01 Mar

Il fascino (bulimico) dei collezionisti borghesi

Scritto da PHILIPPE DAVERIO – CORRIERE DELLA SERA

Robert Sterling Clark, classe 1877, era figlio di famiglia, buona s’intende, il che per l’America d’allora voleva dire molto ricca. Discendeva per via materna da Isaac Merrit Singer, inventore dell’inventabile ma soprattutto della macchina da cucire con la quale fece una tale fortuna che a sessant’anni, dopo aver avuto 24 figli, se n’andò a vivere in Inghilterra come un lord in pensione. Viveva già a Parigi da dieci anni per evitare la guerra civile americana e aveva optato per l’Inghilterra in modo da evitare i fastidi della guerra franco-prussiana. Sua figlia Winnaretta sposò comunque francese, prima il principe Louis de Scey-Montbéliard, matrimonio immediatamente annullato per consentire il secondo matrimonio col secondo principe, un simpatico sessantenne, gay e melomane, Edmond de Polignac, che ebbe la buona idea di lasciarla presto vedova: lei divenne la patronessa della musica parigina, da Debussy a Poulenc, passando da Satie a Savinio. Anche Robert Clark, giovin nipote passò da Parigi prima di laurearsi a Yale. Poi girò l’Oriente, da militare e da esploratore, ritornò a Parigi e sposò una bella attrice. Assieme iniziarono a collezionare, l’antico e il moderno, Piero della Francesca e gli impressionisti. Non andava più di tanto d’accordo coi fratelli ai quali già lo legava una comune fondazione filantropica; fece la sua propria fondazione che oggi è uno dei maggiori musei americani della East Coast, nel Massachusetts. Il primo quadro, un bel Renoir, lo comperò forse ancora da scapolo nel 1916, quando anche Gertrude Stein comperava con passione. Non molto dissimile la sua storia da quella dei coniugi Phillips a Washington. Duncan Phillips, classe 1886, erede di banchieri e magnati dell’acciaio, collezionò negli stessi anni gli stessi impressionisti e la collezione è oggi uno dei gioielli della capitale americana. Tutto dovuto al pensiero di Francis Scott Fitzgerald per il quale i ricchi americani, quelli d’allora beninteso, sono necessariamente intelligenti e belli? Non affatto: anche il museo Puskin a Mosca e una parte delle raccolte moderne dell’Hermitage a San Pietroburgo sono debitori d’un collezionismo borghese altrettanto illuminato, quello dei due mercanti imprenditori Sergej Shchukin e Ivan Morozov. Nelle loro case allegre e lussuose, con la Danse di Matisse appesa sugli scaloni, suonava Skrjabin. Uguali gli americani e i russi, separati solo dalla catastrofe rivoluzionaria? Sarebbe errore gravissimo di analisi storica, perché negli stessi anni un umile collezionista di Basilea, Rudolph Staechelin, mise assieme un’analoga collezione, oggi fondazione, e contemporaneamente lo facevano a Winterthur i Barbier Muller, forse ancor con maggior genialità perché mescolarono ai primi Kandinskij le raccolte d’oggetti antropologici, il tutto raccolto oggi a Ginevra, in rue Jean Calvin. Il fascino discreto della borghesia. Alla quale borghesia non erano estranei gli italiani se il giovane milanese Riccardo Jucker, svizzero di nonno e tessile come Morozov, se ne andava a Parigi nel 1918 per evitare i guai postbellici italiani a comperare i quadri cubisti di Picasso, come poco dopo avrebbe fatto De Angeli Frua, anche lui tessile ma pure patrono della nascita della Galleria del Milione a Milano e di quella di Ernst Beyeler a Basilea, oggi mirabile fondazione. Negli stessi anni il giovane Gianni Mattioli, commerciante tessile, iniziava a Milano una raccolta che oggi è documento formidabile: fece i suoi primi acquisti nel 1916 nelle mostre di palazzo Cova. È intrigante l’intelligenza artistica del protagonismo storico nei momenti di pulsione della storia. Il giovane generale Bonaparte, non particolarmente affinato ancora quando conquistò ventiseienne Milano nel 1796, scopre il fascino di Andrea Appiani e da lui si fa ritrarre. Il cardinal Federico Borromeo scopre subito il talento di Caravaggio, che come persona fisica non sembra affatto gradire, e gli acquista la Canestra oggi all’Ambrosiana. Così farà pochi anni dopo il nipote di papa Paolo V, un innegabile parvenu, il cardinal Scipione Borghese che capirà tutto del fascino caravaggesco e delle glorie scultoree di Bernini. I ricchi sono intelligenti, intuitivi, premonitori, ma solo talvolta. Oggi appaiono meno arguti e meno acuti, se aspettano i risultati delle aste per tuffarsi negli acquisti di beni artistici già conclamati e cari. Colpa loro o colpa dell’arte attuale?

15 Feb

LE MOTIVAZIONI DELLA COLLEZIONE E I SUOI OBIETTIVI

Ultimo aggiornamento Martedì 15 Febbraio 2011 18:31 Scritto da Alessandra Lucia Coruzzi e Hassan Bayati

Perché una collezione di dipinti del Realismo Socialista

Nelle diverse mostre sulla pittura russa del Novecento che si sono tenute in giro per l’Europa, e altrove, si è notato che dai dipinti dell’avanguardia storica – cubismo, futurismo e altro – si passa direttamente a quelli dell’arte contemporanea post-sovietica.

Che fine ha fatto l’arte prodotta in Unione Sovietica dagli anni Trenta agli anni Ottanta?

Eppure nella Russia contemporanea nei molti musei locali, regionali e nazionali sono custoditi ed esposti, in parte preponderante, dipinti appartenenti alla corrente artistica di quel periodo storico/politico e sociale, denominata Realismo Socialista.

In tutte le repubbliche che si sono rese autonome nel 1991 dall’ex Unione Sovietica, invece, i dipinti relativi al Realismo Socialista sono praticamente scomparsi dai luoghi pubblici, eccezion fatta, ma solo parzialmente, per i grandi musei.

Tali opere, oltre alla funzione di arredo, svolgevano soprattutto un’esplicita funzione pedagogica e divulgativa nonché di propaganda essendo finalizzati a contribuire al rafforzamento e alla difesa del Socialismo in Unione Sovietica.

La realtà è che vi è stato un processo di rimozione storica di vaste proporzioni.

Dai luoghi pubblici, palazzi e uffici governativi nazionali e locali, poste, caserme, scuole, ospedali e altro, le opere d’arte di quel periodo storico sono state materialmente rimosse.

La volontà di operare una rimozione materiale e simbolica ha avuto come conseguenza che  una grande parte delle opere d’arte di sessanta anni della  storia russa sia andata dispersa e distrutta.

Da qui è nata l’idea e il progetto di cercare di recuperare i dipinti del Realismo Socialista.

Le opere d’arte, pur se realizzate su precisa indicazione e commissione dello Stato e dei suoi dirigenti politici, rappresentano una testimonianza di umanità e di vita vissuta e sono state prodotte, spesso, con un’eccellente e sorprendente maestria d’esecuzione.

Va ricordato che gli artisti erano dipendenti dello Stato, non potevano né vendere né regalare le loro opere che erano di diritto proprietà del committente/Stato.

I dipinti in mostra, parte di una collezione più ampia, selezionati, raccolti e recuperati con cura negli anni, sono stati restaurati secondo criteri internazionali di reversibilità per conservali materialmente nel modo migliore: memoria di una lunga e travagliata fase storica di un paese, prima denominato Unione Sovietica e ora Russia, che ha avuto – e ha ripreso ad avere – un ruolo di assoluta importanza nella storia dell’Europa e del mondo intero.

Il proposito della mostra è di offrire una narrazione di quel tormentato ma fertile periodo artistico, senza alcun intento ideologico.

Infatti nel lavoro di restauro e di conservazione si sono fatte delle straordinarie scoperte che da sole possono testimoniare l’importanza di quella fase storica anche per l’arte:

–         le tele sono di materiale povero, principalmente pezzi di juta, tela di tende militari cuciti insieme, canapa e cotone non industriali: tessuti grezzi preparati manualmente secondo tecniche antiche

–         per la maggior parte anche i fondi delle tele non sono di tipo industriale ma preparati manualmente e artigianalmente, con materiali poveri, fino ad usare addirittura polveri cementizie recuperate dai cantieri o oli vegetali cotti

–         sotto il dipinto, attraverso analisi specifiche, si è rilevato che non vi è un disegno preparatorio. Solo questo fatto la dice lunga sul talento di questi artisti che rispettavano le proporzioni anche in quadri enormi – fino a 10 mq – eseguendo le loro opere di getto, spesso a spatola, con grande maestria pittorica

–         molte scritte sul retro narrano piccole storie di diversi straordinari artisti che facevano anche altri mestieri per poter sostenere se stessi e le proprie famiglie

–         ogni artista, pur dipingendo su commissione dello Stato e per esso, si è ritagliato un piccolo spazio per manifestare la propria umanità e visione della vita. Elementi che, se cercati con attenzione, si possono leggere in tantissimi particolari delle opere.

Sia il lavoro di recupero che di restauro conservativo sono stati un affascinante itinerario di scoperte continue. In particolare, la percezione di una emozionante alchimia: come difficoltà di ogni genere, povertà di mezzi, fatica, sofferenza, ricchezza interiore e maestria si siano fuse producendo risultati artisticamente e umanamente straordinari.

 Perché una mostra a Berlino di dipinti del Realismo Socialista

Perché Berlino è luogo simbolico per eccellenza, memoria di una profonda cicatrice, monito affinché non si producano altre ferite, determinazione a riprendere il cammino di un’Europa senza barriere.

Luogo emblematico di un mondo dove al posto di muri si costruiscano ponti.

Luogo emblematico per dialogare e viaggiare liberamente.

Terra di incontro e di inclusione e non di scontro e di odio ed esclusione.

Di pace e non di guerra.

 Perché per l’anniversario della caduta del Muro di Berlino

Perché la caduta del Muro e della Cortina di Ferro hanno emozionato il mondo intero segnando la fine della terribile fase storica della Guerra Fredda ed hanno assunto il ruolo simbolico della speranza della caduta di tutte le barriere, di tutti i muri che dividono la moltitudine umana. Primi tra tutti, il muro della povertà e il muro del razzismo.

Perché la caduta del Muro di Berlino e della Cortina di Ferro rappresenta oggi la coscienza di tutti noi che siamo necessariamente anche il prodotto di ciò che siamo stati.

Perché rimuovere un periodo storico è impedirsi anche di riflettere compiutamente su quello che oggi siamo e sul futuro che ci attende.

Perché dove è caduto il muro, tutti i muri – quelli dell’oppressione come quelli dell’oblio – possono crollare.

 Quali attese

L’arte è linguaggio universale che, senza barriere linguistiche o rigidamente razionali, può indurre a riflettere con l’intelligenza delle emozioni.

Perché quando è viva e sofferta testimonianza, travalica e trascende il messaggio che racchiude.

Diventa l’Arte dell’uomo, del pittore, dell’artista che esprime il bello, il colore, la forma, la voglia di vivere, i sentimenti e le emozioni: forme di conoscenza insondabili con altri mezzi.

Utilizza un linguaggio che, al fondo, ha poco a che fare con il committente, qualunque esso sia.

Preponderante diventa allora il linguaggio artistico dove è possibile riconoscersi, accogliendo la bellezza e le emozioni espresse, oltre ogni distinzione e soprattutto oltre ogni divisione.

Simbolicamente l’evento della caduta del Muro diventa occasione autentica per celebrare l’arte come linguaggio universale che unisce “oltre la cortina di ferro”, appunto.

Nessun ragionamento, per quanto magistralmente elaborato e strutturato, può trasmettere emozioni senza interferenze: fare poesia come solo l’arte sa fare.

L’aspettativa è che la mostra possa diventare itinerante per conservare, accudire e trasmettere memoria e per viaggiare metaforicamente, senza barriere di alcun tipo, dalla sofferenza alla gioia.

 

I curatori della mostra

Centro Studi e Ricerche d’Arte di Milano

(Alessandra Lucia Coruzzi e Hassan Bayati)

15 Feb

Alexander Deineka, ovvero l’arte del secolo rimosso

Scritto da FIAMMETTA CUCURNIA – Venerdì de la Repubblica

Il realismo socialista viene considerato un po’ kitsch, invece ha prodotto grandi talenti

Stanzija metro Majakovskaja (stazione Majakovskij). Una delle più vecchie e famose della metropolitana di Mosca. Dalla piazza, in cui si erge la statua del poeta rivoluzionario, si accede all’entrata. Senza pretese, di passaggio, perfino angusta. Poi però si imbocca la scala mobile che, ripida, porta giù, nel sottosuolo, a 34 metri di profondità. E lì, davanti agli occhi si apre uno spettacolo inatteso, incredibile. La sala, lunga 155 metri è spaziosa, leggera. Il pavimento di marmo lucido ricorda nei toni e nei colori i lavori di Malevic. Il soffitto è un cielo, tutto fatto di tasselli vetrati, come tanti fotogrammi di un film, che lo rendono arioso e vibrante, quasi vero. E magnifici mosaici, dietro i quali si nascondono le fonti di illuminazione, inseriti tra le doppie volte della stazione, raccontano una “giornata perfetta del Paese del socialismo”: le terre dei kholkhoz, le ciminiere della grande industrializzazione, le ore del lavoro, i divertimenti dei giovani… Uno spettacolo che ancora oggi colpisce per la sua modernità. Molti russi ricordano, o hanno sentito raccontare in casa, i primi mesi dopo l’inaugurazione, in quel terribile 1937 delle grandi purghe, quando la gente si accalcava senza sosta per potere ammirare, tra un treno e l’altro, l’opera forse più straordinaria e mirabile di Aleksandr Deineka (Kursk 1899 – Mosca 1969), il principale esponente del Realismo socialista, dell’arte monumentale degli anni Trenta e probabilmente dell’intero periodo staliniano.
A questo artista pieno di talenti, così caro alla Russia e così sconosciuto da noi, è dedicata dal prossimo 19 febbraio una mostra monografica al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Organizzata in collaborazione con la Galleria Tret’jakov di Mosca, curata da Matthew Bown, e intitolata Aleksandr Deineka. Il maestro sovietico della modernità, inaugura l’anno della cultura Italia-Russia che, in autunno, si chiuderà con due altri appuntamenti speciali: il Realismo socialista e l’arte di Aleksandr Rodchenko. Un bel modo per recuperare un frammento così significativo del Novecento russo, che è stato in qualche modo “rimosso”, e spesso, nell’immaginario collettivo di noi europei, si ferma a Kandinskij, a Tatlin o a Lentulov.
Dice il curatore italiano, Matteo Lafranconi: “Questa iniziativa ha anche lo scopo di capire il perché di questa rimozione. C’è una visione della modernità che tende ad avere categorie polarizzare attorno al formalismo e all’avanguardia. La guerra fredda, poi, ha fatto il resto, anche in termini di mercato. Così del Realismo socialista si è parlato sempre meno. Invece si tratta di un movimento artistico che ha riguardato un tempo molto lungo e un Paese gigantesco e ha prodotto un numero straordinario di opere e di grandi talenti”. Noi ce lo siamo perso. E la mappatura di questo fenomeno nell’immaginario mondiale è tutta ancora da venire. “C’è una grande resistenza, di marca ideologica. La prova sta proprio nella elevatissima qualità delle opere. Ed è un vero peccato che le cose stiano ancora così, a distanza di tanti anni dopo la fine dell’Urss”.
Solitamente, questo movimento artistico viene archiviato come qualcosa di kitsch. “Se ne sorride e si passa oltre” dice Lafranconi “come se fosse qualcosa di antropologicamente buffo. Invece è solo un fenomeno diverso, che si basa su un procedimento molto interessante di selezione formale, e che spesso non coincide con le categorie del bello che noi riteniamo aggiornate”.
Questo atteggiamento riguarda un po’ tutta la produzione intellettuale dei tempi sovietici. Le nostre librerie non propongono più da anni autori non dissidenti di epoca sovietica, come Sholokhov o Trifonov. E non abbiamo mai visto sui nostri schermi i tanti e preziosissimi film di quel periodo. È un tessuto di conoscenze che è stato tagliato, un buco enorme intagliato nel corpo del secolo scorso. Ora Roma tenta di riallacciare quel filo.
Deineka, con la sua genialità, è forse il personaggio ideale per avviare questo recupero. Un artista completo. Veniva chiamato il pittore giornalista, per il suo fissare sulla tela, e anche con la grafica, e sui giornali, e poi con tutti i materiali più inconsueti a cui poté accedere, quello che vedeva intorno. Il suo essere totalmente “sovietico”, dunque affidabile per il potere, gli permise di viaggiare e di attingere alla fonte dell’arte mondiale. Rappresentò la Russia nel ’37 all’Esposizione Universale di Parigi, dove il suo immenso pannello Gente illustre del paese dei Soviet gli valse un riconoscimento pubblico e una Medaglia d’oro alla pittura. Nel 1939, All’Esposizione Internazionale di New York ottenne il Primo Premio. Paradossalmente, proprio il fatto di essere considerato un artista “di regime”, che faceva storcere il naso al mondo libero, ha permesso a Deineka di essere così moderno e anticonformista nel suo Realismo. In un Paese tutto proiettato verso il futuro, verso il sol dell’avvenire, diremmo noi, fermarsi a guardare la realtà, immortalare l’attimo fuggente nel suo dipanarsi era un gesto rivoluzionario, di vera modernità. E quest’accusa, in Patria, gli fu rivolta più volte. Oggi, guardando una dopo l’altra le sue opere, si ricostruisce un pezzo di storia, l’atmosfera di un tempo, il sapore di un’epoca. Nella Mostra saranno presentati veri tesori custoditi nella Tret’jakov, nel Museo Russo di San Pietroburgo, e nel Museo di Kursk, città natale di Deineka. Vedremo tutti i dipinti più belli, molti mosaici che “suggeriscono l’idea dell’arte monumentale sovietica e dell’unità delle espressioni artistiche che è il concetto tipico di quel periodo”. E poi ci sarà la simulazione di una delle due stazioni metropolitane firmate Deineka, la Majakovskaja e la Novokuznezkaja, in cui ognuno potrà sperimentare il senso di grandiosità e di libertà creato dall’incastro perfetto di mille talenti: architetti, ingegneri, mastri vetrai, pittori…

14 Feb

Quegli «scarabocchi» derisi da Togliatti

Ultimo aggiornamento Martedì 15 Febbraio 2011 19:13 Scritto da Mirella Serri – Corriere della Sera

La guerra del Migliore contro le avanguardie che si ribellarono al realismo

«Tornammo a Roma gonfi di gioia. A Parigi tutto era esaltante…» . Non stava nella pelle per l’entusiasmo, per dirla con le parole di Pietro Consagra, la pattuglia di artisti— Accardi, Attardi, Sanfilippo, Turcato, Dorazio — che si arrampicava nel dicembre 1946 su per le stradine di Montmartre. Negli studi si riempivano gli occhi con le forme e i colori di Arp, Picabia, Man Ray, quasi per rifarsi dei tanti anni di arte autarchica a cui li aveva costretti il ventennio. Dopo questa grande bouffe di dadaismo, surrealismo, espressionismo, Consagra esultava: «I problemi di Guttuso non saranno più i nostri» . Non l’avesse detto: mai profezia fu più sbagliata. La strada non era per nulla spianata per gli adepti del gruppo di Forma 1 — vi aderiva lo stesso Consagra — o per i seguaci di Spazialismo e Nuclearismo, di Mac e del Concretismo, di Otto pittori e per altri ancora le cui opere saranno esposte al Museo d’arte di Ravenna nella mostra «L’Italia s’è desta. Arte in Italia nel secondo dopoguerra, 1945-1953» . Tutti questi artisti, che attingevano slancio ed energie dalla modernità, dall’Europa e dalla tradizione delle avanguardie, si rifiutarono di mettersi al servizio dei linguaggi più realistici e di immediata efficacia comunicativa. E si ritrovarono, quasi senza volerlo, coinvolti in un duro confronto-scontro interno alla sinistra. Fu tutto un tintinnar di lame nello Stivale in quegli anni postbellici e anche scrittori, uomini di spettacolo, filosofi e musicisti furono impegnati ad alzare barriere e a ostacolare le pretese dei «compagni politici» , così li chiamava Elio Vittorini. Il romanziere, di accuse e di cavillosi distinguo sui confini del fare artistico, ben se ne intendeva. Protagonista, sulle pagine da lui dirette del Politecnico, dell’acceso dibattito con il segretario del Pci sull’autonomia della cultura, tra le sue tante colpe aveva anche quella di aver dato spazio al pensiero filosofico-analitico di Bertrand Russell e di Wittgenstein che andava per la maggiore anche a Vienna e Berlino. Un duello finito, come tanti altri, con scomuniche e gran discredito («Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato» , Togliatti sbeffeggiava così l’abbandono del Pci da parte dello scrittore). Per non esser da meno del leader comunista, Luigi Longo, sostenuto da Mario Alicata, invadeva anche lui l’area della speculazione più moderna: attaccava Studi filosofici di Antonio Banfi, rivista rea di aver dato credito all’esistenzialismo francese. Nemmeno l’ambito musicale venne risparmiato. Il Migliore, accapigliandosi con Massimo Mila sulle composizioni di Shostakovic inviso alle autorità sovietiche e sulle sperimentazioni dodecafoniche, sosteneva: «Chi ha detto che dei problemi artistici debbano occuparsi solo i competenti?» . E Mila: «Chi ha detto che se ne debbano occupare gli incompetenti?» . Intanto, prima ancora dello sbarco nella penisola delle traduzioni dello stalinista Ždanov sulla partiticità delle opere d’arte, gli aderenti a Forma 1 si proclamavano «formalisti e marxisti» senza riconoscersi nel realismo dei Carrettieri che cantano o del Contadino che zappa di Renato Guttuso. Non bastava. Anche loro finirono nel tritacarne dei veleni e delle accuse di tradimento e pure al commissariato, venendo alle mani per diversità di vedute politiche con il pittore siciliano e con il suo «alter ego» , come Consagra aveva ribattezzato il critico d’arte Antonello Trombadori. Nel 1948 Roderigo di Castiglia (alias Togliatti) dava il colpo di grazia ai cavalieri dell’astrattismo. La mostra dell’Alleanza della cultura a Bologna era una «raccolta di cose mostruose» , di «errori e scemenze» e di «scarabocchi» . Dopo tante baruffe, Lionello Venturi nel presentare gli Otto pittori si sentiva di dover esibire un certificato di fedeltà: «Non sono chierici che tradiscono» . L’Italia s’era appena desta e già si stava assopendo in un crepuscolo di diktat e di richieste agli uomini di cultura tirati per la giacca dell’impegno civile e colpiti spesso al cuore, nella qualità dei loro prodotti (realismo finì per diventare sinonimo di «socialismo innovativo» e astrattismo di «conservatorismo di destra» ). Claudio Spadoni, curatore di questa bella rassegna, nella premessa al catalogo rileva che queste tumultuose esperienze di nuova arte del dopoguerra sono state dimenticate o sottovalutate in una lunga «storia di pregiudizi negativi» . Non era un caso. Il colore di quegli anni, lo sosteneva Pier Paolo Pasolini riferendosi anche alle tele di Guttuso, era uno solo: «Il rosso dell’operaio e il rosso del poeta, un solo rosso» . Gli artisti che non privilegiavano una sola tonalità e attingevano, sempre metaforicamente parlando, dalla variegata tavolozza delle avanguardie europee, furono vittime anche di pregiudizi estetici sui loro «scarabocchi» non progressisti e dovettero aspettare di essere ripescati dai sottoscala a cui erano stati destinati.

09 Feb

Ma quel Deineka era un vero pittore comunista

Scritto da Panza Pierluigi – Corriere della Sera

Anche se le relazioni postmoderne tra Italia-Russia sembrano cementate grazie al lettone di Putin e alle condotte della Gazprom, ci fu un tempo, diciamo lontano, in cui l’ ideologia e il totalitarismo la facevano da padrone.

Era «il secolo breve», anno domini 1935, e il massimo pittore del regime stalinista, Aleksandr Deineka, veniva nientemeno che ad abbeverarsi nella Roma superfascista al fine di coniugare il rosso della falce e martello con l’ estetica della classicità. Ne vennero fuori dei bei quadri di regime, in puro Realismo sovietico: atleti con la tuta Cccp che vincono, lavoratori che avanzano sicuri verso il sol dell’ avvenire, ragazze contente nei campi di grano, bandiere con il profilo dello zio Josif e tutto il bagaglio che oggi ci appare di ferrivecchi.

E così, sarà un bel vedere, il 17 febbraio, l’ inaugurazione della mostra «Aleksandr Deineka. Il maestro sovietico della modernità» al Palazzo delle Esposizioni di Roma, evento inaugurale del programma diplomatico di scambio culturale italo-russo (2011 Anno di Italia-Russia). Più di ottanta capolavori, provenienti oltre che dalla Galleria Tret’ jakov anche dal Museo Statale di San Pietroburgo e dalla Pinacoteca Statale Deineka di Kursk, si articoleranno in un percorso che abbraccia l’ intera opera dell’ artista (esposizione a cura di Irina Vakar, Elena Voronovic e Matteo Lafranconi).

Un bel vedere perché, come annunciato ieri a Mosca, a tagliare simbolicamente il nastro ci sarà l’ uomo del nuovo corso del Cremlino, Dmitri Medvedev e poi l’ anticomunista per eccellenza, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Più l’ ex fascista e sindaco di Roma, Gianni Alemanno. Saranno loro a tagliare il nastro di un pittore comunista davvero, amico personale di Renato Guttuso, grande cantore dell’ epopea del comunismo italiano.

«La prossima settimana sarò in visita a Roma, dove insieme alle autorità italiane parteciperò al lancio dell’ anno della cultura e della lingua russe in Italia e della cultura e della lingua italiana in Russia», ha detto ieri Medvedev. «L’ annuncio della visita del presidente della Federazione Russa in occasione dell’ inaugurazione dell’ anno della Cultura Italiana in Russia e della Cultura Russa in Italia testimonia l’ eccellente livello delle relazioni culturali tra i due Paesi», ha risposto il ministro Sandro Bondi, per altro ex comunista.

Questa mostra, sarà solo il primo degli eventi dell’ anno dedicato agli scambi culturali Italia-Russia organizzati dagli ex ministri Giuliano Urbani e Mikhail Shvidkoy. Programmi che si concluderanno con l’ inaugurazione del restaurato Bolshoi di Mosca, che riaprirà dopo cinque anni il 2 ottobre 2011 con un balletto e il «Requiem» di Verdi eseguito dall’ Orchestra del Teatro alla Scala.

21 Gen

Russia nega opere d’arte agli Usa: «le sequestrano

Scritto da il manifesto

BENI CULTURALI
La Russia ha annunciato che sospenderà ogni scambio di opere d’arte (per allestire mostre) con gli Stati Uniti perché teme fortemente che i materiali da esposizione vengano sequestrati. A fomentare questa paura è stata la sentenza di un tribunale del distretto di Columbia che ha assegnato a un’organizzazione ebraica statunitense la proprietà di una collezione di libri e manoscritti rari del rabbino russo Shnerson, vissuto nell’Ottocento, appartenenti alla biblioteca statale russa. «Temiamo che tutte le opere non coperte da immunità diplomatica possano essere sequestrate», ha dichiarato il ministro della cultura Alexander Avdeyev. Le due diplomazie stanno lavorando alacremente per risolvere la «querelle». «Se non otterremo una garanzia di immunità al 100% sulle nostre opere d’arte – ha chiosato il ministro – non spediremo più nulla».

11 Gen

Scrittori russi in movimento

Scritto da Stefano Garzonio – il manifesto

Due volumi recenti, il saggio Letteratura russa contemporanea di Mario Caramitti, edito da Laterza, e l’antologia Russian Attack, pubblicata da Salani, propongono e rileggono testi usciti negli ultimi trent’anni. Tra le loro pagine un quadro della cultura nell’ex Urss, alla luce di un’idea di scrittura come pratica di resistenza ai cataclismi della storia e alle violenze della quotidianità

30 Ott

Eterno ritorno delle mitologie novecentesche

Scritto da Valentina Parisi – il manifesto

Nell’età postmoderna il mito della modernità di inizio ’900 ha assunto una valenza arcaica? Riprendendo l’interrogativo di fondo posto da Roger Buergel nel 2007 a «Documenta» XII di Kassel, la articolata mostra Modernikon (curata da Francesco Bonami e Irene Calderoni alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino e visibile fino al 27 febbraio 2011) indaga il rapporto dell’arte contemporanea russa con l’eredità modernista e, in particolare, con quella sua specifica variante costituita dall’archeologia post-sovietica – reservoir visivo e concettuale cui hanno attinto almeno due generazioni di artisti. Volendo infatti accogliere l’ipotesi di Viktor Misiano secondo cui l’esperienza russa della modernità è inscindibile dalla parabola storica dell’Urss, il «moderno antico» di Buergel andrà ravvisato nei relitti sovietici fotografati dal quarantenne Sergej Bratkov nel ciclo Ucraina o nelle rovine del villaggio abbandonato di Shargorod, eternate nei suoi video da Vladimir Logutov (nato nel 1980). La tecnica del loop digitale permette all’artista di fissare l’espressione stupita dei soggetti ritratti in un paesaggio di macerie, come se la videocamera avesse colto l’istante sospeso tra lo scoppio di una bomba e la sua deflagrazione, come se l’esplosione metaforica di un mondo intero stesse avvenendo ancora davanti ai nostri occhi e non si fosse compiuta vent’anni fa.
Un eterno ritorno che è al centro anche degli enigmatici video di Viktor Alimpiev, dove attori professionisti inscenano coreografie dalla lentezza estenuante, raffinati tableaux vivant che rammenterebbero l’iconografia socialista se non fosse per la gamma cromatica soffusa, significativamente attestata sulle sfumature del rosa. Se la gestualità contratta delle giovani comparse di Alimpiev pare alludere a un rituale immobile, a una dinamica fine a se stessa, Anatolij Osmolovskij, performer radicale degli anni ’90, si incarica di mostrarci quel che resta di un pugno chiuso nel suo ciclo scultoreo Avanzi del fronte rosso. Stringendo una sostanza malleabile tra le cinque dita ripiegate e fondendo nel bronzo la forma così ottenuta, l’artista moscovita eleva un monumento paradossale all’assenza, alle lacune lasciate dall’ideologia, coronando così una riflessione più che decennale sulla scultura celebrativa sovietica. La medesima dialettica tra pieno e vuoto torna anche nell’omaggio a Rembrandt di Dmitrij Gutov che, assemblando materiali ferrosi di scarto, crea sorprendenti copie tridimensionali delle incisioni del pittore olandese, incastonandole poi in cornici sospese. O, ancora, nelle grandi sculture cave di legno nero di Stas Shuripa, che riproducono le planimetrie standard delle cosiddette chrushchevki, le case volute da Chrushchev per rimpiazzare gli appartamenti comunitari, ormai divenuti invivibili.
Uno dei leitmotiv della mostra è infatti la progettazione dello spazio – tema chiave del modernismo, non solo russo. E se Shuripa trasfigura un simbolo di degrado come la chrushchevka in un prezioso oggetto minimal, opposta è l’operazione del collettivo di architetti utopici Iced Architects che hanno appeso alla facciata della fondazione torinese un’unità abitativa parassitaria, una sorta di accogliente nido teoricamente destinato ai senzatetto della città. La forza visionaria delle avanguardie è tornata attuale? Questo sembra suggerire la mostra torinese che, nell’accogliere il testimone offerto da Parigi (il 2011 sarà infatti l’anno del gemellaggio culturale tra Russia e Italia), ha il pregio di operare scelte meno «classiche» rispetto ai contrappunti d’autore del Louvre.

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