Scritto da Karl Schlögel – il manifesto
Dal 1917 al 1922, artisti come Chagall e Malevic trasformarono una cittadina della provincia russa in un grande laboratorio. Quel miracolo è ricostruito da uno dei massimi storici tedeschi nel nono capitolo della serie dedicata a tredici città del mondo
Vitebsk, nella Bielorussia nordorientale, è oggi una città piuttosto isolata, di cui nel mondo si sa poco o niente. Eppure Vitebsk è stata un tempo il luogo di una esplosione artistica e estetica che ha ben pochi precedenti. Tra il 1917 e il 1922 si ritrovarono qui Marc Chagall, El Lissitzky e Kazimir Malevic in un laboratorio nel quale la creatività dell’epoca si espresse in un modo che ci lascia ancora senza fiato. Come è stato possibile che una città governativa russa sia riuscita per un breve periodo a diventare un centro della modernità europea?
Qui furono realizzate opere che ancora oggi affascinano il mondo e che, per la loro portata radicale, hanno tuttora il potere di scuoterlo: i chiaroscuri di Chagall che raffigurano lo Shtetl, il manifesto di El Lissitzky Batti i bianchi con il cuneo rosso, del 1920, e le copertine realizzate da Malevic appartengono all’inventario iconografico del ‘900. Da allora Vitebsk è stata travolta da un uragano di violenza – una guerra, durante la quale la città venne rasa al suolo e la popolazione ebraica, più della metà della città, fu sterminata. Per decenni Vitebsk sprofondò nel silenzio. Ma poi, per quella che con i suoi 350mila abitanti è stata la seconda città della Bielorussia, i tempi sono cambiati, tanto che oggi si parla di un «rinascimento di Vitebsk».
Un’arca di Noé in provincia
Certo, riuscire a riconoscere la città che Chagall aveva catturato nelle sue litografie e nel dipinto La Casa Blu oggi è difficile. Vitebsk fu un tempo il centro del classicismo bielorusso-lettone e nel Settecento il fulcro delle attività del celebre rabbino Shneur Zalman (fondatore della scuola chassidica Chabad-Lubavitch, ndr). I tremila ebrei che vivono oggi in città vi si sono stabiliti quasi tutti dopo la guerra e hanno ancora oggi una sola sinagoga, situata fuori città, sulla via Kolchosnaja. Entrambi i cimiteri ebraici sono da molti anni dismessi e trasformati in parchi. Nel XIX secolo Vitebsk era, all’interno della Zona di Residenza, una delle città con il più alto tasso di crescita della popolazione ebraica, probabilmente perché da lì ci si poteva muovere verso le grandi città dell’impero russo, San Pietroburgo e Mosca, o verso l’Europa occidentale, per emigrare o per studiare.
Dovettero accadere parecchie cose per fare di Vitebsk ciò che divenne, per più di cinque anni, a partire dal ’17 – uno straordinario laboratorio di esperimenti artistici. A questo naturalmente contribuirono diversi fattori. Nel 1918 Chagall fu nominato Commissario per le Belle Arti e dovette organizzare i festeggiamenti per il primo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Dai documenti risulta che allora Vitebsk era un luogo di rifugio e di esilio, un’Arca di Noè sulla quale si poteva attendere la fine della guerra civile. Così man mano si riunirono qui personaggi di primo piano provenienti dalle grandi città che, per un certo periodo, trasformarono Vitebsk in una capitale dell’arte.
Giunsero El Lissitzky, ingegnere e grafico, teorico del costruttivismo, e Kazimir Malevic, autore del Quadrato Nero e caposcuola del suprematismo, e per breve tempo si unirono a loro anche i pittori Mstislav Dobuzhinskij, Robert Falk, Kseniya Boguslavskaja e Ivan Puni, che Chagall aveva conosciuto durante i suoi anni a San Pietroburgo. Rudolf Ungern-Stenberg, allievo di Mejerchol’d, e Nina Kogan, esponente del balletto suprematista, rappresentavano la danza e il teatro. Lo storico e critico musicale Ivan Sollertinskij, figlio di un giudice di Vitebsk, il direttore d’orchestra Nikolaj Malko, che si era formato a Monaco con Felix Mottl, e la famiglia Judin, in particolare Marija Judina, che in seguito divenne una famosa pianista, animavano la vita musicale. La filosofia e la teoria estetica erano presenti nelle persone di Moisej Kogan, allievo di Cohen a Marburg, di Lev Pumpjanskij, teorico dell’arte e – non ultimo – di Michail Bachtin, i cui studi su Dostoevskij hanno fatto scuola. Giunse a Vitebsk anche Lazar Chidekel, uno dei più importanti architetti visionari. Ma pure altri settori dell’arte erano ben rappresentati, dalla scultura, all’arte tessile, al design.
Durante l’organizzazione per i festeggiamenti del primo anniversario della rivoluzione d’Ottobre Sergej Ejzenstejn,trovandosi di passaggio scrisse: «La città è abbastanza singolare. Qui nelle strade principali i mattoni rossi sono dipinti di bianco e, per terra, sul bianco sono dipinti cerchi verdi. Quadrati arancioni. Rettangoli blu. Questa è Vitebsk nel 1920. Il pennello di Kazimir Malevic è passato sui mattoni. Da questi muri risuonano le parole: le piazze sono le nostre tavolozze». Degli ottantamila abitanti di allora, si calcola che sessantamila presero parte ai festeggiamenti. Quegli schizzi e quelle tele, ancora conservati, sono oggi esposti nei musei di tutto il mondo, preziosa materia prima dell’avanguardia russa.
Da città governativa dell’impero, Vitebsk era diventata la roccaforte della rivoluzione. Alcune delle sedi principali della «Vitebsk Connection» esistono ancora oggi. Il Club lettone, ex edificio scolastico, è oggi la scuola materna n° 29, mentre sul portale dell’edificio neoclassico di una banca in via Pravda una targa ricorda che tra il 1920 e il 1922 la rivoluzione estetica aveva stabilito qui il suo quartier generale: i Laboratori d’arte indipendente, in particolare l’Unovis, gruppo dei «Compagni dell’Arte Nuova».
La breve estate dell’anarchia
L’intera città diventò il luogo di un sensazionale allestimento ma anche di infinite chiacchierate. Era possibile assistere agli incontri in cui Malevic e El Lissitzky definivano le loro teorie. Nel giardino d’infanzia fröbeliano Bachtin e Kogan discutevano. Bachtin, docente di estetica al Conservatorio popolare, parlava di Richard Wagner e del dramma musicale, di Cajkovskij e del Romanticismo russo, di Skrjabin e del mistero cosmico. Nella sinagoga di via Suvorova c’era un’Università ebraica comunista. Marija Judina, di cui Stalin in seguito avrebbe avuto paura, teneva concerti. El Lissitzky presentò qui il progetto di una tribuna per gli oratori che riprendeva la forma di una gru.
Altri si stavano già preparando per l’esilio, come il menscevico Grigorij Aronson, che andò prima a Berlino e poi in America. E altri ancora riuscirono in vent’anni ad avere una straordinaria carriera: per esempio Nikolaj Ezhov, che iniziò lavorando nei cantieri della ferrovia Riga-Orjol e che nel 1937 avrebbe scatenato il terrore stalinista.
In alcune foto di gruppo i protagonisti del Laboratorio di Vitebsk sono ritratti armoniosamente l’uno accanto all’altro; Chagall, Malevic, El Lissitzky, Suetin. Ma la domanda resta la stessa: cosa è dovuto accadere per arrivare a una tale esplosione di creatività artistica? Per gli artisti provenienti dalle metropoli quella cittadina di provincia era il posto giusto dove sopravvivere durante il caos della guerra civile. D’altra parte, anche la «breve estate dell’anarchia» tra la distruzione del vecchio regime e l’affermazione del nuovo potere ha avuto un ruolo significativo. Tutto sembrava possibile. Agli artisti toccarono per la prima volta, in modo del tutto inaspettato, mezzi finanziari e un potere quasi illimitato. Da artisti e bohémiens, che avevano trascorso gli anni dell’apprendistato negli atelier di Montparnasse – come nel caso di Chagall – erano diventati Commissari dell’arte in camicia russa e giubbotti di pelle. Il linguaggio dell’Unovis – «Vogliamo, Vogliamo, Vogliamo» – è il linguaggio di chi ha la capacità di conferire a se stesso il potere. Ma forse quella grande messa in scena di strade e piazze era soltanto un ripiego: se ormai non si poteva più costruire la città nuova, almeno la si poteva dipingere attraverso la fantasia.
Molto era già stato delineato prima della rivoluzione: l’idea dell’opera d’arte totale, l’annullamento del distacco tra vita quotidiana e arte, il superamento dell’abisso tra gli attori sul palco e il pubblico passivo. Le tessere annonarie venivano disegnate dagli artisti, il pubblico giudicava i pezzi teatrali. La città aveva già accumulato forze, aveva solo bisogno di un catalizzatore per unirle e per mettersi di nuovo in gioco. Un punto di cristallizzazione fu certamente rappresentato dalla personalità del pittore Yehuda Pen: nella sua scuola studiò non solo Chagall, ma anche lo scultore Ossip Zadkine. Pen è sepolto nel cimitero ebraico di Vitebsk, e gode ancora oggi di una grande reputazione.
Fu molto importante anche il fatto che Vitebsk non era una meta irraggiungibile, ma una tappa delle tournée dei maggiori attori e musicisti europei. Era dunque una città aggiornata. C’erano una buona orchestra, teatranti esperti, un gruppo quasi inesauribile di musicisti, che – osservò una volta Chagall – aspettavano solo di poter lasciare da parte il Klezmer per dedicarsi alla Sesta Sinfonia di Cajkovskij.
Lo Shtetl era pieno di giovani ebrei ambiziosi, che volevano fare affari. Proprio in luoghi come Vitebsk appunto il mondo arcaico dello Shtetl poté incontrarsi con la modernità delle grandi città europee e si riuscì a raggiungere un affiatamento tra le arti che probabilmente, in tempi di pace, sarebbe stato impossibile. Gli artisti si trovarono di fronte un pubblico prostrato dalla guerra e dalla rivoluzione, ma anche assetato di sapere e bisognoso di svago, che non tollerava più le barriere sociali. Qui crebbero rapidamente la cultura della grande città e quella della provincia, l’esperienza del balletto di San Pietroburgo e le fiere annuali, le sinfonie e le compagnie di musicisti, l’iconoclastia e l’ispirazione, tutto insieme. Era un mondo in cui non c’era ancora la cortina di ferro, e le traduzioni di Cassirer e Cohen potevano essere pubblicate senza grandi ritardi. Era il tempo in cui tutte le questioni sull’arte moderna e tutti gli ismi – realismo, surrealismo, futurismo, funzionalismo – erano maturati. E c’era solo bisogno di quel momento catalizzatore in cui nell’esistente si inserì qualcosa di totalmente nuovo.
Curiosi déjà-vu
Bachtin, insegnante di estetica al Conservatorio popolare di Vitebsk e in seguito prigioniero nei Gulag, coniò per questa coincidenza di spazio e tempo in un preciso luogo il termine «cronotopo». Ciò che qui per un breve periodo confluì in unica direzione, prese ben presto strade diverse: verso l’esilio (Chagall, Punin), verso la migrazione interna (Malevic, Judina) e verso il confino (Bachtin).
Oggi assistiamo a un rinascimento di Vitebsk con mostre, simposi, letture, pubblicazioni. Vitebsk ha un suo gruppo di sostenitori : i Pro-Bachtin e gli Anti-Bachtin, i fan di Malevic e di El Lissitzky, i teorici del carnevalesco e del cronotopo e naturalmente tutti quelli che vengono in città per Chagall. Ma si può considerare il rinascimento anche a livello letterale:stanno ricostruendo dalle basi la vecchia Vitebsk. Nella piazza del Municipio vengono ricostruite le chiese di San Nicola e di Sant’Antonio, sulla sponda del fiume è stata posata già da due anni la prima pietra per la ricostruzione della Cattedrale della Risurrezione. Vengono in mente strani déjà vu: conosciamo il profilo della città già dai quadri di Chagall, e Vitebsk si sta sviluppando seguendo il modello dei quadri.
Traduzione di Chiara Nardone