18 Dic

Socialisti, siate realisti

Ultimo aggiornamento Martedì 20 Dicembre 2011 07:29 Scritto da Ada Masoero – Il Sole 24 Ore

È il destino di ogni arte di regime condividere gloria e rovina con il dittatore, subendone poi per decenni l’identica damnatio memoriae. Difficile risalire la china, anche per artisti grandissimi, come il nostro Sironi, liquidato come “pittore fascista” per quasi 40 anni dopo la fine della dittatura, a dispetto della sua gigantesca statura d’artista.

Sono bastati invece vent’anni al Realismo socialista sovietico per essere sdoganato sulla scena internazionale. Così, se la Royal Academy of Arts presenta a Londra dal 29 ottobre al 22 gennaio Building the Revolution. Soviet Art and Architecture 1915-1935 e Chicago propone fino alla stessa data un fitto programma di mostre ed eventi sotto il titolo di Vision and Communism, il Palazzo delle Esposizioni di Roma, dopo la monografica del più dotato degli artisti sovietici, Aleksandr Deineka, completa ora la ricognizione su quegli anni con Realismi socialisti, una mostra curata da Matthew Bown, Evgenija Petrova e Zelfira Tregulova con Matteo Lafranconi; la prima di tale respiro fuori dalla Russia. Perché il plurale? Innanzitutto perché il percorso copre un arco cronologico dilatato rispetto a quello canonico, avviandosi nel 1920, quando ancora in Urss sopravvive qualche libertà d’espressione, per protrarsi fino al 1970, in età brežneviana, quando gli artisti si rifugiano nel sogno e nell’interiorità. Ma, più ancora, perché il progetto curatoriale intende evidenziare come il monolitismo ideologico, almeno in alcune sue fasi, abbia saputo convivere con una discreta pluralità artistica.
Nei primi convulsi anni post-rivoluzionari, infatti, tanto Lunacvarskij, il potente commissario del popolo per la cultura, quanto David Šterenberg, da lui posto al vertice delle arti visive, non solo tolleravano ma incoraggiavano il lavoro degli artisti d’avanguardia, da Tatlin a Malevicv, da Kandinskij a Rodcvenko (da non perdere la sua bellissima monografica, sempre in Palazzo delle Esposizioni, che ne documenta la genialità di fotografo e di grafico). Tanto che il critico più ascoltato del tempo, Nikolaj Punin, poteva enunciare che «il comunismo come teoria della cultura non può esistere senza futurismo!». Peccato che Lenin non condividesse (propugnava «un’arte comprensibile alle masse»), e nemmeno Trotsky, che ripeteva: «la nuova arte sarà realista. La rivoluzione non vive di misticismo!». Il che fece ben presto salire alla ribalta artisti come Deineka, realisti sì, ma desiderosi di fecondare il dettato del socialismo con il seme ancora vivo delle avanguardie. Il ritorno all’ordine era del resto un vento che in quegli anni attraversava l’intera Europa dopo gli incendi delle avanguardie, e anche la nuova Russia sapeva stare al passo. Così, nelle due prime sezioni (dal 1920 al ’28 e di qui al ’36) è stupefacente riscontrare come, pur nel solco del solo realismo, il registro espressivo fosse variato e attento alle esperienze internazionali: c’è Filonov, con quella sua pittura brulicante di forme sfaccettate e cristalline, che dovrà poi rigettare; ci sono Petrov-Vodkin e Pimenov, che guardano a Grosz e a Dix; c’è Kustodiev che traduce la marcia del bolscevismo in una fiaba; ci sono i manichini, “eretici” perché spersonalizzati, di Malevicv. E c’è Deineka, qui con il cinematografico La difesa di Pietrogrado. Senza contare il tardo-impressionismo di Nikritin o di Labas. Ma a fare il controcanto ecco il super-accademico Isaak Brodskij, prediletto da Lenin, con un immenso quadro-stendardo che celebra la III Internazionale. Dopo, la musica cambierà: i pieni anni Trenta sono quelli del terrore e delle purghe staliniane ma anche quelli di un’arte mistificatoria, zeppa di operai gioiosi e di contadini festanti. Chi aveva assicurato qualche libertà agli artisti nel frattempo è morto, come Lenin, o è in esilio come Trotskij: il panorama si fa opprimente (esemplare, in mostra, Guida, amico, maestro di Šegal, vera pala d’altare laica innalzata a Stalin e Lenin), sebbene il solito Deineka riesca ancora a regalare qualche brivido. Bisognerà arrivare agli anni 60 e al sinora sconosciuto Gelil Koržev per trovare un artista capace di creare nuove immagini emozionanti ed eloquenti. Sulla peggiore arte sovietica resta però sospesa la domanda che si pone in catalogo (Skira) Ekaterina Degot: non sarà che «tanta bruttezza» è tale solo agli occhi di noi occidentali, abituati a vedere nell’arte un oggetto di mercato? Quella, ci rammenta la studiosa, era un’arte che ignorava i rapporti di scambio e di proprietà; una creazione collettiva destinata alla fruizione collettiva. A noi continua a parere indigesta, ma la domanda è lecita.

15 Dic

Il prezzo dell’arte contemporanea

Scritto da ANGELO AQUARO – LA REPUBBLICA

Hirst e kelly, i divi dell´anno un boom da 6 miliardi di dollari.     Negli Usa battuti tutti i record, dalle aste alla fiera di Miami. Un mercato folle che qualcuno definisce “una bolla” L´inglese, che fece il “teschio”, ha annunciato che si dedicherà anche alla pittura

NEW YORK. Quando, pochi giorni fa, i signori di Sotheby´s hanno fatto i conti dell´ultima asta, neppure Tobias Meyer riusciva a credere ai propri occhi. Se volete capire che cosa succede nel mondo dell´arte, Tobias è il vostro uomo: da vent´anni nella maison, sempre ai vertici da Londra a New York, Meyer è il responsabile internazionale per tutta l´arte contemporanea. I suoi ragionieri gli avevano presentato il solito pronostico: da 192 a 270 milioni avevano calcolato la possibilità di raccoltà. E invece quella collezione che sbandierava Francis Bacon e Gerhard Richter ha totalizzato, alla fine, la bellezza di 318,5 milioni di dollari.
«Al di là di ogni previsione» sorride ora Tobias. E certo: la più grande vendita dall´inizio della recessione. Domanda: ma visto che la recessione non sembra finita, anzi, com´è possibile che l´arte contemporanea continui a vendere a prezzi così folli? Il Wall Street Journal ha dedicato un intero inserto a spiegare al suo pubblico, più avvezzo alle azioni che ai chiaroscuri, che cosa vale la pena comprare e cosa no. E Newsweek ha realizzato una lunga inchiesta sulle follie dei prezzi. Il rombo blu sul rettangolo bianco di Ellsworth Kelly acquistato per 1,5 milioni. Il gabinetto medico di Damien Hirst venduto per 2,5 milioni di dollari.
Proprio il funambolico inglese sembra riassumere in sé lo spirito del tempo. Malgrado l´avviso contrario dei suoi stessi rappresentanti, all´alba del 2008, negli stessi giorni in cui il crollo di Lehman Brothers segnava l´inizio della fine per Wall Street, Mister Hirst raccolse all´asta di Sotheby´s 200,7 milioni di dollari, mettendo in vendita 223 pezzi pregiati, per giunta riveriti da una folla di 21mila visitatori. E tre anni dopo è sempre lui ad annunciare al New York Times un grande ritorno: al genere che aveva dichiarato estinto, quella pittura in cui i suoi pois sono un marchio di fabbrica, e soprattutto al mercato – imbarcandosi in un giro del mondo attraverso le 11 gallerie del suo sponsor Gagosian, con opere valutate dai 100mila ai 2 milioni di dollari.
Insomma in momenti di crisi l´arte sembra diventata, al contrario, un “bene rifugio” – naturalmente per chi se lo può permettere, spiega Jim Halperin della Heritage Auction Galleries: «Diversificazione dell´investimento». Dice però il sito francese Artprice.org che il mercato nell´ultimo anno è cresciuto addirittura del 34 per cento: totalizzando 5,8 miliardi di dollari. Davvero solo una questione di investimento?
Charlie Saatchie, il grande collezionista e gallerista, parla provocatoriamente di follia: accusando tanti amatori di non conoscere l´arte abbastanza. E certo i “nuovi ricchi” sono stati la benzina sul mercato degli ultimi anni: bruciato appunto da russi e cinesi. Ma questo è soltanto uno dei cinque fattori elencati da Blake Gopnik, il critico d´arte del Washington Post. Gli altri? Il primo è il prestigio, l´eccitazione che proviamo a possedere un bene veramente costoso – e che ha portato Ernst Beyeler, il cofondatore di Art Basel, la fiera di Miami, a sentenziare cinicamente: se qualcosa non vende, io raddoppio il prezzo. Il secondo è conseguente: la quotazione è più facile da apprezzare della bellezza e dunque “più costoso-più bello” è il sillogismo che innesca la spirale. Punto terzo: l´ebbrezza della caccia – impossessarsi di qualcosa di valore scatena quella competizione che fa impennare, ancora, i prezzi. Infine l´aura culturale che da ogni acquisto d´arte consegue: uno può comperare una flotta di Bentley o mezza Fiat – ma solo comprando arte assurge a quel ruolo di “patronaggio” culturalmente riverito.
La bolla dunque non scoppierà mai? Per la verità l´ottimismo è messo a dura prova da due novità. La recessione che non passa comincia a farsi sentire anche dalla Cina al resto del mondo che finora cresceva: e i nuovi ricchi tendono a riporre il portafoglio. E poi ci sono i soliti furbi. Il collezionista Pierre Lagrange ha fatto causa alla storica Knoedler Gallery di New York per avergli venduto un Pollock falso. La galleria ha chiuso dopo 150 gloriosissimi (finora) anni. E i curatori sono coinvolti nella più grande truffa dell´arte su cui indaga l´Fbi. Gli esperti già temono dunque un nuovo fattore: quell´effetto-sfiducia così deleterio in ogni mercato. Anche il buon Tobias è avvisato: la festa della sua Sotheby´s può restare – appunto – il punto più alto. Che neppure la casa d´aste più famosa del mondo riuscirà più a battere.

04 Dic

Zar Caravaggio

Scritto da Fabrizio Dragosei – Corriere della Sera

 In fila per il grande artista che può battere il record di Dalì «Era così stravagante, mi chiedo come abbia fatto simili capolavori»

Davanti all’ingresso del Puškin fa freddo e nevica leggermente. Le automobili imbottigliate in quell’eterno ingorgo che è Mosca sono coperte da un sottile strato bianco. Un’ora dopo l’apertura, la fila per entrare al «Museo statale delle arti figurative Puškin» ha già superato l’angolo e gli ultimi sanno che non se la caveranno tanto velocemente. Si entra in gruppi di 30 persone ogni venti minuti. Ce ne vorranno ben più di sessanta per superare l’ingresso, affrontare l’imponente scalinata affiancata da enormi colonne e arrivare al piano della mostra, «la più grande di Caravaggio mai organizzata fuori dall’Italia», come recitano con orgoglio le locandine.
Il Puškin è un museo curioso. Oltre alle tantissime opere provenienti da tutto il mondo (unica la collezione di impressionisti francesi) ha anche una vasta sezione dedicata alle copie. Copia del Davide di Michelangelo, copia del colossale bronzo equestre al Gattamelata di Donatello, poi statue romane, busti greci, sculture assire, sarcofaghi egizi. Un museo «educativo» dove i cittadini sovietici che certo non potevano recarsi all’estero avevano modo di ammirare quei tesori.
E ancora oggi il Puškin è frequentatissimo dalle classi in gita, come quella proveniente da Tver che sta per entrare nella grande sala che ospita i Caravaggio. Sono ragazzini piccoli, ma tenuti in riga con pugno di ferro dalle insegnanti. Qui non si corre, non si grida, non si usa il cellulare e la settimana successiva si viene interrogati su quello che si è visto.
Ai russi piace documentarsi, non solo guardare le opere che sono esposte. Nel salone foderato di stoffa rossa che ospita gli 11 quadri giunti dall’Italia, sono appesi ben 13 grandi pannelli che raccontano tutto di Michelangelo Merisi. A fianco di ogni quadro, invece, solo poche righe: «Martirio di Sant’Orsola, Napoli Palazzo Zevallos Stigliano»; «Flagellazione, Napoli museo Capodimonte». Il tutto, naturalmente, in caratteri cirillici.
Lena, col naso gelato dopo 40 minuti di fila, è un medico in pensione e dice che quando può «va sempre a vedere le mostre che si tengono al museo che non è lontano da casa». Come pensionata paga 150 rubli, l’equivalente di 3 euro e mezzo che non sono certo pochi per chi prende 300 euro al mese. I visitatori normali pagano 300 rubli (7 euro), ma gli stranieri sono più «normali» degli altri in base a norme che non sono mai cambiate da quando c’era l’Urss e pagano 400 rubli. Entrano gratis invalidi, veterani di guerra, eroi dell’Urss e della Russia; i minorenni la prima domenica del mese. Davanti alla cassa c’è un tabellone fitto di regole, tabelle e tariffe. Anche questo rigorosamente solo in russo.
Yurij, 26 anni, fa lo scultore e quindi non poteva non visitare la mostra di Caravaggio. «Il mese scorso ho tentato di vedere anche l’esibizione di Salvador Dalì, ma la fila era troppo lunga», racconta. Per l’occasione è stato stabilito il record di visitatori: 270 mila in 11 settimane, più di 4 mila al giorno. La mostra di Caravaggio, che si tiene in contemporanea a quella sul pittore inglese William Blake, potrebbe fare ancora meglio. Tre anni fa il canale televisivo Cultura ha trasmesso con grande successo il film su Caravaggio prodotto dalla Rai e altre tv europee. E ciò ha sicuramente contribuito ad aumentare le attese. Irina, 26 anni, commessa in un negozio di vestiti, dice di essere molto curiosa. «Voglio capire come una persona dalla vita così stravagante abbia poi potuto dipingere simili opere».
Il salone rosso è affollatissimo, tra chi legge i pannelli, chi ascolta le audioguide e chi ammira le tele. La mostra è aperta dalle 10 del mattino alle 7 di sera. Ma già si pensa che presto il personale dovrà fare gli straordinari.

04 Dic

Quei ricchi potenti ammaliati dal genio «borderline»

Scritto da FRANCESCA BONAZZOLI – Corriere della Sera

 Il Cardinale invidiava l’artista straccione ma libero

Quando, nel 1592, il ventunenne Caravaggio arrivò a Roma da Milano, era uno sconosciuto fra le centinaia di pittori che tentavano di guadagnarsi da vivere in una città stremata dalla carestia e dalla crisi alimentare; secondo i suoi biografi Mancini e Bellori, appariva «estremamente bisognoso et ignudo», «senza recapito e senza provedimento» e «senza denari».
Come fece uno così a farsi strada nella giungla della plebaglia romana? La sua pittura era dura, secca, e senza abbellimenti riproduceva la parte peggiore della realtà: bari, prostitute, zingare, pellegrini straccioni, frutta marcia, piedi nudi e sporchi. Chi poteva comprare quadri così, contro ogni regola del decoro? Chi furono i collezionisti che videro in Caravaggio un genio e lo tirarono fuori dalla povertà provando, inutilmente, a imporlo anche alle gerarchie ecclesiastiche, ligie alle regole della Controriforma e dell’Inquisizione?
Il primo fu il cardinal Francesco Maria Del Monte. Un diplomatico consumato, un gay sui quarantacinque anni che, vista la facilità con cui si veniva messi al rogo, conduceva una vita riservatissima. In qualità di rappresentante dei Medici a Roma, tutto sapeva e tutto conosceva, ma nessuno poteva dire altrettanto su di lui. Sotto l’amabilità e le belle maniere, proteggeva il suo privato con reticenza assoluta. Suonava, amava la musica, il teatro e la scienza; allestì una distilleria alchemica nella villa del giardino Ludovisi, fu il primo a possedere il nuovo telescopio dell’amico Galileo, ma riuscì a non compromettersi nemmeno quando difese lo scienziato durante i guai con l’Inquisizione. Era una specie di Gianni Letta: il potere passava dalle sue mani, ma non lo esercitava. E soprattutto, in quella Roma grigia, dove era pericoloso pensare e parlare, dove Clemente VIII faceva bruciare vivo Giordano Bruno e combatteva una feroce battaglia contro prostituzione e sodomia, «il vizio indicibile», Del Monte praticava l’arte del tacere e della discrezione, senza mai sollevare un pettegolezzo su di sé.
Ebbene, fu proprio un burocrate così che si prese in casa un pittore povero in canna, sporco (le cronache del tempo dicono che si lavava pochissimo, anche dopo il successo) e attaccabrighe come Caravaggio. Lo ospitò nel suo palazzo Madama e lo protesse facendolo uscire di prigione ogni volta che gli sbirri lo arrestavano. Probabilmente, il compassato cardinal Del Monte vedeva in Caravaggio quella libertà e quella noncuranza verso la trasgressione che egli non si poteva permettere.
I Giustiniani, invece, i secondi grandi collezionisti di Caravaggio, vedevano forse in lui «la scoperta» à la page del loro prestigioso vicino di casa, il Del Monte: dei due fratelli di una famiglia di banchieri genovesi che aveva avuto il controllo delle finanze degli Asburgo di Spagna, Benedetto era cardinale, talmente intimo con il re di Francia Enrico IV che questi lo chiamava mon cousin, mentre Vincenzo era l’uomo più ricco di Roma da cui dipendeva il deficit del Papa. Aveva quindici anni meno del suo amico Del Monte ed era tutt’un altro tipo: sposato, padre, amante della caccia, borghese per spirito e attività, aspirante al titolo nobiliare, che poi ottenne. Quando morì, Vincenzo aveva accumulato quindici tele di Caravaggio, mentre Del Monte ne possedeva solo otto.
Gli altri nobili collezionisti romani furono i Mattei, mentre i Colonna, marchesi di Caravaggio, imparentati con i Doria principi di Genova, furono soprattutto i protettori che stesero intorno al pittore assassino, condannato alla pena capitale dal Papa, una rete di aiuti estesa fino a Malta. Senza questi ricchi e potenti, dal comportamento eccentrico rispetto ai loro pari, quel «cervello stravantissimo» di Caravaggio non ce l’avrebbe fatta. Gli opposti hanno sempre qualcosa che li attrae e il collezionismo di oggi continua a dimostrare la regola.

04 Dic

Grande successo per l’asta di arte contemporanea da Dorotheum

Ultimo aggiornamento Giovedì 22 Dicembre 2011 07:13 Scritto da Dorotheum

 L’asta di arte contemporanea di Dorotheum del 24 novembre 2011 ha esordito con l’aggiudicazione del dipinto di Ilya Kabakov, „All’Università 1972“ del 2002, a 754.800 Euro. L’opera, una versione idealistica della storia dell’arte russa, è stata esposta nel 2004 al Museo di Cleveland; l’artista, emigrato negli Stati Uniti nel 1987, ha voluto unire in quest’opera elementi del realismo socialista con forme dell’avanguardia suprematista, impressionista e espressionista (cat. n. 1401).
Molte le offerte di collezionisti internazionali che si sono susseguite nel corso dell’asta. L’opera del 1961 di Emilio Vedova ha raggiunto 444.300 Euro (cat. n. 1412), mentre il grande Kounellis (3,6 metri) e la „Superficie bianca“ di Enrico Castellani sono stati aggiudicati a 283.300 Euro ciascuno (cat. n. 1411, 1409).
L’opera di Robert Indiana, con la sua famosa parola-poetica „Love“ spruzzata su un frammento del muro di Berlino, ha raggiunto 151.470 Euro (cat. n. 1446) dopo una lunga serie di offerte.
Anche l’arte austriaca ha avuto il suo momento di gloria con diversi risultati di rilievo. L’opera di Max Weiler ha ottenuto 128.050 Euro (cat. n. 1414), le due opere di Arnulf Rainer 114.180 e 73.500 Euro (cat. n. 1454, 1413), mentre il divano di Franz West, della serie „12 Diwane“ ha raggiunto i 36.900 Euro.

Prezzi di rilievo per il moderno
Grande interesse per l’asta di arte moderna del 23 novembre 2011. Una sala affollata e molto attiva come anche le numerose telefonate hanno contribuito ad un intenso susseguirsi di offerte. Ottimi risultati per Joan Mirò, per Paula Modersohn-Becker, per Giorgio Morandi e per Giacomo Manzù.

Design e Jugendstil
Il prototipo „Sit-Sat“ di Massimiliano Fuksas & Doriana Mandrelli è stato aggiudicato a 67.400 Euro, mentre il divano „Woush“ di Zaha Hadid ha ottenuto 52.800 Euro nell’asta di Design del 22 novembre 2011. Sempre molto richiesti sono gli oggetti di Jean Prouvé che, con il suo „Gueridon bas“ realizzato nel 1945 ha raggiunto i 34.460 Euro.
Toplot dell’asta di Jugendstil, l’Ensemble Nr. 675 realizzato da Josef Hoffmann nel 1910: composto da 7 pezzi e prodotto da Kohn è stato aggiudicato a 29.580 Euro. Diverse offerte per il pendente con catena di Hans Bolek così come il busto in bronzo „Ophelia“ di Maurice Bouval, realizzato nel 1900.

110.760 Euro per la colomba di Mosca
Preziosi metalli hanno portato ad uno straordinario risultato per l’intera asta di argenti del 21 novembre 2011. La colomba di Mosca, 438 grammi di oro e 30,5 cm di larghezza, con stampato l’anno 1811 e probabilmente eseguita per un importante membro della ristretta cerchia dei Romanov, è stata aggiudicata a 110.760 Euro.

Prezzo eccezionale per la spilla Schratt 
Una spilla con diamanti e rubini, appartenuta all’attrice viennese Katharina Schratt, intima amica dell’Imperatore Francesco Giuseppe, è stata aggiudicata per 202.800 Euro al telefono nell’asta di gioielli del 21 novembre 2011. Il gioiello fu realizzato dalla gioielleria di corte k und k Köchert, di cui esistono due disegni eseguiti negli anni 1890-95.

29 Nov

Caravaggio a Mosca

Scritto da LEA MATTARELLA – la Repubblica

IL GENIO DEL SEICENTO CONQUISTA LA RUSSIA
Una vita breve che gli basta però a cambiare per sempre le sorti della pittura Fino al 19 febbraio il Museo Pushkin ospita ben 11 dipinti dell´artista lombardo. Si tratta di una delle più grandi mostre all´estero dedicate a Merisi


Caravaggio va in trasferta. Una formazione composta da undici capolavori si gioca la sua partita sul campo del Museo Pushkin. È la prima volta che un gruppo così consistente di opere del grande maestro lombardo viene ammirato fuori dal nostro paese. Il termine “evento” che viene utilizzato un po´ troppo di frequente per quel che riguarda le mostre d´arte, questa volta va davvero scomodato. Intanto per i musei coinvolti: tra i più prestigiosi d´Italia. Da Milano alla Sicilia, da Brera a Capodimonte, dalla Pinacoteca Capitolina alla Galleria Borghese, dal Museo Regionale di Messina alla Galleria Palatina sono partiti i gioielli di questa campagna di Russia. Alla quale ha partecipato anche la Pinacoteca Vaticana che ha mandato un pezzo forte come la Deposizione. E, come se non bastasse, persino la Chiesa di Santa Maria del Popolo si è privata di uno dei due quadri che adornano la Cappella Cerasi. Infatti, è volata a Mosca anche la Conversione di San Paolo.
Così queste 11 tappe di un viaggio attraverso il genio e la sregolatezza caravaggeschi, riescono davvero a fare capire tutta la grandezza di uno degli artisti più amati di tutti i tempi. E anche la sua singolarità, la sua incredibile modernità. Si comincia con un´opera giovanile, il Ragazzo con canestra di frutta della Galleria Borghese e si termina con il Martirio di Sant´Orsola, un´opera dipinta nel 1610 poco prima della sua prematura, drammatica e continuamente presagita, fine. Non ha ancora 40 anni quando muore mentre cerca di ritornare a Roma, dopo aver passato gli ultimi quattro anni in fuga. Una vita breve che gli basta a cambiare le sorti della pittura, a rivoluzionarne per sempre il linguaggio su un palcoscenico di un umanissimo teatro tutto contrasti di luci e ombre, redenzioni e cadute, ricerca spasmodica di verità. Qui si passa dalla luminosità, dalla fresca composizione di uva, pere, fichi tenuta in mano da un giovane che sprizza vitalità del quadro Borghese datato tra il 1593 e il 1594, al buio in cui avviene la sfida tra l´arrendevolezza determinata di Sant´Orsola e la brutalità del re degli Unni suo carnefice. In mezzo c´è un ciclone.
Proprio davanti al Martirio di Sant´Orsola si capisce quanto in Caravaggio la pittura si intrecci con l´esistenza. In questo dipinto drammatico e teatrale si affaccia il volto del pittore, in una posizione tale che pare quasi sovrapporsi al corpo morente della martire. L´episodio raccontato diventa il pretesto per un´autobiografia. Con questo primo genio maledetto l´arte e la vita si scoprono necessarie l´una all´altra. L´artista usa il suo autoritratto anche nel Martirio di San Matteo, nella Cattura di Cristo, nella Sepoltura di Santa Lucia e nella Resurrezione di Lazzaro. E poi la sua faccia, devastata, compare nel Davide e Golia che doveva aprirgli la strada per tornare a Roma. Lui si raffigura come Golia. Ma sta elargendo la sua effigie. È un modo di chiedere perdono. Spedisce l´opera a Scipione Borghese e resta in attesa della grazia. Vuole far sapere al papa di essersi pentito. E lo fa nel modo che gli è più congeniale: teatralizzando su una tela la sua storia.
Nello Stato pontificio, in effetti, sulla sua testa pesava una condanna a morte. È questa la ragione che lo spinge a lasciare la città eterna in cui aveva ricevuto moltissimi onori, ma anche tanti “rifiuti”. Gli si rimproverava di non avere abbastanza “decoro”. Prendeva i suoi modelli dalla strada, raffigurava i poveri. Roberto Longhi per la Deposizione evocava un funerale di un capo zingaro. Ma Caravaggio non voleva certamente essere dissacrante. Racconta una storia sacra dalla parte dei poveri perché era vicino alle correnti della chiesa degli umili di Borromeo. Allo stesso modo interpreta la Conversione di San Paolo: un uomo investito dalla grazia rappresentata da un chiarore diffuso. Tutto il chiaroscuro di Caravaggio, il suo scontro di oscurità e di improvvise illuminazioni sono la rappresentazione fisica dell´eterna lotta tra le tenebre del peccato e la luminosità della fede in Dio. Che Caravaggio fosse ateo e miscredente è un luogo comune costruito intorno a un personaggio vissuto pericolosamente che nel corso dei secoli è diventato una leggenda. Non è invece un´invenzione il suo carattere impetuoso e ribelle. Il fatto che fosse un attaccabrighe, che girasse armato passando dai bordelli alle osterie è storia. In una di queste notti brave nel 1606, gli capita di uccidere un uomo durante una rissa seguita a una partita al gioco della pallacorda. Da qui la condanna capitale e la fuga. A Napoli lascia questa Flagellazione che pare ambientata tra i vicoli in cui Cristo sembra illuminato da un flash che lo stacca dal quel buio che invece avvolge i suoi torturatori. Un fondo scuro è anche nella Cena in Emmaus di Brera, dove, com´è emerso dagli ultimi restauri, Caravaggio cancella un´apertura, una finestra su una vegetazione, per fermare lo sguardo, come se non volesse distrarlo dal volto dolente e assorto di Cristo intento a benedire un misero tozzo di pane. La sua pittura si fa sempre più tragica mentre la sua corsa non si placa. Raggiunge Malta da cui deve scappare ancora, va a Messina a Palermo, di nuovo a Napoli. Dove passa succede che tutti lo guardino, lo imitino. Non ha mai avuto allievo eppure fa scuola. La sua pittura si diffonde come un virus in tutta Europa. Dopo di lui niente sarà più come prima.

13 Nov

Surrealismo. La pattuglia di Breton che voleva dare una forma all´inconscio

Ultimo aggiornamento Domenica 13 Novembre 2011 08:16 Scritto da ACHILLE BONITO OLIVA – la Repubblica

Da Dalí a Miró, da Magritte fino a Picasso ed Ernst. Alla Fondazione Beyeler i capolavori del movimento

Basilea. Tanto credito prestiamo alla vita, a ciò che essa ha di più precario – la vita “reale” naturalmente – che quel credito finisce per perdersi». Così nel 1924 André Breton apriva il Primo manifesto del Surrealismo, nel quale l´arte teorizzava una strategia di avvicinamento alla vita proprio per risolverne la realtà “mancata”. Vivo e perenne rimane questo tentativo, come si desume dalla straordinaria mostra Surrealismus in Paris a cura di Philippe Büttner alla Fondazione Beyeler di Basilea fino al 29 gennaio 2012.

Breton assume e teorizza il verbo di Freud, la lezione di una letteratura risalente a Sade, di una filosofia negativa che recupera Schopenhauer e Nietzsche, di una pittura metafisica che ha in De Chirico il suo più splendente esecutore, per dare la scalata alle profondità della psiche. La mano di alcuni pittori, come Max Ernst, Salvador Dalí, Joan Miró, Magritte, Masson, Tanguy, Brauner, Matta, Bellmer, Delvaux, Oppenheim e (per un periodo) anche Picasso e si mette all´opera per fondare l´immagine di una discesa agli inferi.
La materia dell´arte surrealista è l´inconscio con la sua energia, l´immaginario che vola in tutte le direzioni, disseminato a tutte le altezze e le bassezze. L´automatismo del gesto è direttamente proporzionale all´automatismo della psiche, al moto inconsulto e involontario del profondo.
L´immaginario dunque sprigiona energia, che poi l´arte si incarica di condensare diversamente secondo le differenze che separano la diversa creatività degli artisti. Come dice Breton, il Surrealismo apre una doppia strada, al simbolico e al materico. Dispiega procedimenti e strategie dell´immagine che approdano a risultati complementari, tutti dettati dall´impulso a prendere forma della disarticolata surrealtà: esemplare il Paysage au coq (1927) di Joan Miró.
Per fare affiorare il rimosso è necessario grattarsi sotto la pelle. E grattare è letteralmente ciò che fa Ernst, scoprendo per l´arte ciò che il gioco infantile pratica mediante il frottage, una maniera di strofinare l´anima dell´oggetto per farla affiorare come ombra e immagine sublimale, come nella sua La grande forêt (1927). Ma le vie dei surrealisti sono infinite, e ogni artista del gruppo adotta una sua personale strategia figurativa.
In Dalí e Miró l´immagine esprime la doppia valenza di portatrice di simbolo e di deterrente materico. L´automatismo funziona sia come associazione libera e aperta di dati che si potenziano reciprocamente, sia come prodotto della casualità e della crescita spontanea. Vedi in Dalí Rêve causé par le vol d´une abeille autour d´une pomme-grenade, une seconde avant l´evil (1944). Più mentale è l´opera di Magritte (L´empire des lumieres, 1962) nel quale l´automatismo psichico fonda un tipo di immagine raffreddata sulla soglia di una rivelazione che mette a nudo i paradossi del linguaggio. Lo conferma anche Delvaux con la sua Aurore (1937).
In Tanguy (Les jeux nouveaux, 1940) e Masson (Métamorphose des amants, 1938) la materia si organizza al livello più basso, l´immaginario vola radente alla sostanza organica assumendo i travestimenti della stessa materia pittorica fino a identificarsi con essa. Con il Picasso di Le sauvetage (1932) il quadro diventa invece il campo d´azione di una continua metamorfosi, di una proliferazione che non significa soltanto crescita ma anche disseminazione mobile e dislocazione aperta di segni.
Victor Brauner organizza il simbolico intorno ad archetipi visivi che non tendono alla stasi ma rimandano alla ciclicità e alla ambigua consistenza e coesistenza di immagini che si raddoppiano oppure si danno l´una dentro l´atra: Les siecles reculon comme des ouragans (1932). Sebastian e Matta e Wilfredo Lam riescono a spostare la geometria dal suo “luogo comune” per spogliarla e consegnarla alla prorompenza di forze naturali e cosmiche che ne fanno esplodere la capacità di misura.
I surrealisti hanno con l´inconscio un rapporto quasi colloquiale, per il tramite di tecniche elementari che riducono la puntigliosa complessità del procedimento tradizionale: essi vogliono dare spazio direttamente all´incedere del caso e della disinvolta eccedenza delle pulsioni interne.
Per definizione il Surrealismo è esuberante, è un gesto affermativo che ristabilisce il primato del fantasma contro l´evidenza statica delle cose: un fantasma che si insinua nei mille modi del linguaggio, in forma germinale, larvale oppure sotto le spoglie di un´immagine perturbante.
Le tecniche automatiche sono gli irriducibili tramiti, gli scandagli che vanno a pescare proprio nel torbido nell´opera di Max Ernst: Fleurs de neige (1929). Il frottage e il dripping, grattare e sgocciolare, costituiscono la materializzazione di tale necessità tecnica, l´azzeramento di ogni complessità a favore di movimenti elementari che privilegiano l´autonomia della mano rispetto all´occhio, l´indipendenza dell´opera rispetto alla vigile accortezza dell´artista.

13 Nov

Elogio di una stagione «venale» che ama il nuovo anche se è brutto

Scritto da GILLO DORFLES – Corriere della Sera

Perché al giorno d’oggi bisogna essere disposti ad accettare forme creative di avanguardia che ieri ci sembravano aliene

Molte delle più recenti manifestazioni dell’arte contemporanea, dall’«arte povera» italiana alla ormai antica epopea della Pop, sino alle molteplici versioni dell’arte concettuale, alle installazioni, alla transavanguardia, alle performance, hanno presentato opere che non rispondono più a quelle costanti che ancora le «avanguardie storiche» seguivano.
Oggi assistiamo a delle brusche virate: dal figurativo all’astratto (e viceversa) dal concettuale al dozzinale, dal privato al «mercato». Il che non significa né disprezzo né sottovalutazione di quanto l’arte odierna ci offre, ma piuttosto necessita di una valutazione dei rapporti tra creazione artistica e situazione socioeconomica, che appare più diretta (e più pericolosa) rispetto all’immediato passato. Ho detto «pericolosa» senza affatto voler svalutare la qualità di molte realizzazioni contemporanee; anzi con la stessa parola «valore» si dovrebbe tener conto non solo del valore estetico, ma di quello economico: il che purtroppo avviene soprattutto a favore del secondo. In altre parole: difficilmente possiamo scindere la valutazione di un grande maestro contemporaneo da quella che è la sua quotazione sul mercato, che ovviamente dipende dal genere dei rapporti odierni tra marketing e attività artistica. Il che non significa che l’opera debba sempre corrispondere alla sua valorizzazione «venale» (che potrà emergere anche solo «postuma»: con scarsa soddisfazione dell’artista!). Il che significa oltretutto che l’alone (o vogliamo addirittura definirla alla Benjamin «l’aura») del capolavoro può esistere anche se «sporcata» dai «denari» di qualche «Giuda artistico».
Non vorrei che si giudicasse il mio discorso come eccessivamente banale e antiestetico, ma è soltanto la volontà di chiarezza che mi spinge a tener conto di alcuni dati che un tempo non erano palesi: basterebbero le recenti mostre di «arte povera» a imporre una visione dell’arte che non è mai stata applicata in passato.
Questo fatto, se da un lato può condurre a facili equivoci circa il limite entro cui considerare lo «status» di un’opera; dall’altro, ci permette di apprezzare alcune situazioni e alcuni fenomeni che mai prima d’oggi erano entrati nell’universo artistico, e di tener conto che, non solo un determinato materiale «improprio», ma l’idea che ne è stata alla base, può essere la vera discriminante per la valutazione d’una creazione originale. Ma, al di là di momenti estremi, di trovate assurde, di stratagemmi aleatori, continuano per fortuna, e continueranno, a popolare l’universo artistico moltissime opere dove il linguaggio non è criptico senza essere desueto. Basterebbero solo i nomi di un Kiefer e di un Chillida, di un Kapoor e di un Pomodoro, ma anche quelli di un Cattelan e di una Vanessa Beecroft e, perché no, di una Cindy Sherman e di una Bourgeois (e ho fatto a bella posta nomi arcinoti), per dirci che esiste una continuità artistica anche quando alcune improvvise obnubilazioni — peraltro feconde — intervengono ad oscurarla temporaneamente.
Credo che al giorno d’oggi dovremmo essere pronti ad accettare numerose forme creative che ieri ci sembravano aliene; mentre dobbiamo essere altrettanto pronti a biasimare tutto ciò che di stantio e di obsoleto si tende a riproporre. E questa posizione ci convince che la nostra «stagione» attuale è forse più «robusta» di molte di quelle (del passato) che non seppero «liberarsi» in tempo delle scorie ormai desuete.
Certo alle volte il «nuovo» può non essere «piacevole» (già Vasari ce lo insegnava a proposito del gotico); e, del pari, il «piacevole» può non essere «nuovo»; sicché dovremo imparare ad accettare le nuove correnti artistiche anche se non sempre sono edonistiche e, del pari, a rifiutare tutto quanto è obsoleto ed entropizzato, anche se ha l’apparenza del gradevole.

11 Nov

Quanto costa l’arte di un’altra vita

Scritto da FRANCESCA BONAZZOLI – Corriere della Sera

Shukin e Morozov, i miliardari che sognarono con Picasso e Matisse

«A rrivati a Parigi scendevano dal treno ed erano già nelle botteghe; davanti ai loro occhi sfilavano tele come episodi di un film, poi tornavano a Mosca senza aver visto altro». Così il critico e giornalista francese Félix Fénéon descriveva due facoltosi collezionisti russi, gli imprenditori tessili Sergei Shukin (1854-1936) e Ivan Morozov (1871-1921). Incuranti delle critiche e persino della derisione dei loro contemporanei benpensanti, spendevano grandi cifre per accumulare quadri degli artisti più radicali dell’avanguardia francese. Erano considerati degli eccentrici, personaggi che volevano mostrarsi diversi e originali, al pari dei pittori da loro amati, a cominciare da Picasso da cui Shukin aveva acquistato cinquanta tele. Shukin era senz’altro più invischiato di Morozov nella «pazzia» collezionistica che lo portò a possedere, fra gli altri, sedici Gauguin e trentasette Matisse. Con quest’ultimo il mecenate russo stabilì una solida amicizia: una costante di comportamento, questa, comune a tutti i grandi collezionisti che traggono gratificazione dalla famigliarità con i geni che ammirano. Anche oggi, per esempio, il multimiliardario Dakis Joannou ama portare fra le isole greche i suoi artisti sullo yacht decorato dall’amico Jeff Koons, non diversamente da come faceva Vincenzo Gonzaga che volle con sé a Genova il suo pittore Rubens con cui partecipò a una memorabile festa organizzata da Nicolò Pallavicino.
Il desiderio di amicizia con gli artisti spesso più trasgressivi da parte di questi miliardari, per lo più imprenditori di gran successo come Shukin, la cui competenza nei prodotti tessili e negli affari gli era valsa il soprannome di «ministro del commercio», ha qualcosa dell’invidia per una vita più libera, squattrinata e sregolata. Una specie di ribaltamento del tavolo delle regole per interposta persona. La stessa propensione che sembra di ritrovare in François Pinault, magnate di una delle maggiori multinazionali del lusso: ingabbiato nelle rigide regole di consigli di amministrazione e indici di borsa, libera la sua energia volando col jet privato da un vernissage all’altro dei suoi artisti pupilli, i più «strani» e controversi del mondo dell’arte. Non diversamente da come facevano i Giustiniani, i banchieri dominatori dei mercati finanziari del Seicento, quando compravano i quadri dello scandaloso Caravaggio per il loro palazzo romano. O come Agostino Chigi, il più ricco banchiere d’Europa nel Cinquecento, che consentì a Raffaello, che gli decorava la villa Farnesina, di lavorare vivendo scandalosamente sotto quelle mura con l’amante, la Fornarina.
Quel che piace a questi miliardari collezionisti, tanto a Shukin come oggi a Charles Saatchi, è la contiguità con l’eccentricità, il gusto di passare per incompresi, per compratori di abbagli e paccottiglia, per poi dimostrare al mondo che loro, con l’arte, come con gli affari, vedono invece più lontano degli altri. È il piacere di creare tendenze, di anticipare e staccare tutti gli altri come fece Shukin che, quando ricevette da Matisse i due pannelli de «La danza e La musica» per la casa di Mosca, rimase perplesso, ma scrisse al pittore queste parole: «Nel complesso li trovo interessanti e spero che un giorno inizierò ad amarli. Di lei mi fido ciecamente. Il pubblico è contro di lei, ma il futuro le è a favore». È proprio questo buttarsi di pancia, tale istinto di gettare il cuore avanti, oltre la prudenza del ben pensare, che fa il grande collezionista. La capacità di vedere subito quello che gli altri impareranno a vedere col tempo. È un magnetismo che li spinge verso i nomi giusti, verso gli artisti più stravaganti senza temerne la radicalità e l’incomprensibilità, anzi lasciandosene invischiare come in una storia d’amore imprudente che regala loro il brivido del rischio. Lo storico dell’arte non ha questo stesso occhio: egli apprezza un artista quando può interpretarlo e incasellarlo nella sequenza storiografica. Il collezionista, invece, lo apprezza perché in quell’artista vede riflessi la propria inclinazione per la follia e il talento della ribellione.

   

10 Nov

Van Gogh & Gauguin a Genova

Scritto da LEA MATTARELLA – la Repubblica

Il Viaggio, il dolore, la bellezza di due grandi artisti
Al Palazzo Ducale di Genova sono esposti ottanta capolavori Cuore del progetto è l´opera chiave del maestro francese prestata solo di rado da Boston Anche per il pittore olandese c´è un dipinto-evento: “Campo di grano con covoni”
Un paio di scarpe deformate, logore, sfinite. Vincent Van Gogh le ha indossate nel suo viaggio, in gran parte a piedi, dall´Olanda al Belgio. E poi le ha dipinte, nel 1886 dopo aver raggiunto Parigi, in un quadro pieno di pathos, dono prezioso e carico di significato per Paul Gauguin che ne parla in uno scritto del 1894. Inizia così, con una tela simbolica e struggente, la mostra Van Gogh e il viaggio di Gauguin, aperta a Genova a Palazzo Ducale (fino al 15 aprile), curata da Marco Goldin e accompagnata da un suo libro pubblicato da Linea d´ombra.
Questo dipinto, metafora di un cammino nello stesso tempo fisico e interiore, è allestito in maniera sorprendente. Accoglie infatti il visitatore in un ambiente in cui è ricostruita la celebre camera di Van Gogh ad Arles dove, in un cortocircuito prima ancora emotivo che visivo, è posto accanto a due paesaggi di Giorgio Morandi del 1943. «Il viaggio – spiega Goldin – parte sempre da una stanza. Ma ci sono due strade possibili e io le ho volute indicare immediatamente entrambe. La prima è quella di Van Gogh che si sposta da un luogo all´altro o che cammina nervosamente nella sua camera di solitudine, calzando quelle stesse, struggenti scarpe con cui ha intrapreso un cammino che poi si rivelerà nel colore e nella luce. La seconda è quella di Morandi che resta tutta la vita nello stesso posto e non ha neanche bisogno di uscire perché dipinge ciò che vede dalla sua finestra con il cannocchiale. La sua è un´avventura mentale, sottilmente di sguardi. Ma è pur sempre un viaggio».
Cuore di questa mostra che attraversa l´Europa e l´America, il XIX e il XX secolo, è un´opera chiave di Paul Gauguin, uno dei capolavori della pittura di tutti i tempi: Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Un dipinto che ha comunque viaggiato molto poco: il Museum of Fine Arts di Boston, dov´è conservato, lo ha concesso in prestito soltanto quattro volte in un secolo. E solo due in Europa. Quindi l´arrivo di questo monumentale quadro che si estende per quasi 4 metri di larghezza, è un evento che già di per sé varrebbe una visita alla mostra. E che rivela, fin negli interrogativi suggeriti dal titolo e dichiarati da Gauguin in una scritta sul lato sinistro in alto, il significato più profondo di questa rassegna: il viaggio è sempre dentro di sé. E non importa se si attraversi l´Oceano, o una strada, o un pensiero.
Per mostrare tutta la forza visiva di quest´opera nella sala più grande del palazzo si è ricostruita, con un imponente effetto teatrale, la capanna di Gauguin a Tahiti come ci è stata tramandata da alcune fotografie scattate nel 1897. È qui e proprio in quell´anno che Gauguin lo ha dipinto, durante il suo secondo soggiorno – o la sua seconda fuga? – nei mari del Sud.
Sappiamo che nessun artista più di lui incarna la figura del viaggiatore che esplora luoghi lontani per ritrovare un´armonia altrimenti perduta, una riappacificazione con la natura, con il suo io primordiale e primitivo e per questo autentico, inviolato. «Sono un selvaggio, un lupo, senza collare, nella foresta» diceva di sé. E questo quadro doveva essere una specie di testamento, «il sontuoso mantello dei miei sogni». Gauguin lo realizza in un mese di lavoro febbrile che va avanti giorno e notte. Ha infatti saputo della morte della sua amata figlia Aline, è malato, povero e infelice. Vuole togliersi la vita. Prima di farlo però ha intenzione di realizzare il suo capolavoro. È questo: enigmatico, pieno di simboli, costruito come un fregio, dove si incontrano bambini addormentati, figure che si confidano pensieri, idoli, vecchie, animali, vegetazione. Gauguin confesserà all´amico Daniel de Monfreid: «Credo che non solamente questa tela superi in valore tutte le precedenti, ma soprattutto che io non ne farò mai una migliore o che anche solo le si avvicini. Qui ci ho messo, prima di morire, tutta la mia energia, una tale passione dolorosa in delle circostanze terribili, e una visione talmente netta, senza correzioni, che l´aspetto frettoloso scompare e ne emerge la vita». Il tentativo di suicidio dell´artista andrà fallito. Sopravviverà fino al 1903 e di opere ne farà altre. Celebri e bellissime. Ma come aveva preconizzato nessuna raggiungerà mai la potenza espressiva di questo superba tela orizzontale.
La dimensione spirituale del viaggio così ben interpretata dal quadro-culto di Gauguin, scandisce con sicurezza le tappe della mostra. Ma è davvero evidente quando ci si imbatte nei quaranta Van Gogh raccolti per questa occasione, 25 dipinti e 15 disegni a essi collegati, provenienti in gran parte dal Van Gogh Museum di Amsterdam e dal Kröller Müller Museum di Otterlo. Com´è noto un pezzetto del loro cammino l´artista olandese e Gauguin lo hanno fatto insieme. Pochi mesi di convivenza nel 1888 ad Arles, nel Sud della Francia, con un finale tragico.
Anche per Van Gogh la mostra si distingue per un dipinto-evento. Si tratta di quel Campo di grano con covoni dipinto ad Auvers poche settimane prima del suicidio. Questa volta riuscito. Un´opera che a causa della sua fragilità non era esposta al pubblico da più di 40 anni e che per l´occasione è stata sottoposta a un accurato restauro. «Ho voluto rappresentare il suo passaggio dall´oscurità alla luce», dice ancora Goldin parlando della scelta delle opere di Van Gogh. Si parte infatti dal buio appena interrotto dall´apertura di una finestra del Tessitore al telaio del 1884 fino alla luminosità dei frutteti, dei campi di grano, delle barche a Saintes-Maries-de-la-Mer, dei vigneti, gli ulivi, l´immensità del sole che sembra proteggere il Seminatore. Con la stessa pennellata febbrile, nervosa, carica di espressività, Van Gogh ritrae se stesso al cavalletto. Fino alla fine Van Gogh sarà capace di creare allarme e inquietudine nelle cose più semplici: alberi, orizzonti, paesaggi. E quel campo su cui si agitano i corvi sembra dare forma a un chiaro presagio di morte.

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