10 Apr

Artisti e critici sospesi tra memorie disperse

Scritto da Michele Dantini – il manifesto

A dispetto di silenzi e di rigidità, il dibattito sull’arte contemporanea italiana converge per la prima volta da anni sulla necessità di una storiografia «in presenza delle opere» Potremmo periodizzare l’arte italiana contemporanea più recente stabilendo che a caratterizzare gli ultimi anni sono stati una svolta «politicistica» nelle pratiche e il dibattito sulle crescenti difficoltà di affermazione internazionale degli artisti più giovani.

La generazione dei trenta-quarantenni ha ritrovato interesse per la storia nazionale, la compulsazione di archivi sociali e politici, la ricomposizione di memorie dolorose, tacitate o disperse. A fronte di istanze radicali di politicizzazione, il mercato dell’arte, finanziarizzato e ubiquo, oppone formidabili ostacoli alla connessione tra produzione estetica e ricerca, premiando orientamenti desituati.
Circolano interpretazioni diverse della ridotta capacità di competizione degli artisti italiani nel contesto globale. Si contesta l’acquiescenza di critici e curatori o si adducono specificità antropologiche, generiche quanto implausibili. Esistono forse circostanze fattuali, storiografiche e istituzionali: il deficit didattico e di narrazioni storico-artistiche qualificate e indipendenti. Sono da troppo tempo in auge versioni ufficiali, ripetitive e dogmatiche, della storia artistica italiana contemporanea; storie che non spiegano più e sembrano fuorviare. «Quanto accade in arte attorno al 1968 non è stato ancora chiarito»: accolta alla lettera, candidamente, l’affermazione di Celant, datata 1981, non suona forse stupefacente?
Identikit dei seniores
Le retrospettive di De Dominicis e Pistoletto tenutesi al Maxxi tra 2010 e 2011, preziose perché ampie nella selezione delle opere, tuttavia insufficientemente accompagnate da indagini scientifiche e troppo vincolate a autorizzazioni familiari o di fondazione; e le innumerevoli mostre sull’arte povera in programma tra 2011 e 2012 esemplificano il punto. Prevalgono voci e prospettive consolidate, detenute pressoché in monopolio. Assistiamo al paradosso di artisti, critici e curatori sovraesposti e al tempo stesso poco conosciuti, mai davvero restituiti alla discussione pubblica attraverso e oltre le mitografie tramandate. Eppure svelare costellazioni di rapporti e avviare processi di storicizzazione dei seniores sembrerebbe il modo migliore per riconoscere un’eredità culturale e contribuire a una maggiore conoscenza delle sue durevoli necessità storiche e sociali.
L’enfasi su idiosincrasia, ornamento, dismisura, moda, capriccio, stabilita per l’arte italiana post-Cattelan da fundraiser abili e ferocemente conformisti come Massimiliano Gioni (curatore della prossima Biennale di Venezia) o rilanciata da mostre come Sindrome Italiana al Magasin di Grenoble (2010-2011), risolve forse nell’attimo l’acuta impasse attuale. Non può tuttavia consolidare nei più esigenti osservatori internazionali la certezza di una scena-paese al di là delle opere, di un’arte che presenti tratti nazionali condivisi e sia determinata a confrontarsi criticamente e in modo autorevole con la tradizione recente.
Accade qualcosa che difficilmente si dà in altri contesti avanzati: e che ha come prima causa il disinvestimento pubblico da musei, università, centri di ricerca. La storiografia viene a coincidere con la testimonianza autobiografica, l’interpretazione con il testo promozionale o l’intervista. Per deficit di istituzioni formative e espositive qualificate, pronte a intrecciare ricerca e produzione, in Italia regna una concezione privatistica e patrimoniale della memoria. La vicenda Triple Candie ad Artissima 2011 è rivelativa. Un giovane curatore invita un collettivo di artisti americani a produrre un progetto critico sull’arte povera. Timorosamente esterofilo nelle scelte curatoriali, assai debole sotto il profilo visivo e tuttavia non privo di ironia, con caricature di opere celebri e la messa in discussione della leggenda celantiana, il progetto è rifiutato a pochi giorni dall’inaugurazione: non, pare, per i suoi limiti interni ma per le possibili ritorsioni del patriarcato poverista.
Centro e periferia
L’opacità della tradizione italiana recente ai nostri stessi occhi è tale che le interpretazioni più accreditate dell’arte povera o della transavanguardia, cioè dei movimenti artistici italiani affermatisi internazionalmente negli ultimi decenni, sono prodotte da comunità di studio angloamericane. Ne è un esempio il numero di October (rivista di storia dell’arte contemporanea del Mit) dedicato all’arte italiana del dopoguerra (primavera 2008): non pochi interventi hanno il merito di rilanciare interrogativi o istanze di ricerca ma non mancano sviste o semplificazioni in chiave rudemente folklorica. In Italia ci sono esempi di inedita vivacità critica e storiografica, particolarmente tra le giovani generazioni, e si vanno producendo innovazioni interpretative o di metodo, ad esempio con la riconsiderazione dei rapporti tra storia delle immagini e storia dei contesti, la discussione critica della pubblicistica consolidata, il nuovo credito concesso a critici già collocati a margine, come Carla Lonzi o Paolo Fossati. Sinora non esiste però una narrazione articolata e complessa della storia dell’arte postbellica che riesca a intrecciare storia delle immagini, storia della critica e storia sociale; acutezza filologica e radicalità politica; e torni a avvicinare opere e famiglie di opere che ideologie o vicissitudini collezionistiche e di mercato hanno diviso.
I nuclei collezionistici più qualificati, omogenei e accessibili, poveristici, concettuali o altro, sono per lo più all’estero: in America, Germania, Svizzera. In decenni in cui l’agenda postcoloniale ha modellato pratiche interpretative e strategie di sovranità storiografica, il Centro scrive tuttora di una Periferia, quella italiana, che non riesce a elaborare in modo riflessivo il trauma della propria minoritarietà linguistica né a trasporlo in iniziativa culturale di rilievo sovranazionale. È inevitabile che da parte di artisti, critici, curatori early career vi sia difficoltà a rintracciare precocemente una credibile genealogia professionale da cui muovere; a acquisire intimità con un’agenda nativa di temi e problemi. Sprovvisti di efficaci criteri di scelta, si è esposti alla proliferazione di highlights e discorsi secondari di cui sono disseminate blog, fanzine, riviste, portali. Prevalgono percorsi individuali e in larga parte casuali, da autodidatti: non sempre è un vantaggio.
Istinti prepotenti
La questione storiografica si intreccia intimamente alla questione più ampia della riappropriazione di tecniche e saperi da parte delle generazioni «precarie», le attuali. Orientarsi in territori culturali dispiegati ma non frammentari, o disporre agevolmente di pratiche e «dizionari»: sono atti immaginativi orientati non a ciò che è stato ma a ciò che sarà. «Più che stabilire continuità», scrive Anna Bravo, «la funzione elettiva degli alberi genealogici è mostrare i modelli a cui si rivolge un fenomeno nuovo; i modelli che ignora, quelli che inventa, e gli effetti che le scelte hanno sull’autoimmagine, la memoria, la storia». Desideriamo muoverci abilmente e senza impaccio etnografico? Non possiamo farlo se ci affidiamo a logore versioni autocelebrative o ci conosciamo attraverso le narrazioni di storiografi imperiali che con pieno merito hanno disposto e interpretato i documenti, organizzato l’archivio, fatta scrupolosa manutenzione dei «significati». Una riflessione critico-teorica acquisisce oggi status globale solo se situata, pronta a riformulare in modo efficace il «nativo» e il «locale».
Curata da Francesco Bonami, la mostra Italics (2008, Palazzo Grassi) ha contribuito a avviare una riflessione sulla «specificità» della scena artistica italiana contemporanea, sia pure in modo a tratti litigioso, reticente o confuso. Da circa quattro decenni, questa la tesi, l’arte italiana non riesce a imporsi, a produrre opere e interventi avvincenti perché corali, con scenari collettivi ben costruiti, un romanzo, un’epopea. Perché, si è indotti a chiedersi? L’arte italiana appare connotata dal distacco dalla sfera pubblica almeno dalla seconda metà degli anni Ottanta, se non già dal biennio «caldo» 1968-1969: le ragioni sono storiche e politiche prima che culturali. Il sistema dell’arte italiano è sorretto in misura pressoché esclusiva da capitali privati, in larga parte provenienti dall’industria del design e della moda. È quasi inevitabile, in assenza di un’efficace committenza pubblica e di patronage dedicato, che temi o orientamenti «civili» siano trascurati.
«L’arte italiana», sibila Bonami, «è stata violentata dal fondamentalismo politico che ne ha soppresso gli istinti internazionali più forti». Nutriamo ragionevoli dubbi sul fatto che Argan, obiettivo polemico di Bonami, sia all’origine delle difficoltà odierne. Ma volgiamo per un attimo in domanda la recriminazione. Che cosa si attende, la platea globale, da un artista italiano, e quali sono «gli istinti internazionali più forti»? Emerge, da Italics, una prospettiva frammentaria e curiosamente restaurativa, formulata per accenni prudenti; prospettiva all’origine di scelte curatoriali successive, ad esempio nei Padiglioni italiani delle due ultime Biennali di Venezia, nel 2009 e nel 2011, tanto più discutibili sotto profili estetici, tecnici e professionali del progetto di Bonami, pure pronti a accoglierne l’appello populista e identitario e rilanciare l’argomento di una «vocazione» profonda dell’arte italiana. «La rimozione forzata, negli anni Settanta, di pittura e religione», biasima Bonami, è «il trauma di una cultura che anziché cercare nella propria specifica intraducibilità l’occasione per diventare universale, ha preferito diventare introversa, finendo per parlare a se stessa». Sul finire degli anni Settanta, con il ritorno alla pittura, si poteva infine sperare «in un recupero innovativo… Ma anziché sviluppare l’idea di un luogo, l’Italia, come fabbrica di genialità internazionale, (si) è ripiegati sulla catastrofica idea del genius loci».
Non ha importanza, nel caso specifico, cogliere l’acerba polemica di Bonami con Bonito Oliva, quanto misurare il senso e perfino la paradossale vicinanza di posizioni peraltro aspramente conflittuali sul mercato della curatela. Il curatore di Italics, responsabile di istituzioni influenti e disparate, al centro di una densa rete di rapporti internazionali, non dismette la prospettiva in sostanza neofolklorica (o «irrazional-popolare», come lui stesso la definisce) che si consolida tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Semplicemente chiede di giocarla con maggiore scaltrezza cosmopolita, malizia negoziale e attitudini brillantemente glocal. Non solo Totò, in altre parole, ma pure Dalì. Sullo sfondo della polemica antimodernista corre l’idea, parrebbe un po’ alla Brandi, di una fedeltà profonda, «antropologica», della cultura figurativa italiana all’immagine, intesa ambiguamente sia in senso ludico che cultuale.
Colpiscono le analogie tra Bonami e Cattelan, l’artista più vicino al curatore. Italics ci appare di fatto come una sorta di cristallizzazione curatoriale della Nona Ora di Cattelan, scultura in lattice, cera e tessuto raffigurante papa Giovanni Paolo II colpito da un meteorite. Presentata nel 1999 alla Royal Academy di Londra in occasione della mostra Apocalypse e battuta due anni dopo da Christie’s alla cifra record di 886 mila dollari, la scultura costituisce sotto il profilo commerciale l’inatteso, deflagrante successo di un artista italiano nel contesto del sistema internazionale dell’arte. Dolente e lussuosa al tempo stesso, l’immagine del papa conquista la comunità angloamericana: congiunge ambiguamente liturgia e glamour pubblicitario, enigma del martirio e retoriche visuali da set. Può apparire come una professione di fede, come l’autoritratto en travesti di un artista impegnato in un difficile negoziato tra Centro e Periferia; oppure, all’opposto, come l’astuta dilapidazione in chiave etnografica, sulla piazza metropolitana, di un’identità millenaria.
Le due rive dell’Atlantico
Vogliamo esemplificazioni più brutali della subalternità del mercato italiano dell’arte contemporanea al capitale internazionale, in particolare alla comunità angloamericana? Bene. È in corso, nella sede newyorkese della galleria Haunch of Venison, Afro Burri Fontana, mostra che si propone di promuovere negli Stati Uniti il modernismo italiano colto nei suoi pretesi apici (fino al 28 aprile). Per farlo la curatrice, Elena Geuna, curva in senso adulatorio la storia dell’arte italiana. L’interesse storico degli artisti esposti, apprendiamo, risiede nel loro «intenso scambio interculturale con gli Stati Uniti» – affermazione, questa, del tutto fallace sul piano storiografico e risibile nello scrupolo di correttezza politica. Che nelle opere di Burri, dalle Muffe ai Sacchi a Ferri, si depositi una caustica riflessione politica sul dopoguerra italiano e sul processo di ricostruzione democratica; o che l’attività di Fontana al tempo dei Buchi e Tagli sia accompagnata da costanti inquietudini sul mutato equilibrio geopolitico e culturale del pianeta: questo sembra non interessare Geuna oppure costituisce motivo di imbarazzo alla sua sbrigativa agenda commerciale. È dunque taciuto. Sarebbe stato sconveniente proporre una mostra sulla complessità tutt’altro che pacificata dei rapporti tra Italia e Usa negli anni Cinquanta e Sessanta? Non sappiamo. È tuttavia rilevante osservare che il maggior titolo di Geuna sembra essere quello dell’amicizia con François Pinault, proprietario di Christie’s e dunque della stessa Haunch of Venison. Già nell’organico di Sotheby’s Londra, in seguito curatrice di mostre come la retrospettiva di Pierre & Gilles alla seconda Biennale di Mosca (2007), Jeff Koons a Versailles (2008) e Lucio Fontana: Luce e Colore (sic) al Palazzo Ducale di Genova (2008), Geuna appare un’esecutrice elettiva quanto discreta dell’attuale disegno di commodification del modernismo italiano nel contesto globale.
Nel 1968 Paolini produce un fotocollage dal titolo Autoritratto. Malgrado il titolo, l’immagine non mostra il volto dell’artista, piuttosto la comunità amicale e degli affini. Lonzi è raffigurata in primo piano con Fontana e il Doganiere. Scorgiamo Boetti, Festa, Fabro, Consagra. E ancora: Corrado Levi, Anna Piva, Marisa Volpi, Pistoi, Argan, Calvesi. Le distinzioni di ruolo e cerchie professionali, pure presenti, non si sono ancora rivelate distruttive. A distanza di pochi mesi, il dibattito su statuto e ruolo sociale della critica porterà, in Italia, a distaccare curatorship e scrittura, organizzazione e interpretazione con argomenti che appaiono retrospettivamente non di rado sommari o strumentali.
Cambiamenti in corso
La discussione sull’arte italiana contemporanea privilegia oggi gli anni Sessanta e Settanta. Tralascia in larga parte di indagare i decenni successivi o di esaminare criticamente le più significative posizioni critiche e curatoriali. Si interpreta l’Arte povera come «arte politica» tout court, riconoscendo importanza cruciale (forse eccessiva?) a Pistoletto. Emerge, tra molte semplificazioni, un elemento che consideriamo positivo: per la prima volta dalla stagione dei movimenti (forse addirittura dal dopoguerra) è condivisa la necessità di storiografie costruite «in presenza delle opere» (la citazione è da Longhi). Si presenta dunque l’opportunità di aprire a una filologia tutt’altro che repertoriale, al contrario: politica e immaginativa, praticata nei pressi di studi culturali e sociologia della cultura (di cui appare dispositivo metodologico preliminare), disponibile infine a provarsi sul piano dei processi culturali in divenire.

 

06 Apr

AVANGUARDIE RUSSE IN MOSTRA ALL’ARA PACIS

Scritto da il manifesto

Settanta opere dei maggiori artisti russi del Novecento, da Malevic a Kandinkskij, da Chagall a Larionov e alla Goncharova, sono in mostra da ieri e fino al 2 settembre, all’Ara Pacis di Roma.

Dopo una prima tappa a Palermo, l’esposizione – curata da Victoria Zubravskaya – arriva nella capitale arricchita di sette nuove opere, con alcuni inediti per l’Italia come «Lo spazzino e gli uccelli» di Chagall. La mostra – «Avanguardie russe» il titolo – inaugura tra l’altro i nuovi spazi espositivi al piano terreno del complesso museale, che in questo modo raddoppia la superficie disponibile. A seguito dei lavori, infatti, cambia l’allestimento dell’Ara Pacis, i cui reperti archeologici sono stati spostati al primo piano, dove sono visibili anche il plastico dell’antico Campo Marzio settentrionale insieme ad apparati multimediali sulla storia del monumento fino ai nostri giorni.

17 Mar

Riuniti a Milano i quattro Bruegel

Ultimo aggiornamento Sabato 17 Marzo 2012 08:15 Scritto da PIERLUIGI PANZA – CORRIERE DELLA SERA

Per la prima volta insieme da quando Napoleone li requisì

Dopo più di 200 anni i Quattro elementi di Jan Bruegel il Vecchio — figlio di Pieter e padre di Jan il Giovane — tornano tutti insieme a casa. Dal 27 marzo saranno esposti alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano, che ne possiede permanentemente due («Acqua» e «Fuoco») mentre gli altri due («Terra» e «Aria») sono finiti a Parigi, dove li spedì Napoleone nel maggio 1796. A dire il vero Napoleone li requisì tutti e quattro; ma nel corso delle restituzioni post Congresso di Vienna due tornarono grazie all’impegno del Canova. Perché, se fosse stato per il generale austriaco che gli Asburgo mandarono al tavolo delle trattative, non sarebbero tornati nemmeno quelli. Ora non è più tempo di restituzioni ma di scambi temporanei incrociati tra musei: per riaverne due in mostra (sono già arrivati a Milano) abbiamo prestato al Louvre la Sacra famiglia del Luini eseguita sul cartone di Leonardo (e altro).

Prima che tornassero per questa mostra dedicata a loro («Rizomata. Il ritorno di Bruegel a Milano» a cura di Marco Navoni, arriverà in prestito dal Louvre anche il Ritratto di Francesco I di Tiziano), i Quattro elementi avevano casa a Milano perché Jan Bruegel (che soggiornò in Italia tra il 1592 e il 1596) fu pittore del cardinal Federico Borromeo. «I due si erano conosciuti a Roma, ma i dipinti vennero commissionati al pittore successivamente, quando Federico era già arcivescovo di Milano e lui (noto per i suoi dipinti di fiori) era tornato nelle native Fiandre», racconta monsignor Navoni. «Gli furono ben pagati e finirono nella pinacoteca. C’è molta corrispondenza tra i due, che ben racconta le trattative». Poi Napoleone li requisì insieme al Codice Atlantico di Leonardo e al manoscritto con le opere di Virgilio annotate dal Petrarca.
Quattro elementi di Jan Bruegel, figlio di un pittore in odore di alchimia, sono delle vere e proprie enciclopedie ricche di elementi disposti secondo schemi allegorici e un ordine che seguiva i metodi dell’Arte della memoria, insegnata allora dai filosofi. E alla luce di queste discipline scomparse andrebbero interpretati.
Dipinti in età abbastanza matura, a partire dal 1608 (Bruegel nacque a Bruxelles nel 1568 e morì ad Anversa nel 1625) sono olî su rame piccoli (cm. 46×66) ma straordinariamente particolareggiati. Il più impressionante è forse l’allegoria del «Fuoco», nel quale l’elemento è evidenziato nell’enorme incendio ma, come messo in evidenza dallo stesso cardinal Federico nel suo commento, sviluppato attraverso la rappresentazione di un’enorme officina metallurgica dove gli operai (che egli definisce «ciclopi») sono al lavoro per produrre un’enorme quantità di oggetti come armature, cristallerie, brocche, utensili domestici e strumenti da laboratorio tutti con valenza allegorica ed enciclopedica. C’è anche un lampadario con aquila bicefala, sei fiammelle di cui una sola accesa…
L’Allegoria della terra mostra in primo piano il leone, il lupo e il pavone, animali con vari significati allegorici, ambientati in una sorta di Paradiso Terrestre (sullo sfondo ci sono anche un Adamo ed Eva con Dio che mostra l’Eden): la scena illustra gli animali in perfetta armonia, cosa che più non sarà dopo lo sbarco delle bestie dall’Arca di Noé. Oltre alla vegetazione rigogliosa del bosco, nell’angolo destro spicca un raffinato mazzo di fiori, che richiama i sontuosi dipinti di vasi di fiori (come i due conservati all’Ambrosiana), considerati tra i capolavori del pittore.
«Acqua» e «Aria» aggiungono all’enciclopedismo anche riferimenti mitologici.
L’«Allegoria dell’acqua», divisa in due parti dai due alti alberi frondosi, presenta al centro un’anziana divinità fluviale maschile accanto a una grande conchiglia dalla quale sgorga acqua di sorgente. In piedi un giovane, da un’altra conchiglia, spande acqua all’intorno: è l’immagine della rigenerazione. A destra delle due piante si vede, circondata da un lussureggiante bosco, una cascata impetuosa a indicare l’acqua che proviene dalla terra e dal cielo; a sinistra, invece, un panorama marino con l’accenno di un arcobaleno, simbolo dell’Alleanza tra Dio e gli uomini. Siamo all’atto della Creazione, e in primo piano troviamo una palude dove si notano «tutte» le specie di pesci, crostacei e molluschi creati da Dio in un susseguirsi che ha lo stesso senso tassonomico di quello ricercato da Arcimboldo con le sue grottesche figure. Questo dipinto fu inviato con certezza da Bruegel al cardinal Federico nel 1614, ed è il terzo della serie a essere stato realizzato.
L’ultimo è l’Allegoria dell’aria. Il cardinal Federico afferma che, nel dipingere questo quadro, «Bruegel lo ha perfuso tutto di gioia». La scena è animata e domina, al centro, una figura mitologica femminile rivestita di un drappo rosso, che nella mano sinistra regge una sfera armillare, cioè un modello della volta celeste con le orbite dei vari pianeti. Intorno dei putti stanno giocando con strumenti per la misurazione del cielo: compassi, astrolabi e un cannocchiale. Cosa guardano? Nel cielo spuntano i mitologici carri del sole e della luna. Tutt’intorno si affolla una quantità impressionante di uccelli esotici, che Bruegel forse aveva visto in vendita nei porti anseatici insieme a spezie, metalli, sale, lino e curiositas allora tanto apprezzate da allestirci con esse meravigliose camere delle meraviglie.
Questo fu l’ultimo dei quattro elementi a essere dipinto; viene datato 1621. Quattro anni dopo, Jan Bruegel «dei fiori» morì di colera nella mercantile Anversa. La sua bottega fu presa dal figlio Jan il Giovane e la sua testimonianza portata avanti dal più celebre dei suoi collaboratori, Pieter Paul Rubens.

16 Mar

Mirò, il sognatore che volle diventare cattivo

Scritto da LEA MATTARELLA – la Repubblica

Al Chiostro del Bramante di Roma ottanta opere tra dipinti, sculture e disegni ripercorrono la poetica del maestro catalano. Un viaggio alla scoperta dei segni e dei colori di un artista che ha rappresentato il lato fantasioso e onirico della pittura del Novecento.  Nel silenzio di Palma, è come se sentisse il desiderio di reinventarsi, di accelerare il passo

ROMA.  «Quando potrò stabilirmi da qualche parte – scriveva Joan Miró nel 1935 – il mio sogno è avere un grande studio… andare oltre la pittura da cavalletto». Il desiderio di una “stanza tutta per sé”, l´artista catalano lo realizza nel 1956 quando l´amico architetto Josep Lluís Sert progetta il suo atelier a Palma de Maiorca, dove Miró immediatamente si ritira.
La mostra Miró! Poesia e luce, aperta al Chiostro del Bramante fino al 10 giugno, curata da María Luisa Lax, racconta proprio gli anni in cui il pittore vive in una dimensione che aveva sempre agognato, in una terra che ama, con molto spazio intorno per creare. All´epoca è già un artista celebre, ha legato il suo nome alle esperienze surrealiste, ha vissuto a Parigi, ha inventato un mondo pittorico trasognato, fatto di elementi biomorfici, di costellazioni stilizzate, di forme misteriose che navigano, sospese e senza peso in uno spazio della tela diventato fluido.
Ma adesso, più che sessantenne (era nato a Barcellona nel 1893), nel silenzio di Palma, è come se sentisse il desiderio di reinventarsi, di accelerare il passo della sua pittura. Ed è proprio il suo studio il fulcro di questa mostra. Tanto che viene ricostruito attraverso gigantografie e oggetti originali nel piano superiore del museo: c´è la sua sedia a dondolo, il carrello su cui lavorava, sporco di colore come fosse un quadro.
Le opere raccolte in questa esposizione – 80 in tutto, tra dipinti su diversi supporti (tela, compensato, masonite), carte, sculture, ceramiche – sono state realizzate in gran parte dal 1956 in avanti. Con qualche eccezione, come il paesaggio che apre la rassegna datato al 1908. Miró, nel 1960, guardandosi alle spalle, consapevole di essere entrato in una nuova stagione della sua vita pittorica, lo aveva occultato con un giornale su cui aveva posto la firma e la data del dipinto che aveva eseguito sul retro. Un accurato restauro ha permesso di rivelare l´opera precedente, così è possibile vedere contemporaneamente l´antica veduta ancora figurativa, il nuovo quadro in cui appare il suo lessico più noto e il giornale con la firma. «Lo abbiamo voluto esporre perché è importante per capire il modo in cui l´artista lavorava –spiega la curatrice – questa è infatti una mostra sul metodo di Miró, sul suo modo di affrontare il quadro che nell´ultima fase della carriera assume toni sempre nuovi. È come se Miró vivesse una seconda giovinezza. Si mette in discussione, ribalta il punto di vista. Per esempio guarda all´arte americana, ma anche alla pittura orientale. E dà vita a un universo in cui i suoi temi classici, le stelle, l´uccello, i corpi suggeriti e mai descritti, le clessidre, i bilancieri, raggiungono una potente carica espressiva».
Questa nuova attitudine la si coglie perfettamente fin dalle prime sale. Che cosa è cambiato dal Miró parigino? Innanzitutto il formato. Le opere esposte sono, tranne qualche raro caso, tutte di grandi dimensioni. E se nel 1935 l´artista sognava di abbandonare il cavalletto, nel buen retiro sull´isola, questo accade per davvero. «Appoggio i miei quadri su trespoli o sul pavimento. Quando sono per terra, posso camminarci sopra», afferma nel 1974. E ancora: «Per terra lavoro sdraiato a pancia in giù. Oh sì, mi sporco tutto di pittura, faccia, capelli; mi ritrovo schizzi dappertutto». In queste monumentali tele si trovano tracce delle suole delle sue scarpe. E il pennello di Miró sgocciola, il suo gesto è ampio, carico di espressività. L´artista ha abbandonato la linea precisa e ferma del passato e predilige adesso gigantesche pennellate che rivelano i suoi lati più segreti. C´è certamente uno scambio con l´action painting americana. I surrealisti, che mettono l´inconscio al centro del quadro, sono alle radici dell´Espressionismo astratto americano: Miró però non solo contribuisce alla nascita di questa nuova generazione di pittori, ma arricchisce, guardandoli, il proprio linguaggio. D´altra parte Miró era entrato in contatto con Jackson Pollock quando nel 1946 aveva ricevuto l´incarico di realizzare un dipinto per il Gourmet Restaurant del Terrace Plaza Hotel di Cincinnati e per realizzare quest´opera aveva vissuto a New York tra febbraio e ottobre. La decorazione in questione, come mostra lo schizzo preparatorio qui in mostra, dove le sue immagini tipiche svolazzano in un fondo azzurro, non risente ancora delle feconde suggestioni degli americani. Queste verranno fuori proprio negli anni di Palma, quelli in cui Miró non costruisce più un universo onirico e sognante, conquistando invece una brutalità e una totale immersione nel quadro quasi primitive, che provocano un´immediata reazione emotiva in chi guarda.
«Più invecchio e più divento matto, aggressivo, cattivo», –affermava. E nel corso degli anni sembra sempre di più far sua la poetica dell´amico critico d´arte Sebastià Gasch che auspicava «un´arte intensa e forte, ricca di pathos, aspra e barbara, senza attenuanti. Un´arte che ci inebri di profumi, finché non ci metterà fuori combattimento con un vigoroso pugno». È esattamente quello che fa l´ultimo Mirò: seduce con un gesto elegante che sembra quello di un maestro orientale, conducendo chi guarda in spazi di grande armonia; e poi sfodera i suoi fondi volutamente sporchi (li eseguiva con la trementina in cui aveva prima pulito i pennelli), la materia dura, gli scarabocchi, le scolature. Inoltre utilizza sempre di più il bianco nero: c´è una sala bellissima, di dipinti monocromi, che pare un viaggio nella notte tra uccelli misteriosi, figure femminili accennate e sensuali, teste inventate, orizzonti accesi da una dispettosa luna nera.
Resta costante, anche negli ultimi anni, il côté ribelle della gioventù, quell´antico desiderio di voler “assassinare la pittura”, che per lui ha sempre significato la tenace volontà di rivoluzionare i codici formali della tradizione. Eccolo, nel 1976, inchiodare assi di legno su un fondo di carta abrasiva a creare il suo Personaggio e uccelli. E affrontare la scultura, recuperando oggetti. Come una zucca e una bambola uniti a creare una forma inaspettata, protetti per sempre da una colatura di bronzo.

02 Mar

Mondrian, Mirò, Calder alla corte di Peggy

Scritto da Francesca Montorfano – Corriere della Sera

Surreali, astratti e poetici: l’ncrocio di tre destini all’ombra della donna che allevò l’arte del ‘900

Uno spagnolo, un olandese, un americano. Personalità e destini differenti che, in un magico momento della storia culturale e artistica del Novecento, si sono incontrati, hanno intrecciato esperienze e linguaggi, cambiando il modo stesso di fare arte, diventando il punto di riferimento per le generazioni a venire. Joan Miró con il suo poetico surrealismo, con quelle rappresentazioni fantastiche e oniriche dove la creazione è anche gioco, divertimento, ironia. Piet Mondrian, alla ricerca di quella superiore armonia dell’universo che lo porterà ad allontanarsi dalla raffigurazione della realtà per arrivare a una semplificazione assoluta di linee e colori. Alexander Calder, che saprà riflettere suggestioni surrealiste e astratte insieme e rivoluzionare il concetto stesso di scultura, facendo dell’aria e del vento, della fluidità e del movimento, gli elementi costitutivi delle sue opere, i suoi celeberrimi mobiles come li definirà Duchamp. Sarà proprio un giovane Calder, arrivato a Parigi nel 1926, a legarsi d’amicizia con Miró e il gruppo surrealista e a entrare poi in contatto anche con Mondrian, restando affascinato dallo studio dell’artista, con le pareti dipinte di bianco e suddivise da linee nere e rettangoli luminosi, come i suoi quadri. «In quel momento pensai a come sarebbe stato bello se tutto avesse preso a muoversi», racconterà in seguito, quasi a sottolineare come da quella visione fosse nata l’idea che sarà alla base del suo universo creativo. Inizia così quel dialogo continuo fra i tre grandi protagonisti dell’avanguardia, quello scambio di stimoli ed esperienze che durerà tutta la vita e li porterà a frequentare il circolo di artisti e intellettuali riuniti nei primi anni Quaranta intorno alla casa e alla galleria newyorkese di Peggy Guggenheim, grande collezionista e mecenate e, insieme allo zio Solomon, capace di entusiasmarsi per le sperimentazioni più avanzate.
Sarà oggi la nuova mostra all’Arca di Vercelli a raccontare le vicende di quegli anni così ricchi di fermenti creativi e di quegli artisti nei quali Peggy e Solomon avevano creduto, vincendo la sfida. Una quarantina di dipinti ad olio, tempere, gouaches, pastelli e sculture provenienti dalle collezioni Guggenheim e da altre prestigiose raccolte ne traccerà il percorso creativo dalle prove giovanili ai traguardi finali. «Oggi più che mai l’Arca si presenta come uno scrigno, un “concentrato” di capolavori straordinari. Ad andare in scena è uno spettacolo dalle tante letture, cronologico e al tempo stesso emblematico dell’opera dei tre grandi artisti, visti nella specificità e nel valore del proprio linguaggio ma anche nel gioco di confronti che li ha portati a rispecchiarsi, a inanellarsi l’uno nell’altro. Sarà proprio Calder il magnete delle diverse esperienze, il traghettatore in America di quella vicenda astratta e surrealista che era nata in Europa e si proponeva di riformulare il mondo esistente, di dare un’interpretazione nuova della realtà», commenta Luca Massimo Barbero, curatore dell’evento.
Ad aprire il percorso è Mondrian, con un nucleo strepitoso di opere che ne seguono l’evoluzione creativa da una pittura ancora legata ad echi postimpressionisti e simbolisti e a lavori che riflettono suggestioni cubiste, come «Calla»; «Fiore Blu», «Estate», «Duna in Zelanda» o le due «Nature morte con vaso di zenzero», ad altri, come «Composizione I», dove il passaggio ai colori primari è compiuto, dove la realtà è ricostruita in un intreccio ortogonale di linee verticali e orizzontali, archetipo di un rigoroso ordine cosmico. Ed ecco Miró, con quelle visioni immaginifiche, quei segni grafici, quelle forme antropomorfe che paiono fluttuare nello spazio, con quell’«Interno Olandese II» ispirato a un capolavoro seicentesco, con «Donna seduta II», dove la figura femminile è ormai trasfigurata o «Pittura» del 1953, summa di tutto il suo universo.
Nello splendido scenario dell’Arca e degli antichi affreschi di recente riportati alla luce è adesso la volta di Calder. Di lui la mostra mette in luce l’intera vicenda artistica dai lavori degli anni Trenta, «Senza Titolo» o «Mobile», agli stabiles, forme astratte immobili a terra, ai ritratti in filo di ferro, ai dipinti su carta, agli oggetti più intimi, personali, realizzati per Peggy. Sarà proprio Calder infatti a creare per lei i famosi orecchini mobiles e la testiera di letto in argento per Palazzo Venier de’ Leoni, misteriosa e viva nel suo disegno di luce. Sempre a lui toccherà l’onore di vedere il suo «Arco di petali», con la sua cascata di forme e colori, fotografato insieme al presidente della Repubblica Einaudi e alla grande collezionista alla storica Biennale di Venezia del 1948.

23 Feb

Ma a Milano prevalsero i colori del sociale

Scritto da FRANCESCA BONAZZOLI – Corriere della Sera

Il dramma dei vinti dell’industrializzazione nei dipinti degli istituti di carità

Come succede in tutti i movimenti, anche nel divisionismo convivono sensibilità differenti, se non addirittura agli antipodi. Una sezione della mostra mette in evidenza una corrente specifica, quella del «divisionismo ideologico» (chiamato anche divisionismo socialista) caratterizzato cioè dall’impegno umanitario e sociale a differenza del «divisionismo ideista» che si connota invece per i contenuti simbolisti universali e la spiritualità panteista e il cui capofila fu Giovanni Segantini. Fra gli artisti più impegnati appartenenti al divisionismo socialista va invece nominato l’alessandrino Angelo Morbelli che a Milano, capitale dell’esperienza divisionista, realizzò una serie di tele straordinarie dedicate al Pio Albergo Trivulzio, l’istituzione milanese (a tutti nota perché l’arresto del suo presidente Mario Chiesa diede avvio a Mani Pulite esattamente venti anni fa) dedita all’assistenza degli anziani poveri. Morbelli, che iniziò a interessarsi agli ospiti del ricovero sin dagli inizi degli anni Ottanta, ancora prima di aderire al divisionismo, ottenne persino uno spazio in cui lavorare dentro l’istituto che era stato voluto dal principe Trivulzio e che faceva parte di una rete di assistenza a orfani, senza lavoro, vecchi, malati, che costituiva un fenomeno peculiare della milanesità.
A Milano, dove il lavoro femminile era superiore a quello delle altre città, nel decennio 1850-60 i neonati abbandonati nella ruota del brefotrofio di Santa Caterina salirono a ben 4.384 contro i 3.300 del decennio precedente. Una piaga in parte alleviata dai Martinitt e dalle Stelline, i due istituti che accoglievano rispettivamente gli orfani e le orfane. Le fabbriche come la manifattura tabacchi, le ceramiche Richard o la fabbrica di bottoni Binda, nate a partire dagli anni Quaranta, erano di dimensioni ancora ridotte rispetto agli stabilimenti del Nord Europa ma segnarono l’inizio della Milano industriale. Alla vigilia dell’unità d’Italia erano impiegati in piccole manifatture tremila lavoratori dell’industria serica cui si aggiungevano altri mille nell’indotto. Poi c’erano i duemila addetti alla fabbricazione delle carrozze, piccole officine che trovano sistemazione spesso nei sottoscala o nei cortili delle case; i novecento delle oreficerie e bigiotterie; i settecento della concia e lavorazione delle pelli; i duecentocinquanta dediti a cappelli di feltro e cascami e anche mille lavoratori nelle tipografie. Alcune donne integravano il bilancio familiare lavorando a domicilio come ricamatrici, rammendatrici, guantaie, modiste e per loro era sempre più difficile occuparsi dei molti bambini che partorivano. A questi lavoratori si aggiungevano quelli stagionali, attratti in città da occasioni di lavoro temporaneo (muratori, facchini) e che, quando tornavano disoccupati, andavano a ingrossare le fila di coloro che vivevano ai margini: anziani, deboli, malati, menomati fisicamente.
A metà Ottocento l’Ospedale Maggiore, la più grande istituzione di assistenza milanese, dava ricovero giornaliero a oltre duemila persone, molte delle quali non erano malate ma indigenti senza cibo e senza un tetto. Nel 1906 furono censite a Milano circa cinquecento istituzioni dedite alla beneficenza con un patrimonio di oltre trecento milioni di lire. Rispetto alle istituzioni di beneficenza di altre città, la loro peculiarità era quella di ricordare i benefattori attraverso dipinti o busti: non tanto ritratti celebrativi ma commissionati per ringraziamento e come modelli di carità da emulare. Addirittura i maggiori istituti di carità avevano individuato alcuni pittori con i quali instaurare un rapporto privilegiato per la committenza dei ritratti dei benefattori. Con gli anni hanno accumulato centinaia di opere diventate vere e proprie quadrerie anche grazie a lasciti di intere collezioni.
In questo clima, nel 1895 Pellizza da Volpedo, l’autore de «Il quarto stato» conservato al museo del Novecento di Milano, scriveva all’amico Morbelli: «Sento che ora non è più l’epoca di fare arte per l’arte ma dell’arte per l’umanità».

23 Feb

Divisionismo. La scienza della percezione

Scritto da Melisa Garzonio – Corriere della Sera

Luci della modernità Così l’arte trasfigurava sulla tela i progressi ottenuti in laboratorio

L’ effetto sirena causato dalla bruna signora che incede sdegnosa sollevando un lembo del cangiante abito bianco (con piccoli arabeschi gialli) è forse stato studiato a tavolino? La locandina della mostra «Il Divisionismo. La luce del moderno», che campeggia sotto i portici di Piazza Vittorio Emanuele II, a Rovigo è più guardata dei cartelloni degli ultimi film di Spielberg e Scorsese, campioni al botteghino della stagione. Sorridono soddisfatti Francesca Cagianelli e Dario Matteoni, negli ultimi anni curatori a quattro mani al Palazzo Roverella di visitatissime mostre sui capricci estetizzanti di déco e fin de siècle, adesso artefici di questa rappresentazione sulla «pittura divisa», che in quanto a fascinazione ha proprio l’aria di superarle tutte.
«Vorrà dire che grazie al “Ritratto all’aperto” di Giacomo Balla i visitatori verranno a vedere la mostra molto ben disposti» gongola Cagianelli, che ci tiene però a sottolineare come gli intenti dei curatori vadano ben oltre la portata emotiva dei dipinti icona, puntando piuttosto su una revisione storiografica del movimento pittorico che tra l’ultimo ventennio dell’Ottocento e gli anni Venti del Novecento, quasi un naturale prolungamento, in area lombarda, della bohème scapigliata, fece da tramite tra il bello gratificante del verismo e l’antigrazioso dell’avanguardia futurista. Aggiunge Matteoni: «Abbiamo voluto ribaltare l’idea di un asse privilegiato del divisionismo tra Milano e Torino, considerate, con esagerata enfasi, le due città più vitali del Settentrione».
È vero che il piemontese Pellizza da Volpedo in una lettera del 1896 indirizzata all’amico Plinio Nomellini scriveva: «L’anno prossimo avremo la seconda Triennale milanese, fa di non mancare all’appello. Milano tanto quanto Torino, e forse più, è terreno adatto alle nostre lotte». Avrà avuto anche ragione il Pellizza, la cui adesione alla fase visionaria del divisionismo è celebrata nel portentoso trittico «L’amore nella vita», altro pezzo forte dell’esposizione. Ma a Rovigo si scoprono cose nuove, per esempio inedite geografie tra Liguria e Toscana, trait-d’union Plinio Nomellini, artista livornese dalla tavolozza focosa, che dal 1890 viveva a Genova, e dunque funge da filtro tra la pittura di macchia alla Fattori e la pennellata filamentosa dei pittori di costa, da Benvenuto Benvenuti per le smaltate marine livornesi, a Rubaldo Merello e il gallese Llewelyn Lloyd per i rossi tramonti in Riviera e la raccolta dell’uva alle Cinque Terre. Ancora, in mostra si dà voce a tanti bravi artisti finora considerati solo dei semplici epigoni rispetto ai maestri del movimento, come il veneziano Vittore Zanetti-Zilla, il milanese Ludovico Cavalieri, e due pittori «della grazia infantile e della bellezza muliebre» come Camillo Innocenti e Arturo Noci.
«Il lungo tempo del divisionismo», argomentato in catalogo da saggi di Anna Maria Damigella, Sergio Rebora e Nicoletta Colombo, comincia con un omaggio al «padre» della tecnica divisa, Vittore Grubicy De Dragon, eccentrico erede di una famiglia aristocratica magiara trasferita nel Lombardo Veneto, un tempo ricca ma ormai debole e spiantata. Dotato di carisma e phisique du rôle, estro pittorico e sesto senso nel riconoscere i talenti, appassionato di bella musica, da Ravel a Debussy, da Satie a Gounod, e instancabile globetrotter, Grubicy aveva colto il nascere dei nuovi fermenti durante i frequenti viaggi in Belgio, Olanda, Francia, e si era fatto una cultura su libri e riviste straniere. Di sicuro vide Seurat e studiò la tecnica francese del Pointillisme, importando in Italia la querelle mai risolta sul debito dei nostri pittori divisionisti con i cugini francesi.
Nella sua biblioteca, oggi conservata al Mart di Rovereto, compaiono opere capitali di Jehan Georges Vibert: «La science de la peinture», sia nell’edizione francese che in quella italiana tradotta da Gaetano Previati e pubblicata su commissione di Grubicy nel 1893. Previati, divisionista dalle forti sfumature simboliste, svolse il ruolo di teorico del gruppo («La tecnica della pittura», 1905; i «Principi scientifici del divisionismo», 1906). Sono gli anni in cui la percezione luminosa si modifica e si allarga a nuove sfere sociali. Nelle città le luci colorano i grandi magazzini, le vetrine, brillano sgargianti nelle insegne sui muri. Grubicy intercetta i pittori del nuovo e li lega in un rapporto d’esclusività con la galleria milanese che dirige col fratello Alberto. I due però non vanno d’accordo. Rotto il sodalizio, Vittore prende colori e cavalletto e va a fare il pittore sul Lago Maggiore. Quasi tutti i suoi protetti diventeranno famosi.
Melisa Garzonio

   

19 Gen

Da Vermeer a Kandisky

Scritto da LEA MATTARELLA – la Repubblica

Le affinità elettive dei capolavori    Goldin: ho preferito mescolare le carte, così si parlano tra loro dipinti lontani di secoli Nelle sale di Castel Sismondo Bacon dialoga con Tintoretto e Jacopo Bassano Quattro secoli di arte in una mostra a Rimini che mette a confronto i grandi maestri. Così “Linea d´Ombra” festeggia i suoi 15 anni di attività

RIMINI. Linea d´ombra, la società creata da Marco Goldin per l´organizzazione di eventi espositivi compie 15 anni. E alla sua festa ha invitato una sessantina di opere dei più grandi artisti attivi in Europa dal Cinquecento al Novecento. Che sono arrivate a Castel Sismondo a imbastire un appassionante viaggio nella storia dell´arte: la mostra intitolata Da Vermeer a Kandinsky. Capolavori dai musei del mondo a Rimini, curata dallo stesso Goldin, che spiega: «Vorrei che il visitatore avesse la sensazione di sfogliare le pagine non di un libro, ma di un museo. Così inizialmente avevo pensato di allestire le opere per scuole regionali e in ordine cronologico: Venezia nel Cinquecento, i Paesi Bassi nel Seicento, il paesaggio inglese ecc. E invece ho deciso di mescolare queste carte che compongono il meraviglioso racconto dello sguardo occidentale e di far parlare tra loro dipinti anche geograficamente lontani, separati da secoli». Che di cose da dirsi ne hanno davvero molte.
I casi più clamorosi di questo dialogo a distanza si trovano nell´ottava sala dell´esposizione, una delle ultime del percorso, dove tutto è tenuto insieme dalla rappresentazione del corpo. Uno di fronte all´altro vi sono le Deposizioni eseguite da Tintoretto e da Jacopo Bassano, due protagonisti della pittura veneziana del Cinquecento, e un´infuocata e drammatica triade di dipinti di Francis Bacon, datati 1988 che compongono l´ultimo trittico eseguito da questo grande cantore del dolore dell´uomo, del suo tragico stare al mondo. Ma c´è una sofferenza anche nei due quadri del Cinquecento, in quei Trasporti di Cristo che esprimono, in contrasti di luce e ombre, la tragedia della morte di un Dio che si è fatto uomo. Le figure di Bacon che ghignano, gridano, sono deformate e menomate, hanno una fratellanza antica con il vortice e la vertigine che emerge dal quadro di Tintoretto, dove la Vergine svenuta ha la testa che sembra uscire dalla cornice, tanto è potentemente gettata verso lo spettatore. Al punto che ti viene quasi di sorreggerla, di accarezzare il velo che le cinge la fronte. A pochi metri ecco Picasso e Veronese, quattro secoli di differenza, ma in comune un´agitata composizione verticale.
Un altro incontro tra due mondi che si riconoscono è quello tra il San Francesco, spoglio, solenne, tutto risolto in una fissità dominata da un´ombra che pare la quintessenza dello spirito, eseguito da Francisco Zurbarán in Spagna tra il 1640 e il 1645 e la Cantante di strada dipinta da Edouard Manet nella Parigi della seconda metà del XIX secolo, mentre sorgeva l´alba della modernità. La donna ritratta in questo quadro molto amato da Emile Zola è Victorine Meurent, la modella preferita di Manet, la stessa che farà scandalo con la sua nudità priva di orpelli nella Colazione sull´erba esposta con grande clamore al primo Salon de Refusés nel 1863. Eppure tra la chanteuse intenta a mangiare le sue ciliegie da un cartoccio e la sacralità del santo di Zurbarán ci sono molte cose in comune. Sono due sinfonie in grigio, con le figure in verticale che emergono dal buio. E chiunque conosca un po´ di storia dell´arte sa quanto la pittura spagnola abbia da sempre sedotto Manet, che a differenza di Monet e compagni, non rinuncerà mai all´uso del nero perché era il colore che lo teneva unito a Velázquez per il quale stravedeva.
Diego Velázquez lo si incontra poche sale prima con un quadro che ha qualcosa di inquietante e misterioso: Don Baltasar Carlos, primogenito di Filippo IV, ritratto a tre anni in compagnia di una nana di corte. Un capolavoro di stoffe, velluti e broccati ma anche di una crudele dimensione psicologica. Lo accompagna il ritratto di Fratello Hortensio Félix Paravicino di El Greco, l´opera, proveniente dal Museum of Fine Arts di Boston, che ha il più alto valore assicurativo dell´esposizione: 70 milioni di euro. Un quadro mozzafiato, costruito sui bianchi e sui neri, dove la figura seduta su una sedia con una leggera asimmetria ha sguardo vibrante e labbra screpolate. Lo stesso monaco quando vide il dipinto scrisse un sonetto “O greco divino!”. Nella stessa sala ecco il Vermeer giovanile, Cristo in casa di Marta e Maria, che arriva da Edimburgo. Dei 36 quadri conosciuti del pittore di Delft questo è il più grande di dimensioni e l´unico con un soggetto evangelico. La resa della luce nell´interno della casa è già quella del Vermeer maturo.
Continuando a sfogliare le affinità elettive create da Goldin, ecco il vedutismo settecentesco di Canaletto e della sua spettacolare inquadratura di Venezia che si confronta con la pittura di paesaggio inglese di Constable e Gainsborough. E poi una carrellata di volti e gesti maschili: su una stessa parete, uno accanto all´altro, cardinali, suonatori, gentiluomini che tengono in mano lettere e libri. Si devono al pennello di Savoldo, Sebastiano del Piombo, Moretto, Moroni e Tiziano. Anche qui la sapienza con cui sono raffigurati vesti e abiti si accompagna all´introspezione psicologica del personaggio, sempre rivelato in tutta la sua individualità.
C´è un bellissimo quadro di Lorenzo Lotto, una Sacra Conversazione in cui le teste sono tutte volte in direzioni differenti, così che la quiete che solitamente accompagna questo soggetto è abbandonata per una soluzione movimentata e palpitante, con il meraviglioso particolare del bambino che sembra spaventarsi del santo in preghiera di fronte a lui. E poi ecco una di fronte all´altra le due teste bibliche saltate per volontà femminile: quella di San Giovanni Battista si deve a Mattia Preti, mentre Oloferne decapitato da Giuditta è opera di Francesco Cairo. Siamo tra i caravaggeschi, italiani ma anche fiamminghi, come Gherardo delle Notti, celebre appunto per la sua predilezione nei confronti del buio. Si chiude all´insegna del colore con la felicità cromatica di Matisse e di Kandinsky. E con un altro dialogo sotterraneo: quello tra Mondrian, che aveva finito per semplificare sempre di più il paesaggio in un´armonica composizione astratta per eliminare il tragico dell´esistenza, e la natura informale di Nicolas De Staël con le sue pennellate materiche cariche di pathos. Si leverà la vita nel 1955, l´anno dopo aver dipinto questa tessitura che diventa luce. Aveva 41 anni.

17 Gen

Dall´ex Urss con amore ecco l´arte dei Kabakov

Scritto da CRISTIANA CAMPANINI – la Repubblica, pagine Milano

Le opere della coppia da Lia Rumma.  Non siamo artisti politici, non ci interessa la realtà, se nella vita le utopie sono pericolose e tragiche, nell´arte sono speranza e bellezza.  Sogniamo di cambiare il mondo Un´avventura esistenziale riflessa nei lavori, esposti in tutto il mondo


Una figura si muove appena sotto una coperta di feltro. È il profilo di un uomo che striscia. Forse si nasconde, scappa o cerca di liberarsi. L´uomo, rappresentato da una scultura meccanica, gira in tondo. L´azione è ripetitiva, claustrofobica. È la prima opera che ci accoglie nelle grandi sale distribuite su tre livelli della galleria Lia Rumma, dove giovedì alle 19 inaugura la mostra di due maestri dell´arte russa, e non solo.
Sono Ilya ed Emilia Kabakov, che dal 1988 lavorano insieme a un connubio unico d´installazione e pittura, narrazione e disegno. Dal 1992 vivono a Long Island e raccolgono successi di critica, da Documenta di Kassel alla Biennale di Venezia. Le loro installazioni totali, come le definiscono, sono ambienti realistici come set teatrali e descrivono atmosfere della Russia sovietica, ma i valori che trasferiscono sono universali. Nella prima sala della galleria il tema è la fuga. «L´oscurità degli spazi ci ha spinto a raccontare una tragedia, la storia di un uomo che striscia a terra per liberarsi. La trappola può essere politica o esistenziale».
A spiegarlo con un tono dolce e deciso, uno sguardo intenso incorniciato da capelli corti argentati è Emilia Kanevsky (Dnepropetrovsk, 1945; emigrata negli Stati Uniti nel 1973). È lei la portavoce della coppia. Ylia è silenzioso, sfuggente. La sua riservatezza accresce attorno a lui un´aura di mistero. Ucraino di origini ebree, nato nel 1933, è considerate il padre dell´arte concettuale russa. Il racconto della sua vita è un compendio di storia sovietica. Diviso tra arte ufficiale e non, negli anni del regime si guadagnava da vivere illustrando libri per bambini e allo stesso tempo si muoveva tra i dissidenti della scena moscovita. Alle pareti della galleria, nella prima sala, sfilano le tavole di due album dei dieci realizzati proprio in quegli anni, dal 1968 al 1978. Sono storie di fuga raccontate su carta. E i protagonisti di quell´intreccio di disegni e parole sono sempre artisti, in un certo senso dei suoi alter ego. «Il primo è un uomo che fugge lanciandosi nel vuoto. E i disegni mostrano solo il suo volo. L´altra fuga è quella di un decoratore, un uomo che ha paura di ogni cosa e si chiude nel mondo minuscolo del suo lavoro».
Nella sala successiva la mostra continua con quattro grandi tele in stile postimpressionista e quattro sculture in marmo e ceramica della dimensione di bozzetti. L´atmosfera suggerita dai dipinti è quella dell´atelier di un artista, un altro alter ego. «Si vedono frammenti di quadri nel quadro oppure specchi che riflettono lo spazio attorno. Sta solo a chi guarda decidere», spiega Emilia. «Siamo partiti da Las Meninas di Velázquez e dal gioco di riflessi imprigionato in quell´immagine, abbiamo raccontano la storia di un artista e immaginato lo spazio in cui vive».
Nell´ultima sala l´atmosfera si fa magica. L´installazione Evening è parte di una trilogia dedicata ad Hans Christian Andersen. Al centro c´è un´isola, una Torre di Babele, una città-montagna che ha alle sue pendici un castello. Dentro suona un carillon appena illuminato, con i personaggi delle storie di Andersen in minuscole figurine ritagliate, come lo scrittore stesso amava fare. «L´umanità e i sogni nutrono la nostra arte», continua Emilia. “L´umanità e i sogni nutrono la nostra arte”, continua Emilia. «Non siamo artisti politici, realizziamo utopie. Se nella vita le utopie sono pericolose e tragiche, nell´arte sono speranza e bellezza. Le nostre utopie sono sempre più ambiziose e vorrebbero cambiare il mondo».

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22 Dic

Le incandescenti e fragili utopie dell’arte sovietica

Scritto da Maria Grazia Calandrone – il manifesto

MOSTRE «Realismi socialisti» al Palaexpò di Roma

Dalle sventagliate di luce delle grandi tele di Aleksandr Deineka all’«autismo corale» che segna le opere degli ultimi decenni, avvolte in un crepuscolo malinconico e polveroso Il suolo della Russia – immaginato qui dall’Occidente attraverso il velo d’oro della Letteratura – sta ancora digerendo le immortali nevi di Pasternak, è rotto dalla oscillazione impietosa dell’ombra di Marina Cvetaeva, fatta morta da un maligno isolamento politico – e insieme è tutto verde del sogno di Majakovskij. L’arte è un risultato compresente. In questo caso gli esiti della bellezza sono mossi da idee e da esperienze in contraddizione. Si pone dunque un quesito morale, perché la bellezza delle utopie splende insieme alla bellezza del loro declino.
Proviamo a leggerli storicamente attraverso la parabola simbolica della luce. Lo slancio di eguaglianza della società umana è inciso nel marmo luminoso delle pagine di Majakovskij, «vuotacessi e acquaiolo» che, poco prima del dubbio suicidio, grida «scavalcherò / i volumetti lirici / e come un vivo / parlerò ai vivi», con quel suo verso «pesante, ruvido, tangibile» come un acquedotto romano, che il poeta vuole consegnare fino all’ultimo «a te, / proletario del nostro pianeta».
La stessa vigorosa incandescenza storica è fissata dai quadri di Aleksandr Deineka, che abbiamo finalmente modo di vedere, vivissimi anch’essi, nella mostra sulla grande pittura sovietica dagli anni Venti ai Settanta in corso fino all’8 gennaio al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Pausa pranzo nel Donbass, per esempio: cinque ragazzi ci corrono incontro dall’acqua, sollevando spruzzi di schiuma. Noi, che guardiamo, siamo la loro riva. Alle loro spalle è tirato il rigone orizzontale e nero di un molo sul quale un merci fila sbuffando, probabilmente carico del carbone che in quegli anni era l’oro del Donec. Il pallone, calciato ad angolo verso di noi, serve a sfogare lo slancio muscolare dell’adolescenza, quella loro bellezza nuda e innocente. Sopra tutta la scena vige una fiamma primaria, una luce gettata alle spalle da una fonte invisibile, una luce «sbagliata», poiché il molo, invece, non posa ombra. L’errore ci lascia intendere che la luce provenga da regioni interiori. Come in Majakovskij, l’infiammazione è tessuta nel muscolo del cuore – viva, frontale e bianca – proiettata dalla mente-faro e dal cuore-fiaccola dell’autore direttamente negli occhi di chi la guarda. E noi, pure macchiati dalla consapevolezza dei posteri, veniamo abbagliati dal segnale a mille watt delle nostre utopie, da una luce di nevi marine che ricorda l’iperventilazione lirica della Livorno di Giorgio Caproni: «ventilata in un maggio / di barche».
Eppure, dopo vent’anni, di quelle sventagliate di luce restava un blando lucore crepuscolare, una sorta di lacca polverosa che si depositava su volti sempre più in primo piano: squadrati come maschere o doverosamente sconfitti. Altrimenti, l’abbaglio di una neve scontornava i corpi. Era avvenuta una progressiva cessazione della coralità, anche la Russia si stava ammalando di quello che Franco Arminio definisce autismo corale. Il sole era meccanico, stava in cielo per forza d’inerzia e non ruotava più, per trascinare sul suo carro gli uomini, verso la libertà. Tutti i ragazzi avevano gettato le loro ombre bellissime su acque che sarebbero state rabbuiate da un massacro morale e tutto lo splendore adesso era spalmato come una pallida infarinatura sulla propaganda di partito.
Appaiono lente opere «antisociali», intimiste, critiche e addirittura oniriche. In un’opera-simbolo come Il lavoro è finito di Viktor Popkov la città non è più benedetta da un sole produttivo ma informe e fantasmatica, misteriosamente accesa da una visione notturna e l’arte è nel corpo addormentato del pittore, richiamo onirico di un altro mondo.
Il senso di questa opera continua in maniera struggente nel cortometraggio Elegia orientale di Aleksandr Sokurov, dove i ragazzini lanciati da Deineka negli anni Trenta sulla schiuma del Donbass sono diventati i protagonisti di un sogno venuti da un mondo doppiamente alieno: un oriente che rappresenta il regno dei morti. Rispondendo all’intervista elegiaca di Sokurov, i morti non sanno che dire sulla propria felicità, sanno solo che non hanno intenzione di tornare se non in forma d’alberi dai frutti rossi, sanno che non hanno bisogno di noi né di salvezza, forse neppure della nostra memoria. Perché essi non hanno più bisogno di esistere. Adesso sono liberi. Leggeri e privi.
Sokurov ha dovuto spingersi nel semibuio dei morti per tentare di esprimere il mondo (onirico, interiore, inconscio – mischiato di ricordi infantili di cicogne e di volti mai visti, attenti come quelli delle icone) che lo perturba e lo sovrasta con una vocazione etimologica. Ha puntato il suo sguardo sulle icone contemporanee di quei volti, impassibili come il viso di dormiente còlto in treno dallo sguardo pieno di compassione di Antonella Anedda: «Poi ho capito che quel paesaggio era pena, che c’era una spina di pena che quel volto accoglieva senza essere assorbito dalla bellezza, né dalla bellezza e alla bellezza confuso. Al viso, a quella icona di vecchio si affidava il gelido mondo». I volti di Sokurov, emersi dalla penombra, accolgono con la stessa inerzia attiva un paesaggio fatto di ricordi, sogno e futuro. Il sogno fabbricatore di eguaglianza sociale è diventato il gesto metafisico di aprire la mano per lasciar andare, è ora l’invocazione di una oltreumana, ontologica libertà umana. L’arte russa, dopo essersi ripiegata nella solitudine degli sconfitti, si è dilatata: nel dettaglio ha scoperto l’infinità di una vocazione alla luce.
I mondi interni restano però sempre inesprimibili, nonostante la crescente perizia nell’utilizzo del medium. Il tema dell’indicibile, affrontato metaforicamente da Sokurov – e ben prima che lo psicoanalista Wilfred Bion lo formalizzasse nelle definizioni degli universi protoverbali – è espresso con perfetto amore da Tolstoj, il quale venne infine illuminato da una pace evangelica: «In tutto, in quasi tutto ciò che ho scritto mi ha guidato il bisogno di riunire dei pensieri che si concatenavano tra loro per esprimere me stesso; ma ciascuno di quei pensieri, se lo si prende di per sé e lo si esprime in parole, perde il proprio senso e si degrada in un modo terribile; se appunto lo si sottrae a quel concatenarsi con gli altri pensieri. E anche quel concatenarsi, dal canto suo, non è qualcosa che appartenga propriamente all’ambito del pensiero (almeno credo), ma a un ambito diverso, non so quale, ed esprimere immediatamente in parole il fondamento di questo concatenarsi è del tutto impossibile; esprimerlo si può solo in modo mediato: usando le parole per descrivere scene, immagini, situazioni».
Ecco spiegata la insoddisfazione dei grandi intorno alla propria opera. Ecco che Anna Karenina, sentendo una finale «impossibilità di lottare», dice «Signore, perdonami tutto!». Perché nessun essere umano è innocente. Eppure lo siamo tutti, per la nostra invincibile aspirazione alla luce, capace di raggiungere talora vette quali l’«altruismo radicale» di Etty Hillesum, che, dalla mischia di fango e terrore del campo di concentramento, lanciava al mondo libero e al futuro simili parole: «Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra». Questa lauda non è fuori luogo: la gratitudine è sempre e ovunque al suo posto dentro un essere umano. Importa rimanere dostoevskianamente idioti, in una adulta parità ai bambini – e compiere continui, ottusi atti di fiducia nella bellezza, stare vicini alla integrità preverbale del mondo dove ogni dettaglio è il mondo. Importa ringraziare.

   

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