12 Ott

Colori e musiche sull’orlo dei gulag

Scritto da Laura Putti – la Repubblica

Una mostra a Parigi sulle arti da Lenin a Stalin. Gli artisti si sentivano parte di un sistema di cui intuivano la pericolosità
PARIGI. Quattro anni dopo la bella esposizione sulla Musica del III Reich, la Cité de la Musique offre un seguito ideale. Da oggi (al 16 gennaio) è la Russia di Lenin e Stalin a riempire le sale espositive della Villette. Ma il titolo, Lénine, Staline et la musique, non rende giustizia a una mostra che per forza di cose non avrebbe potuto restare ancorata alla musica. Molto più ampia della precedente, offre al visitatore le consuete cuffie sulle quali cambiare musica davanti a ogni teca. Ma questa volta non è l´udito il senso più sollecitato: è la vista che si riempie di colori, di emozioni, di quadri bellissimi di autori spesso a noi sconosciuti, dall´avanguardia a un mirabile modernissimo realismo. Opere di pittori, i quali, proprio come i musicisti, i poeti, gli scenografi, i costumisti, gli attori, i danzatori, i fotografi, dopo la Rivoluzione di Ottobre si trovarono a fare parte di un sistema del quale, spesso fin dal principio, intuirono la pericolosità. «Alcuni, come Stravinskij, se ne andarono addirittura prima dell´ottobre 1917» dice Pascal Huynh, giovanissimo commissario della mostra, alla seconda esperienza dopo il “III Reich”. «Ma altri come Shostakovich, Prokofiev, Kachaturian, rimasero. Non sempre vivendo bene, soprattutto dopo l´arrivo di Stalin». I destini dei musicisti si unirono spesso a quelli di altri artisti. Eisenstein usò le musiche di Prokofiev (su piccoli schermi brani da Alexander Nevski e Ivan il terribile, figure amate dal regime staliniano), Malevic disegnò scene e costumi per Vittoria sul sole, opera cubofuturista di Kruchenyk e Matiuschin (del 1913, ma già di argomento rivoluzionario), nel 1929 La cimice di Majakovskij riunì la messa in scena di Meyerhold, le musiche di Shostakovich e le scene e i costumi di Rodtchenko, massimo fotografo dell´Unione Sovietica di quegli anni. «La rivoluzione politica del ´17 liberò straordinarie pulsioni creative», dice Pascal Huynh, «ma a un certo punto, specie dopo la morte di Lenin, la differenza tra arte popolare e arte colta divenne enorme. Per esempio, “colti” come Shostakovitch ebbero vita dura». Tanto che una piccola sezione è dedicata allo scandalo sollevato dalla Lady Macbeth nel distretto di Mzensk del ´34, opera ritenuta immorale e antirivoluzionaria in seguito alla quale Shostakovitch fu costretto a comporre melodie più adatte al popolo.
La mostra è divisa in due parti. La prima “Utopies” (tre sezioni: “Verso la Rivoluzione di Ottobre” con due quadri che valgono la mostra: un bellissimo ritratto di Lenin dipinto da Brodskij nel ´19 e la Festa in onore dell´apertura del secondo Comintern, 19 luglio 1920 di Kustodiev; “L´arte e la rivoluzione” con l´agghiacciante dipinto di Redko, Insurrezione, nel quale l´avvenire è già ben illustrato; e “Rivoluzioni sceniche” con le prime commemorazioni del Primo Maggio e gli spettacoli musicali di masse animate da esaltazioni rivoluzionarie che annunciano il realismo socialista ben prima dell´arrivo di Stalin) va dal ´17 al ´29. La seconda, “Realisme socialiste”, parte dalla “grande svolta” di Stalin nel ´29 e termina con la sua morte nel ´53.
«La cultura diventa soprattutto propaganda e fa parte del Comitato Centrale», dice Pascal Huynh. E se Lenin aveva avuto accanto, come responsabile della cultura, l´”illuminato” Lunatcharski, Stalin sceglie il terribile Zdanov. Accanto a bellissimi quadri (per quattro anni Huynh ha fatto avanti e indietro con la Russia e i suoi musei, e la mostra fa parte dell´Année France-Russie 2010) di Pimenov, Plastov o Chagall (Il violinista sul tetto, ma anche un raro autoritratto giovanile), alle fotografie dell´assedio di Leningrado, arrivano i gulag con la loro arte disperata, il teatro statale Goset della comunità ebraica e le danze e le musiche del ghetto.

 

04 Ott

L’arte del disgelo

Scritto da Valentina Parisi – il manifesto

Nell’età postmoderna il mito della modernità di inizio ’900 ha assunto una valenza arcaica? Riprendendo l’interrogativo di fondo posto da Roger Buergel nel 2007 a «Documenta» XII di Kassel, la articolata mostra Modernikon (curata da Francesco Bonami e Irene Calderoni alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino e visibile fino al 27 febbraio 2011) indaga il rapporto dell’arte contemporanea russa con l’eredità modernista e, in particolare, con quella sua specifica variante costituita dall’archeologia post-sovietica – reservoir visivo e concettuale cui hanno attinto almeno due generazioni di artisti. Volendo infatti accogliere l’ipotesi di Viktor Misiano secondo cui l’esperienza russa della modernità è inscindibile dalla parabola storica dell’Urss, il «moderno antico» di Buergel andrà ravvisato nei relitti sovietici fotografati dal quarantenne Sergej Bratkov nel ciclo Ucraina o nelle rovine del villaggio abbandonato di Shargorod, eternate nei suoi video da Vladimir Logutov (nato nel 1980). La tecnica del loop digitale permette all’artista di fissare l’espressione stupita dei soggetti ritratti in un paesaggio di macerie, come se la videocamera avesse colto l’istante sospeso tra lo scoppio di una bomba e la sua deflagrazione, come se l’esplosione metaforica di un mondo intero stesse avvenendo ancora davanti ai nostri occhi e non si fosse compiuta vent’anni fa.
Un eterno ritorno che è al centro anche degli enigmatici video di Viktor Alimpiev, dove attori professionisti inscenano coreografie dalla lentezza estenuante, raffinati tableaux vivant che rammenterebbero l’iconografia socialista se non fosse per la gamma cromatica soffusa, significativamente attestata sulle sfumature del rosa. Se la gestualità contratta delle giovani comparse di Alimpiev pare alludere a un rituale immobile, a una dinamica fine a se stessa, Anatolij Osmolovskij, performer radicale degli anni ’90, si incarica di mostrarci quel che resta di un pugno chiuso nel suo ciclo scultoreo Avanzi del fronte rosso. Stringendo una sostanza malleabile tra le cinque dita ripiegate e fondendo nel bronzo la forma così ottenuta, l’artista moscovita eleva un monumento paradossale all’assenza, alle lacune lasciate dall’ideologia, coronando così una riflessione più che decennale sulla scultura celebrativa sovietica. La medesima dialettica tra pieno e vuoto torna anche nell’omaggio a Rembrandt di Dmitrij Gutov che, assemblando materiali ferrosi di scarto, crea sorprendenti copie tridimensionali delle incisioni del pittore olandese, incastonandole poi in cornici sospese. O, ancora, nelle grandi sculture cave di legno nero di Stas Shuripa, che riproducono le planimetrie standard delle cosiddette chrushchevki, le case volute da Chrushchev per rimpiazzare gli appartamenti comunitari, ormai divenuti invivibili.
Uno dei leitmotiv della mostra è infatti la progettazione dello spazio – tema chiave del modernismo, non solo russo. E se Shuripa trasfigura un simbolo di degrado come la chrushchevka in un prezioso oggetto minimal, opposta è l’operazione del collettivo di architetti utopici Iced Architects che hanno appeso alla facciata della fondazione torinese un’unità abitativa parassitaria, una sorta di accogliente nido teoricamente destinato ai senzatetto della città. La forza visionaria delle avanguardie è tornata attuale? Questo sembra suggerire la mostra torinese che, nell’accogliere il testimone offerto da Parigi (il 2011 sarà infatti l’anno del gemellaggio culturale tra Russia e Italia), ha il pregio di operare scelte meno «classiche» rispetto ai contrappunti d’autore del Louvre.

 

29 Lug

Sorprendente Vitebsk. Piazze come tavolozze per l’arte della rivoluzione

Scritto da Karl Schlögel – il manifesto

Dal 1917 al 1922, artisti come Chagall e Malevic trasformarono una cittadina della provincia russa in un grande laboratorio. Quel miracolo è ricostruito da uno dei massimi storici tedeschi nel nono capitolo della serie dedicata a tredici città del mondo 
Vitebsk, nella Bielorussia nordorientale, è oggi una città piuttosto isolata, di cui nel mondo si sa poco o niente. Eppure Vitebsk è stata un tempo il luogo di una esplosione artistica e estetica che ha ben pochi precedenti. Tra il 1917 e il 1922 si ritrovarono qui Marc Chagall, El Lissitzky e Kazimir Malevic in un laboratorio nel quale la creatività dell’epoca si espresse in un modo che ci lascia ancora senza fiato. Come è stato possibile che una città governativa russa sia riuscita per un breve periodo a diventare un centro della modernità europea?
Qui furono realizzate opere che ancora oggi affascinano il mondo e che, per la loro portata radicale, hanno tuttora il potere di scuoterlo: i chiaroscuri di Chagall che raffigurano lo Shtetl, il manifesto di El Lissitzky Batti i bianchi con il cuneo rosso, del 1920, e le copertine realizzate da Malevic appartengono all’inventario iconografico del ‘900. Da allora Vitebsk è stata travolta da un uragano di violenza – una guerra, durante la quale la città venne rasa al suolo e la popolazione ebraica, più della metà della città, fu sterminata. Per decenni Vitebsk sprofondò nel silenzio. Ma poi, per quella che con i suoi 350mila abitanti è stata la seconda città della Bielorussia, i tempi sono cambiati, tanto che oggi si parla di un «rinascimento di Vitebsk».
Un’arca di Noé in provincia
Certo, riuscire a riconoscere la città che Chagall aveva catturato nelle sue litografie e nel dipinto La Casa Blu oggi è difficile. Vitebsk fu un tempo il centro del classicismo bielorusso-lettone e nel Settecento il fulcro delle attività del celebre rabbino Shneur Zalman (fondatore della scuola chassidica Chabad-Lubavitch, ndr). I tremila ebrei che vivono oggi in città vi si sono stabiliti quasi tutti dopo la guerra e hanno ancora oggi una sola sinagoga, situata fuori città, sulla via Kolchosnaja. Entrambi i cimiteri ebraici sono da molti anni dismessi e trasformati in parchi. Nel XIX secolo Vitebsk era, all’interno della Zona di Residenza, una delle città con il più alto tasso di crescita della popolazione ebraica, probabilmente perché da lì ci si poteva muovere verso le grandi città dell’impero russo, San Pietroburgo e Mosca, o verso l’Europa occidentale, per emigrare o per studiare.
Dovettero accadere parecchie cose per fare di Vitebsk ciò che divenne, per più di cinque anni, a partire dal ’17 – uno straordinario laboratorio di esperimenti artistici. A questo naturalmente contribuirono diversi fattori. Nel 1918 Chagall fu nominato Commissario per le Belle Arti e dovette organizzare i festeggiamenti per il primo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Dai documenti risulta che allora Vitebsk era un luogo di rifugio e di esilio, un’Arca di Noè sulla quale si poteva attendere la fine della guerra civile. Così man mano si riunirono qui personaggi di primo piano provenienti dalle grandi città che, per un certo periodo, trasformarono Vitebsk in una capitale dell’arte.
Giunsero El Lissitzky, ingegnere e grafico, teorico del costruttivismo, e Kazimir Malevic, autore del Quadrato Nero e caposcuola del suprematismo, e per breve tempo si unirono a loro anche i pittori Mstislav Dobuzhinskij, Robert Falk, Kseniya Boguslavskaja e Ivan Puni, che Chagall aveva conosciuto durante i suoi anni a San Pietroburgo. Rudolf Ungern-Stenberg, allievo di Mejerchol’d, e Nina Kogan, esponente del balletto suprematista, rappresentavano la danza e il teatro. Lo storico e critico musicale Ivan Sollertinskij, figlio di un giudice di Vitebsk, il direttore d’orchestra Nikolaj Malko, che si era formato a Monaco con Felix Mottl, e la famiglia Judin, in particolare Marija Judina, che in seguito divenne una famosa pianista, animavano la vita musicale. La filosofia e la teoria estetica erano presenti nelle persone di Moisej Kogan, allievo di Cohen a Marburg, di Lev Pumpjanskij, teorico dell’arte e – non ultimo – di Michail Bachtin, i cui studi su Dostoevskij hanno fatto scuola. Giunse a Vitebsk anche Lazar Chidekel, uno dei più importanti architetti visionari. Ma pure altri settori dell’arte erano ben rappresentati, dalla scultura, all’arte tessile, al design.
Durante l’organizzazione per i festeggiamenti del primo anniversario della rivoluzione d’Ottobre Sergej Ejzenstejn,trovandosi di passaggio scrisse: «La città è abbastanza singolare. Qui nelle strade principali i mattoni rossi sono dipinti di bianco e, per terra, sul bianco sono dipinti cerchi verdi. Quadrati arancioni. Rettangoli blu. Questa è Vitebsk nel 1920. Il pennello di Kazimir Malevic è passato sui mattoni. Da questi muri risuonano le parole: le piazze sono le nostre tavolozze». Degli ottantamila abitanti di allora, si calcola che sessantamila presero parte ai festeggiamenti. Quegli schizzi e quelle tele, ancora conservati, sono oggi esposti nei musei di tutto il mondo, preziosa materia prima dell’avanguardia russa.
Da città governativa dell’impero, Vitebsk era diventata la roccaforte della rivoluzione. Alcune delle sedi principali della «Vitebsk Connection» esistono ancora oggi. Il Club lettone, ex edificio scolastico, è oggi la scuola materna n° 29, mentre sul portale dell’edificio neoclassico di una banca in via Pravda una targa ricorda che tra il 1920 e il 1922 la rivoluzione estetica aveva stabilito qui il suo quartier generale: i Laboratori d’arte indipendente, in particolare l’Unovis, gruppo dei «Compagni dell’Arte Nuova».
La breve estate dell’anarchia
L’intera città diventò il luogo di un sensazionale allestimento ma anche di infinite chiacchierate. Era possibile assistere agli incontri in cui Malevic e El Lissitzky definivano le loro teorie. Nel giardino d’infanzia fröbeliano Bachtin e Kogan discutevano. Bachtin, docente di estetica al Conservatorio popolare, parlava di Richard Wagner e del dramma musicale, di Cajkovskij e del Romanticismo russo, di Skrjabin e del mistero cosmico. Nella sinagoga di via Suvorova c’era un’Università ebraica comunista. Marija Judina, di cui Stalin in seguito avrebbe avuto paura, teneva concerti. El Lissitzky presentò qui il progetto di una tribuna per gli oratori che riprendeva la forma di una gru.
Altri si stavano già preparando per l’esilio, come il menscevico Grigorij Aronson, che andò prima a Berlino e poi in America. E altri ancora riuscirono in vent’anni ad avere una straordinaria carriera: per esempio Nikolaj Ezhov, che iniziò lavorando nei cantieri della ferrovia Riga-Orjol e che nel 1937 avrebbe scatenato il terrore stalinista.
In alcune foto di gruppo i protagonisti del Laboratorio di Vitebsk sono ritratti armoniosamente l’uno accanto all’altro; Chagall, Malevic, El Lissitzky, Suetin. Ma la domanda resta la stessa: cosa è dovuto accadere per arrivare a una tale esplosione di creatività artistica? Per gli artisti provenienti dalle metropoli quella cittadina di provincia era il posto giusto dove sopravvivere durante il caos della guerra civile. D’altra parte, anche la «breve estate dell’anarchia» tra la distruzione del vecchio regime e l’affermazione del nuovo potere ha avuto un ruolo significativo. Tutto sembrava possibile. Agli artisti toccarono per la prima volta, in modo del tutto inaspettato, mezzi finanziari e un potere quasi illimitato. Da artisti e bohémiens, che avevano trascorso gli anni dell’apprendistato negli atelier di Montparnasse – come nel caso di Chagall – erano diventati Commissari dell’arte in camicia russa e giubbotti di pelle. Il linguaggio dell’Unovis – «Vogliamo, Vogliamo, Vogliamo» – è il linguaggio di chi ha la capacità di conferire a se stesso il potere. Ma forse quella grande messa in scena di strade e piazze era soltanto un ripiego: se ormai non si poteva più costruire la città nuova, almeno la si poteva dipingere attraverso la fantasia.
Molto era già stato delineato prima della rivoluzione: l’idea dell’opera d’arte totale, l’annullamento del distacco tra vita quotidiana e arte, il superamento dell’abisso tra gli attori sul palco e il pubblico passivo. Le tessere annonarie venivano disegnate dagli artisti, il pubblico giudicava i pezzi teatrali. La città aveva già accumulato forze, aveva solo bisogno di un catalizzatore per unirle e per mettersi di nuovo in gioco. Un punto di cristallizzazione fu certamente rappresentato dalla personalità del pittore Yehuda Pen: nella sua scuola studiò non solo Chagall, ma anche lo scultore Ossip Zadkine. Pen è sepolto nel cimitero ebraico di Vitebsk, e gode ancora oggi di una grande reputazione.
Fu molto importante anche il fatto che Vitebsk non era una meta irraggiungibile, ma una tappa delle tournée dei maggiori attori e musicisti europei. Era dunque una città aggiornata. C’erano una buona orchestra, teatranti esperti, un gruppo quasi inesauribile di musicisti, che – osservò una volta Chagall – aspettavano solo di poter lasciare da parte il Klezmer per dedicarsi alla Sesta Sinfonia di Cajkovskij.
Lo Shtetl era pieno di giovani ebrei ambiziosi, che volevano fare affari. Proprio in luoghi come Vitebsk appunto il mondo arcaico dello Shtetl poté incontrarsi con la modernità delle grandi città europee e si riuscì a raggiungere un affiatamento tra le arti che probabilmente, in tempi di pace, sarebbe stato impossibile. Gli artisti si trovarono di fronte un pubblico prostrato dalla guerra e dalla rivoluzione, ma anche assetato di sapere e bisognoso di svago, che non tollerava più le barriere sociali. Qui crebbero rapidamente la cultura della grande città e quella della provincia, l’esperienza del balletto di San Pietroburgo e le fiere annuali, le sinfonie e le compagnie di musicisti, l’iconoclastia e l’ispirazione, tutto insieme. Era un mondo in cui non c’era ancora la cortina di ferro, e le traduzioni di Cassirer e Cohen potevano essere pubblicate senza grandi ritardi. Era il tempo in cui tutte le questioni sull’arte moderna e tutti gli ismi – realismo, surrealismo, futurismo, funzionalismo – erano maturati. E c’era solo bisogno di quel momento catalizzatore in cui nell’esistente si inserì qualcosa di totalmente nuovo.
Curiosi déjà-vu
Bachtin, insegnante di estetica al Conservatorio popolare di Vitebsk e in seguito prigioniero nei Gulag, coniò per questa coincidenza di spazio e tempo in un preciso luogo il termine «cronotopo». Ciò che qui per un breve periodo confluì in unica direzione, prese ben presto strade diverse: verso l’esilio (Chagall, Punin), verso la migrazione interna (Malevic, Judina) e verso il confino (Bachtin).
Oggi assistiamo a un rinascimento di Vitebsk con mostre, simposi, letture, pubblicazioni. Vitebsk ha un suo gruppo di sostenitori : i Pro-Bachtin e gli Anti-Bachtin, i fan di Malevic e di El Lissitzky, i teorici del carnevalesco e del cronotopo e naturalmente tutti quelli che vengono in città per Chagall. Ma si può considerare il rinascimento anche a livello letterale:stanno ricostruendo dalle basi la vecchia Vitebsk. Nella piazza del Municipio vengono ricostruite le chiese di San Nicola e di Sant’Antonio, sulla sponda del fiume è stata posata già da due anni la prima pietra per la ricostruzione della Cattedrale della Risurrezione. Vengono in mente strani déjà vu: conosciamo il profilo della città già dai quadri di Chagall, e Vitebsk si sta sviluppando seguendo il modello dei quadri.
Traduzione di Chiara Nardone
09 Ott

RASSEGNA STAMPA 

RASSEGNA STAMPA 

“Il più sorpreso è stato l’ambasciatore russo a Berlino. All’improvviso si è ritrovato in città la mostra probabilmente più grande che sia mai stata organizzata in Europa sul Realismo socialista. (…) Un progetto realizzato nella capitale tedesca in occasione del ventesimo anniversario della caduta del Muro (…) l’esposizione ‘Dietro la cortina di ferro’ è una (parziale) rivalutazione dei risultati di un periodo che per le arti non è certamente stato libero, una revisione dell’idea che la creatività fosse stata del tutto azzerata sotto la dittatura”

  • Detras del telon de acero. El arte del realismo socialista, Nieva en la playa del silenzio,16 ottobre 2009
  • Gabriela Walde Warum Lenin jetzt mitten in Mitte posiert, Berliner Morgenpost, 17 ottobre 2009
  • Gabriela Walde Warum Lenin jetzt mitten in Mitte posiert , www.morgenpost.de, 17 ottobre 2009
  • Behind the iron curtain, www.undo.net/pressrelease,  17 ottobre 2009

“For the first time in Europe, an exhibition will be presented, which is focused specifically on narrating the art historical period of Socialist Realism in the former Soviet Union. (…) These paintings represent an extraordinary cross-section of the everyday life of that time and conjure up the anxieties and emotionality of artists in an atmosphere of apparent calm and determination.”

“(…) Even though they were executed according to precise instructions from the political leadership of the U.R.S.S., the artworkstestify to humanity and individual experience to an extraordinary and exciting mixture of struggle, joy and sorrow”

“(…) So in a strange twist o history, just as the avant-garde art banned by the Soviet regime was viewed again, Socialist Realism, discarded so quickly in the late ‘80s, may be going to though its own reinassance. (…) The quest to bring the collection together began nearly five years ago, not much time to find so many paintings scattered the across the former Soviet Union

  • La Gazette Drouot, 23 ottobre 2009
  • Tom Mustroph, Die Lenin-Zeitmaschine ,www.neues-deutschland.de, 24 ottobre 2009
  • AAVV, Behind the iron curtain, www.exberliner.com, 24 ottobre 2009
  • Stefanie Kinsky, Kitsch oder Kunst – Sozialrealismus in Berlin, www.expose-berlin.de, 24 ottobre 2009
  • Exponen en Berlin arte que escondia el Telon de Acero,  www.elfinanciero.com, 4 ottobre 2009
  • Vanessa Thorpe, Twenty years after comunism’s fall, Stalin’s favourite art is back in fashion, The Observer, International edition,  New York, 25 ottobre 2009

“(…) A new and remarkable exhibition in Berlin is displaying the first ever collection of 300 classics of genre. And, according to some art specialists, it may be the beginning of a revival of interest in a form that up to now has been dismissed as mere propaganda. (…)”

  • Vanessa Thorpe, New exhibition in Berlin brings forgotten. Soviet art back to reality, TheObserver,www.guardian.co.uk – London,25 ottobre 2009
  • Georgina Adam, Distress sales, iron curtain art and France’s Turner Prize, Financial Times,31 ottobre / 1 novembre 2009 

“Russian ‘socialist realism’ was the Soviet orthodoxy from the 1930s onwards. Artists employed by the state recorded the heroism of Soviet industry or depicted happy peasants and workers exceeding their quotas. (…)” 

“(…) Dietro la mostra, che conduce a Berlino pere appartenenti a collezioni private italiane, l’intenzione di riscoprire un genere artistico, con le diverse personalità e sensibilità che lo hanno interpretato. Non una ricognizione dal sapore ideologico, ma piuttosto una passeggiata consapevole fra le varie tecniche e stili di quel periodo così prolifico.”

“(…) un’operazione intelligente che fa il punto non solo su una stretta di potere che produsse, guarda un po’, persino alcuni bellissimi quadri, ma anche sulle vicissitudini di queste opere dopo la caduta dell’URSS. (…)  Lì c’è un’idea, l’idea più semplice, quella che a Milano non trovi quasi mai: l’idea di una conoscenza, di un allargamento del sapere. (…)”

  • Danilo Taino Contrordine, sono capolavori, Corriere della Sera – Io Donna, 14 novembre 2009

“(…) L’effetto della mostra è che stupisce, apre una finestra su una forma d’arte consegnata alla spazzatura della storia almeno da vent’anni, quando il Muro di Berlino a la Cortina di Ferro crollarono. Ma che spazzatura non è affatto. Dalla fine dell’impero sovietico, di realismo sovietico non si è quasi più parlato e questa è infatti la mostra più grande sul genere mai realizzata in Occidente. (…)”

  • Sinan Balta, Berlin’de ‘Sosyalizm Gerçeği’ sergisi , Yeni Hayat, Neues Leben,12-26 novembre 2009
  • Roxana Azimi, Lenin et Staline à l’épreuve du marché, L’oeil, N°619, dicembre 2009
  • Massimo Boffa, L’arte ai tempi di Stalin spiega perché il comunismo è ancora tra noi,  Il Foglio Quotidiano, 23 gennaio 2010
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