insieme alla memoria del ministero della Propaganda di Goebbels o del Minculpop fascista. E naturalmente aveva tutte le ragioni. Non soltanto perché ogni censura è odiosa, ma altresì per l’argomento indicato da Adorno nel 1960: c’è nella vita culturale una scintilla che non può essere pianificata, o che altrimenti muore. E allora come la mettiamo con la Costituzione italiana? Sta di fatto che quest’ultima non si limita a garantire la libertà dell’arte e della scienza (art. 33), ma attribuisce inoltre alla Repubblica il compito di promuoverle, di farle sviluppare (art. 9). Dunque di sostenerle con mezzi finanziari, strutture, eventi imbastiti dai pubblici poteri. E come potrebbero mai farlo, se non armandosi d’un disegno di politica culturale? Se lo Stato deve spendere quattrini per le arti figurative o lo spettacolo, dovrà decidere anzitutto quante risorse devolvere all’uno e all’altro campo, e in secondo luogo quante a ciascun genere (per esempio alla musica sinfonica rispetto al jazz), e in terzo luogo quante e a quali artisti. Senza un quadro di fini e di criteri, insomma senza una politica, l’intervento culturale premierebbe infatti le clientele, le appartenenze di partito. C’è modo di coniugare libertà e promozione culturale? Sì che c’è: assegnando alla Repubblica la missione di rendere effettiva la libertà di cui sulla carta godono gli artisti. E dunque liberandoli dai condizionamenti delle lobby, dei potentati, dell’industria culturale. L’unica politica culturale democratica è quella che operi in soccorso delle culture deboli, delle energie artistiche depresse e periferiche, lontane dal gusto delle masse o dalle grazie dei signori del mercato. Questa, almeno, è la mia chiave di lettura; ma a suo tempo venne subito accettata da Paolo Barile, e oggi (posso dirlo?) è moneta corrente nella letteratura specialistica. L’ho poi difesa quando, insieme a una decina di «povericristi» , scrivemmo le norme istitutive del nuovo ministero per i Beni e le attività culturali; la propongo agli studenti nei miei corsi di Legislazione dei beni culturali. Ma la realtà è tutt’altra, come chiunque può vedere. Per dirne una, il finanziamento al cinema cresce man mano che crescono gli incassi delle singole pellicole, che è un po’ come nutrire i sazi lasciando a digiuno gli affamati. E senza i favori d’un assessore o di un guru dell’arte difficilmente potrai esporre le tue tele. Quanto poi al prezzo dei favori, meglio star zitto, non ho voglia di beccarmi una querela. Ecco perché l’operazione messa su da Vittorio Sgarbi reca il vento della rivoluzione. Una rivoluzione costituzionale, anche se magari lui non se ne è accorto. La sua idea d’aprire al mondo la Biennale riecheggia il 1791, quando il Salon schiuse i battenti a tutti gli artisti parigini, non più soltanto a quelli benedetti dall’Académie des Beaux Arts. D’altronde la prima garanzia della libertà dell’arte risale alla Costituzione francese del 1795. Ma nel frattempo l’arte — per usare le parole di Sgarbi— è diventata un sanatorio, dove entrano unicamente i medici (la critica accademica), mentre i sani se ne tengono alla larga. Invece dovrebbe raggiungere un pubblico più vasto di quello che riempie la cittadella artistica. Dovrebbe intercettare ogni sapere, non solo quello custodito dai sapienti dell’arte. E un’istituzione pubblica come la Biennale dovrebbe puntare i riflettori su artisti fin qui misconosciuti, se ciò nonostante meritano l’alloro. Sicché ho accettato volentieri d’indicare un nome: Fausto Roma opera alla periferia dell’Impero, ma a mio parere è un artista straordinario. Posso sbagliare, certo, e ciascuno di voi potrà misurare l’errore (www. Fausto Roma it). Del resto sbaglia l’asino, benché abbia una gran testa. Ma se è per questo, sbagliano pure i critici togati: dai falsi di Modigliani (1984) a quelli di Andy Warhol (2007), la storia è piena d’abbagli con una firma illustre in calce. L’abbaglio più grosso, tuttavia, è di chi ha già caricato i cannoni contro questa Biennale. Peggio: di chi rimprovera agli intellettuali di sinistra d’essersi prestati a un pifferaio di destra, come se anche il giudizio estetico fosse un referendum pro o contro Berlusconi. E allora vediamoci a Venezia, inforchiamo sul naso un paio d’occhiali, valutiamo laicamente. Poi, magari, ne parliamo.

17 Apr

L’enigma e il fascino dell’isola, il chiodo fisso di Adolf Hitler

Scritto da Gianni Caverni – l’Unità Firenze

 Quadri di Arnold Böcklin, Giorgio de Chirico e Antonio Nunziante in esposizione fino al 19 giugno al Palazzo comunale di Fiesole 
Quattro quadri di Arnold Böcklin, piuttosto malridotti, nemmeno del tutto terminati, eppure pieni di un fascino straordinario. “Isole del pensiero” è il titolo della mostra curata da Giovanni Faccenda che, fino al 19 giugno, mette insieme nella sala del Basolato del palazzo comunale di Fiesole, il maestro di Basilea, Giorgio de Chirico che tanto gli ha dovuto, e Antonio Nunziante, pittore contemporaneo. Anche il titolo della mostra evoca il “quadro dei quadri”, quell’Isola dei morti che tanto fascino ha esercitato su schiere di artisti. La prima che fece fu nel 1880, poi altre quattro ne seguirono secondo il consiglio del mercante berlinese che colse al volo la straordinarietà dell’opera. Un fascino che è stato capace di coinvolgere profondamente personaggi come Freud, Hitler, Lenin, Dalì, Strindberg, Druié e D’Annunzio. Hitler, che ne possedeva una, volle che tutto ciò che di Böcklin era rimasto nella villa Bellagio a San Domenico di Fiesole fosse portato via, si salvarono solo quei 4 quadri e qualche disegno, probabilmente nascosti in qualche modo. Il “Pan fra i bambini in girotondo” è palesemente non finito, era quello che fu trovato ancora sul cavalletto quando l’artista morì, nel 1901. Dei 5 de Chirico in mostra 4 sono del periodo “barocco” che risale fra gli anni ’40 e ’50 del secolo scorso. Potrebbe però valere una visita anche solo la “Passeggiata, il tempio di Apollo a Delfi” che l’artista greco di nascita, ma italiano di origine, dipinse fra il 1909 e il 1910 probabilmente quando abitava a Firenze. Si tratta del quadro che registra la fase di preannuncio dei temi esplicitamente metafisici e il paesaggio nel quale si svolge la scena è probabilmente ispirato ad un luogo reale della zona di Fiesole, naturalmente letto secondo la grammatica di Böcklin.
L’isola, o meglio una sua interpretazione, è quasi costantemente presente nei quadri di Antonio Nunziante che segue la via a suo tempo aperta dall’artista svizzero e percorsa poi da tutti gli artisti classificabili, per necessità di sintesi, come surrealisti. L’isola di Nunziante è “più positiva”, come lui stesso la definisce. E’ comunque un enigma per dirla col de Chirico metafisico, si colloca all’esterno ma anche all’interno di stanze deserte il cui pavimento in legno è allagato dal torrente che scorre fra i cipressi. O, in questo citando non solo de Chirico ma anche suo fratello Savinio, in interni che si fanno esterni attraverso il soffitto mancante.
12 Apr

McCracken, minimalista visionario

Scritto da STEFANO BUCCI – CORRIERE DELLA SERA

 Quando nel 1968 arrivò al cinema 2001: Odissea nello spazio di Kubrick in molti pensarono che il monolito nero che compariva (inquietante) sullo schermo fosse una sua opera: «No, ma in fondo lo spirito è lo stesso» . Andrea Bellini, direttore del museo del Castello di Rivoli, ricorda così John McCracken, l’artista considerato uno dei padri fondatori del minimalismo americano, scomparso venerdì notte a Manhattan a settantasei anni (era nato a Berkeley, California, il 9 dicembre 1934). Proprio a McCracken il museo di Rivoli dedica fino al 19 giugno la prima retrospettiva mondiale («Prima ancora che negli Usa» ) alla cui realizzazione l’artista ha collaborato attivamente e che comprende anche gli ultimi suoi lavori, Fair del 2008 e Wonder del 2010. «Noi stessi— dice Bellini— siamo sorpresi del successo della mostra, ma forse bisognava in qualche modo aspettarselo perché le sue forme geometriche sono ormai parte dell’immaginario collettivo» . Eppure McCracken è sempre stato un genio incompreso o almeno sottovalutato dalla critica, che solo adesso sembra volerlo scoprire (con gli obituaries del «New York Times» e del «Los Angeles Times» ). Anche se le sue sculture, le sue installazioni dalle forme geometriche (Naxos, Il Mago della pioggia), i suoi pennarelli su carta (Mandala) fin da subito si erano caratterizzati per quella loro riuscita miscela di visionarietà e minimalismo: un universo di resine, acciaio e colori vivacissimi (giallo, blu, rosa oltre a tanto nero) che, appunto, non avrebbe sfigurato in un film di fantascienza.
12 Apr

Quel quadro misterioso amatissimo da Hitler che Lenin teneva sul letto

Scritto da FRANCESCA MARANI – Venerdì de la Repubblica

Una tela che sedusse molti, l’isola dei morti di Böcklin, è esposta, accanto a lavori di De Chirico e Nunziante, per la prima volta in Italia. Eppure si ispirerebbe al castello aragonese di Ischia

«Aqualsiasi cifra ». Era tanta l’ossessione per Arnold Böcklin che Hitler non aveva posto limiti all’intermediario. E così, a un’asta del 1936, riuscì ad aggiudicarsi L’isola dei morti, il quadro più celebre del pittore svizzero. A quale cifra non si è mai saputo, «a quei tempi non c’erano cataloghi né bollettini di aggiudicazione. Di sicuro oggi possiamo azzardare una quotazione di oltre centomilioni di euro» spiega Giovanni Faccenda, curatore della mostra Isole del pensiero. Böcklin, de Chirico, Nunziante, a Fiesole dal 16 aprile al 19 giugno (www.museidifiesole.it).

Pezzo forte dell’esposizione, per la prima volta in Italia, è proprio quel dipinto, dal quale Hitler non si separò mai. Rimane una foto del dittatore nel suo studio, con il ministro sovietico Molotov e il tedesco Ribbentrop, durante gli accordi per il patto di non aggressione del 1939: sullo sfondo, L’isola dei morti.

Hitler volle il quadro con sé, fino alla fine, nel bunker di Berlino. Un generale dell’Armata Rossa lo portò a Mosca, e si credette fosse andato perso, fino a quando, nel 1980, la Russia lo offrì alla Nationalgalerie di Berlino.

In mostra a Fiesole, dove Böcklin morì centodieci anni fa, altri suoi quattro dipinti, accanto a cinque di Giorgio de Chirico e a venti di Antonio Nunziante. «In entrambi echeggia fortissima la lezione di Böcklin» spiega il curatore: «possiamo definirli, come il maestro svizzero, “pittori enigmisti”, portati a rappresentare ciò che non è visibile ma è percepibile ». Un itinerario metafisico iniziato da Böcklin, percorso prima da De Chirico e oggi da Nunziante.

«Nessun pittore, come quest’ultimo, ha dipinto per affinità di spirito in modo così vicino a Böcklin» dice lo studioso Hans Holenweg, che in occasione della mostra rivelerà, dopo tante ipotesi, a quale luogo si è ispirato Böcklin: al castello aragonese sull’isolotto di fronte a Ischia.

Hitler fu l’estimatore più famoso dell’atmosfera onirica e misteriosa dell’Isola dei morti, di quella figura bianca che su una barca porta una bara verso un grande scoglio roccioso, ma la suggestione suscitata dal quadro (Böcklin fu spinto a farne cinque versioni, dal 1880 al 1886, quella del dittatore era la terza) influenzò artisti, scrittori, musicisti e poeti. Da Munch a Magritte, da Max Ernst a Salvador Dalí. Strindberg ne fece la scenografia della Sonata degli spettri.

Rachmaninov compose un poema sinfonico con lo stesso titolo del dipinto, che ispirò anche una poesia di Majakovskij. In tempi più recenti, il quadro è «apparso» in Nabokov e in Milo Manara.

Avere in casa un’Isola dei morti è stato a lungo un must, come si direbbe oggi. A fine Ottocento, una sua riproduzione era considerata un regalo di nozze di alta classe.

D’Annunzio ne possedeva una, Freud ne teneva nel suo studio ben ventidue. E anche Lenin ne aveva una, proprio sul letto. Più trasversale di così.

07 Apr

La passione del collezionismo

Scritto da Severino Colombo – Corriere della Sera

L’Italia delle gallerie private tra giovani talenti e maestri

Da Modica (Laveronica) a Trento (Raffaelli), da Venezia (Contini) a Torino (Mazzoleni). È l’Italia unita dall’arte— e dalle gallerie — che per quattro giorni ha in Milano la sua capitale. Perché «da qui passa il 60-70 per cento del mercato dell’arte italiano» ; perché qui «nelle accademie si formano gli artisti di domani» ; perché qui «operano le gallerie più importanti» . Così Giacinto Di Pietrantonio, docente a Brera e curatore della sezione contemporanea di MiArt, fiera internazionale di arte moderna e contemporanea che si svolge dall’ 8 all’ 11 aprile nel padiglione 3 di FieraMilanoCity. Proprio il ritorno o in alcuni casi il debutto a MiArt di alcune rinomate gallerie milanesi è una delle novità della sedicesima edizione: «Monica De Cardenas e Studio Guenzani, che aveva partecipato una volta sola — elenca il curatore —. Poi ci sono nomi di peso come Massimo De Carlo, Suzy Shammah, Kaufmann Repetto in grado di attrarre i collezionisti stranieri» . Un’altra novità di MiArt è la volontà di selezionare — ancor di più — le gallerie. Erano duecento nel 2009, quest’anno sono cento, di cui il 90 per cento italiane. Una scelta che punta a mettere in evidenza l’autorevolezza della galleria e l’eccellenza o l’originalità degli artisti (quasi seicento) presentati. Se si va sul moderno — la sezione è curata da Donatella Volonté — ci sono nomi di sicuro appeal quali Picasso, Klee, Dalì, Prampolini, Max Ernst. Mentre sul contemporaneo si toccano le esperienze, ormai storicizzate, dell’Arte Povera e della Transavanguardia, i linguaggi della video-art e della performance, e si arriva all’arte del presente che riflette elementi di una geografia allargata, insieme «località e globalità delle culture» . A questo riguardo nuova è pure l’attenzione di MiArt per giovani gallerie e ad artisti altrettanto giovani, alcuni inediti, che osserva Di Pietrantonio «dimostrano una buona qualità di ricerca e di idee; la differenza rispetto al passato è oggi che non occorre lavorare in una grande città per farsi conoscere» . Da qui la scelta di esporre, in maniera quasi obbligata, le nuove promesse all’occhio dei visitatori collocandole all’ingresso della fiera. Quanto alle quotazioni delle opere presentate la forbice è ampia: un migliaio di euro per chi vuole scommettere investendo su un talento ancora sconosciuto, duecento volte tanto per portarsi a casa l’opera di un artista affermato o già entrato nel libri di storia dell’arte del Novecento. Che poi in fiera si concludano davvero buoni affari lo dice il fatto che nel 2010 i pezzi venduti — certificato d’acquisto alla mano — solo nella sezione moderna hanno toccato la cifra record per MiArt di centoventinove. Non è una novità, ma una gradita consuetudine la serie d’iniziative collaterali a MiArt. Occasioni di dialogo e scambio come le visite guidate, i tour per collezionisti di AXa Art. O gli incontri di MiArtalks, a cura di Peep-Hole (Vincenzo de Bellis e Bruna Roccasalva) che spaziano dalla moda al design, dall’architettura agli spazi museali; tra gli ospiti lo scrittore Andrea G. Pinketts e il fotografo Ferdinando Scianna. Dalla collaborazione con lo Iulm, partner ufficiale, è nato un progetto su misura giovani under 30 (sul sito www. miart. it); pure mirato sui talenti in crescita è anche il Premio Rotary per l’arte contemporanea (quest’anno dedicato alla tecnica del disegno). Infine, con Naba è nato l’evento «100 di 50» (9 aprile ore 20), curato da Di Pietrantonio con Marco Scotini: una maratona di cento performance— proposte dal vivo o con materiali video d’archivio— per raccontare, conclude l’esperto, «il campo espressivo in cui l’arte si è rinnovata di più negli ultimi cinquant’anni» .

07 Apr

«Io gallerista, padre a tempo pieno degli artisti»

Scritto da FRANCESCA BONAZZOLI – Corriere della Sera

Giò Marconi, a Milano manca un progetto culturale. Ognuno pensa soltanto per sé

Figlio d’arte, Giò Marconi, 46 anni, ha preso in consegna l’attività del padre Giorgio trasformandola in una delle gallerie italiane che più godono di prestigio anche all’estero. Per Miart è membro del comitato consultivo che ha selezionato gli espositori. Ogni anno Miart annuncia di essersi rinnovata, dichiarazione che dice quanto sia difficile posizionarsi? «Le fiere continuano ad aumentare, ormai ne organizzano anche a Dubai o Hong Kong e i galleristi fanno fatica a decidere dove andare. Miart finora si è comportata come un elastico, con anni buoni alternati ad altri meno felici. La nuova idea è puntare su un numero ridotto di espositori, non più di cento, ma i migliori italiani. Cominciamo a fare una vetrina della nostra eccellenza e questa è già una forte connotazione» . Bisogna dare per persi i mercanti stranieri? «Gagosian ha aperto una galleria a Roma, eppure non fa nessuna fiera in Italia: i collezionisti italiani sono fra i maggiori compratori e vanno molto a comprare anche all’estero così al momento i galleristi stranieri preferiscono esplorare attraverso le fiere mercati nuovi, come il Messico. Poi c’è anche l’handicap che da noi l’Iva è molto alta» . Non sarà che Milano non sa costruire una mitologia di se stessa? A Parigi la Fiac, per esempio, si tiene nella cour carré del Louvre e nel Grand Palais; anche la nuova fiera di Roma ha trovato luoghi affascinanti come l’ex mattatoio al Testaccio. «Certo sarebbe molto più bello fare Miart alla Triennale, con il bar nel giardino e la fontana di De Chirico, ma questo dipende dal management che gestisce la fiera, se vuole o no pensare in grande. Uno come Roberto Casiraghi, per esempio, si è inventato Artissima di Torino dal nulla e ora ha lanciato Roma con la stessa capacità di progettare idee» . Forse anche voi galleristi siete divisi? «Grazie alla crisi ora ci parliamo di più, ma qui a Milano manca soprattutto la capacità di coordinare pubblico e privato. Ognuno pensa per sé. Abbiamo l’editoria dell’arte, spazi alternativi, il mercato, le gallerie, i soldi, le fondazioni. Ma non abbiamo un museo di arte contemporanea, un direttore che programmi il Pac, insomma una intelligenza che abbia un progetto della città, una visione che la tenga insieme. È un impegno di idee prima ancora che economico» . Ma le fiere servono ancora? «Servono sia le mostre nelle gallerie che le fiere per comunicare con la gente che non ha tempo» . Fra fiere e aste, alle gallerie quale ruolo resta? «Quello di promuovere gli artisti, di aiutarli a realizzare i progetti. Per esempio la mostra che ho prodotto nella mia galleria per Nathalie Djurberg ha poi girato tre musei internazionali e ora torna a Milano perché l’ha comprata la fondazione Prada» . La crisi si è sentita? «Certo, ma a Milano solo una galleria ha chiuso e altre hanno aperto» . Cosa fanno di nuovo gli artisti oggi? «Non usano più un unico media, ma passano dal video alla pittura all’installazione, a volte anche nello stesso lavoro» . Come si cercano i nuovi talenti? «Viaggio molto, vedo tante mostre, parlo con i miei artisti che mi fanno segnalazioni, con i curatori e i colleghi e faccio molte visite agli studi degli artisti. Con loro si instaura sempre una relazione personale: anche i migliori sono spesso insicuri di quello che fanno, hanno bisogno di un supporto. Devi essere un po’ anche il loro fratello o papà» . L’aspetto più bello del suo lavoro? «Quando in galleria si prepara la mostra con l’artista. Quando si vede realizzare il progetto» . E il lato meno piacevole? «La fatica di fare le fiere» . Che cosa serve per diventare gallerista? «L’occhio, la conoscenza dell’arte e degli artisti. Ma soprattutto serve avere un progetto, un’identità personale molto forte» .